mercoledì 23 dicembre 2009

Buon Natale


Un sincero augurio di un sereno Natale a tutti!

lunedì 21 dicembre 2009

Questo è un paese che osa

Il Primo Ministro di Australia: John Howard
Ai musulmani che vogliono vivere secondo la legge della Sharia Islamica, recentemente è stato detto di lasciare l'Australia, questo allo scopo di prevenire ed evitare eventuali attacchi terroristici.
Sembra che il primo ministro John Howard abbia scioccato alcuni musulmani australiani dichiarando:
"GLI IMMIGRATI NON AUSTRALIANI DEVONO ADATTARSI!
Prendere o lasciare, sono stanco che questa nazione debba preoccuparsi di sapere se offendiamo alcuni individui o la loro cultura. La nostra cultura si è svilup-pata attraverso lotte, vittorie, conquiste portate avanti da milioni di uomini e donne che hanno ricercato la libertà.
La nostra lingua ufficiale è l'INGLESE, non lo spagnolo, il libanese, l'arabo, il cinese, il giapponese, o qualsiasi altra lingua. Di conseguenza, se desiderate far parte della nostra società, imparatene la lingua!
La maggior parte degli Australiani crede in Dio. Non si tratta di obbligo di cristianesimo, d'influenza della destra o di pressione politica, ma è un fatto, perché degli uomini e delle donne hanno fondato questa nazione su dei principi cristiani e questo è ufficialmente insegnato. E' quindi appropriato che questo si veda sui muri delle nostre scuole. Se Dio vi offende, vi suggerisco allora di prendere in considerazione un'altre parte del mondo come vostro paese di accoglienza, perché Dio fa parte delle nostra cultura. Noi accetteremo le vostre credenze senza fare domande. Tutto ciò che vi domandiamo è di accettare le nostre, e di vivere in armonia pacificamente con noi.
Questo è il NOSTRO PAESE, la NOSTRA TERRA e il NOSTRO STILE DI VITA. E vi offriamo la possibilità di approfittare di tutto questo. Ma se non fate altro che lamentarvi, prendervela con la nostra bandiera, il nostro impegno, le nostre credenze cristiane o il nostro stile di vita, allora vi incoraggio fortemente ad approfittare di un'altra grande libertà australiana: IL DIRITTO AD ANDARVENE. Se non siete felici qui, allora PARTITE.
Non vi abbiamo forzati a venire qui, siete voi che avete chiesto di essere qui. Allora rispettate il paese che VI ha accettati."

Ca c'est un pays qui ose
Le Premier Ministre d'Australie: John Howard
Les musulmans qui veulent vivre selon la loi de la Sharia Islamique se sont fait dire tout récemment de quitter l'Australie, dans le but de parer à d'éventuel-les attaques terroristes.
Apparemment, le premier ministre John Howard a choqué quelques musulmans Australiens en déclarant:
"LES IMMIGRANTS, NON AUSTRALIENS, DOI-VENT S'ADAPTER!
À prendre ou à laisser, je suis fatigué que cette nation s'inquiète à savoir si nous offensons certains individus ou leur culture. Notre culture s'est développée en luttes, d'habileté et de victoires par des millions d'hommes et de femmes qui ont recherché la liberté.
Notre langue officielle est l'ANGLAIS; pas l'Espagnol, le Libanais, l'Arabe, le Chinois, le Japonais, ou n'importe quelle autre langue. Par conséquent, si vous désirez faire partie de notre société, apprenezen la langue!
La plupart des Australiens croient en Dieu. Il ne s'agit pas d'obligation chrétienne, d'influence de la droite ou de pression politique, mais c'est un fait, parce que des hommes et des femmes ont fondé cette nation sur des principes chrétiens, et cela est officiellement enseigné. Il est parfaitement approprié de les afficher sur les murs de nos écoles. Si Dieu vous offense, je vous suggère alors d'envisager une autre partie du monde comme votre pays d'accueil, car Dieu fait partie de notre culture. Nous accepterons vos croyances sans poser de questions. Tout ce que nous vous demandons c'est d'accepter les nôtres, et de vivre en harmonie pacifiquement avec nous.
Ici, c'est NOTRE PAYS, NOTRE TERRE, et NOTRE STYLE DE VIE. Et nous vous offrons l'opportunité de profiter de tout cela. Mais si vous en avez assez de vous plaindre, de vous en prendre à notre drapeau, notre engagement, nos croyances chrétiennes, ou de notre style de vie, je vous encourage fortement à profiter d'une autre grande liberté Australienne. "LE DROIT DE PARTIR" Si vous n'êtes pas heureux ici, alors PARTEZ.
Nous ne vous avons pas forcés à venir ici. Vous avez demandé à être ici. Alors, respectez le pays qui VOUS a accepté!"

Questo è un paese che osa

Il Primo Ministro di Australia: John Howard
Ai musulmani che vogliono vivere secondo la legge della Sharia Islamica, recentemente è stato detto di lasciare l'Australia, questo allo scopo di prevenire ed evitare eventuali attacchi terroristici.
Sembra che il primo ministro John Howard abbia scioc-cato alcuni musulmani australiani dichiarando:
"GLI IMMIGRATI NON AUSTRALIANI DEVONO ADATTARSI!
Prendere o lasciare, sono stanco che questa nazione debba preoccuparsi di sapere se offendiamo alcuni individui o la loro cultura. La nostra cultura si è svilup-pata attraverso lotte, vittorie, conquiste portate avanti da milioni di uomini e donne che hanno ricercato la libertà.
La nostra lingua ufficiale è l'INGLESE, non lo spagno-lo, il libanese, l'arabo, il cinese, il giapponese, o qualsia-si altra lingua. Di conseguenza, se desiderate far parte della nostra società, imparatene la lingua!
La maggior parte degli Australiani crede in Dio. Non si tratta di obbligo di cristianesimo, d'influenza della de-stra o di pressione politica, ma è un fatto, perché degli uomini e delle donne hanno fondato questa nazione su dei principi cristiani e questo è ufficialmente insegnato. E' quindi appropriato che questo si veda sui muri delle nostre scuole. Se Dio vi offende, vi suggerisco allora di prendere in considerazione un'altre parte del mondo come vostro paese di accoglienza, perché Dio fa parte delle nostra cultura. Noi accetteremo le vostre credenze senza fare domande. Tutto ciò che vi domandiamo è di accettare le nostre, e di vivere in armonia pacificamente con noi.
Questo è il NOSTRO PAESE, la NOSTRA TERRA e il NOSTRO STILE DI VITA. E vi offriamo la possibilità di approfittare di tutto questo. Ma se non fate altro che lamentarvi, prendervela con la nostra bandiera, il nostro impegno, le nostre credenze cristiane o il nostro stile di vita, allora vi incoraggio fortemente ad approfittare di un'altra grande libertà australiana: IL DIRITTO AD ANDARVENE. Se non siete felici qui, allora PARTI-TE.
Non vi abbiamo forzati a venire qui, siete voi che avete chiesto di essere qui. Allora rispettate il paese che VI ha accettati."

Ca c'est un pays qui ose
Le Premier Ministre d'Australie: John Howard
Les musulmans qui veulent vivre selon la loi de la Sharia Islamique se sont fait dire tout récemment de quitter l'Australie, dans le but de parer à d'éventuel-les attaques terroristes.
Apparemment, le premier ministre John Howard a choqué quelques musulmans Australiens en déclarant:
"LES IMMIGRANTS, NON AUSTRALIENS, DOI-VENT S'ADAPTER!
À prendre ou à laisser, je suis fatigué que cette nation s'inquiète à savoir si nous offensons certains individus ou leur culture. Notre culture s'est développée en luttes, d'habileté et de victoires par des millions d'hommes et de femmes qui ont recherché la liberté.
Notre langue officielle est l'ANGLAIS; pas l'Espagnol, le Libanais, l'Arabe, le Chinois, le Japonais, ou n'im-porte quelle autre langue. Par conséquent, si vous dési-rez faire partie de notre société, apprenez-en la langue!
La plupart des Australiens croient en Dieu. Il ne s'agit pas d'obligation chrétienne, d'influence de la droite ou de pression politique, mais c'est un fait, parce que des hommes et des femmes ont fondé cette nation sur des principes chrétiens, et cela est officiellement enseigné. Il est parfaitement approprié de les afficher sur les murs de nos écoles. Si Dieu vous offense, je vous suggère alors d'envisager une autre partie du monde comme votre pays d'accueil, car Dieu fait partie de notre culture. Nous accepterons vos croyances sans poser de questions. Tout ce que nous vous demandons c'est d'ac-cepter les nôtres, et de vivre en harmonie pacifiquement avec nous.
Ici, c'est NOTRE PAYS, NOTRE TERRE, et NOTRE STYLE DE VIE. Et nous vous offrons l'opportunité de profiter de tout cela. Mais si vous en avez assez de vous plaindre, de vous en prendre à notre drapeau, notre engagement, nos croyances chrétiennes, ou de notre style de vie, je vous encourage fortement à profiter d'une autre grande liberté Australienne. "LE DROIT DE PARTIR" Si vous n'êtes pas heureux ici, alors PAR-TEZ.
Nous ne vous avons pas forcés à venir ici. Vous avez demandé à être ici. Alors, respectez le pays qui VOUS a accepté!"

venerdì 18 dicembre 2009

Stralcio da "L'ombra della ginestra"

Il pomeriggio di quel 26 agosto vide il campo ancora bagnato dalla pioggia del giorno prima, simile ad un pantano di erba e fango, ma i due eserciti si schierarono ugualmente, a dispetto di tutte le regole di guerra, ed attendevano solo un cenno per scagliarsi uno contro l’altro. Solo i cani ed i preti si aggiravano in mezzo a loro, indifferenti all’imminente scontro, gli uni uggiolando, gli altri benedicendo con una insopportabile litania che pareva già un lamento funebre, mentre tutto intorno il frinire delle cicale riempiva l’aria torrida.
Lothar se ne stava sulla sua cavalcatura, protetto dall’usbergo, con la barbuta sotto il braccio e la testa coperta dal camaglio, gli occhi luminosi rivolti verso il nemico e verso il proprio destino, pronto alla battaglia ed insofferente all’attesa. Dietro di lui i suoi uomini, un pugno di disciplinati e feroci soldati tedeschi che si sarebbero sacrificati, se necessario, per il loro comandante. Al suo fianco c’era il Principe Nero, come lui pieno di vita, di sogni di gloria e scalpitante come il suo destriero. Il loro contingente, per precauzione e dietro ordine del re, si trovava tra le divisioni del conte di Warwick, del conte di Oxford, di sir Raynold Cobhan, del conte di Northampton e del conte di Arundel.
Quella mattina erano stati tutti a messa, stretti intorno ad Edoardo III ed al suo giovane figlio; avevano pregato Dio di donar loro la vittoria per il bene e la grandezza dell’Inghilterra ed ognuno aveva fatto la comunione e ricevuto l’estrema unzione. C’era la certezza assoluta che Dio fosse dalla loro parte, perché sapevano di essere nel giusto e perché l’arcivescovo di York l’aveva ribadito più volte durante l’omelia. E se Dio era con loro, chi poteva vincerli?
Lothar si girò a sbirciare il suo giovane amico, rivestito con l’armatura nera che l’avrebbe reso famoso in tutto il mondo presente e futuro, la cotta d’arme con i colori rosso e blu del principe di Galles e scambiò con lui un tenue sorriso che racchiudeva l’inesperienza, l’esaltazione e la paura.
Vicino a loro, i contingenti di Captal de Buch, di John Despenser e Robert Willanghby, pronti ad immolarsi per l’erede al trono.
In quel momento si udirono le fanfare: il re, montato il suo destriero, con un’asta bianca in mano e con due ufficiali, tra i quali il suo ciambellano, si apprestava a passare in rassegna le truppe. L’intero esercito si irrigidì e gonfiò il petto davanti al proprio re, rimanendo muto e serrando le armi. Il suono della sua voce, che incitava all’onore di ognuno di loro, risuonò calda e dolce, e penetrò nell’animo di ogni singolo soldato, tanto che il morale degli uomini si rinsaldò più di quanto già non fosse e Lothar si sentì pervadere da un’ondata di eccitazione e di calore.
Quando Edoardo III passò davanti alla divisione del figlio, si arrestò un attimo, consapevole che quella poteva essere l’ultima volta che lo vedeva vivo. Entrambi si fissarono, entrambi fieri ed alteri nella propria rilucente armatura, entrambi consapevoli di ricoprire un ruolo dominante, entrambi certi di stare per scrivere una pagina di storia e con un semplice gesto della mano, il re cedette il comando delle operazioni al figlio neofita. Quindi, il cipiglio di Edoardo III si posò a lungo su Lothar, come a volergli intimare di vegliare su di lui, per poi passare oltre ed il sassone si girò a guardare il Principe Nero. Questi sorrise appena ma non proferì parola, limitandosi a tener calmo il proprio destriero.
Terminata la rassegna, al loro fianco si portarono le divisioni del conte di Northampton e del conte di Arundel, pronti a difendere fino alla morte l’erede al trono. A quel punto, il Principe Nero alzò un braccio ed i micidiali e famosi arcieri britannici, che facevano uso del potente e letale arco gallese, si schierarono davanti a loro a formare la punta di una freccia, così da racchiudere all’interno la cavalleria e, dietro di questa, i soldati.
Di fronte a loro, l’esercito francese, benché di molto superiore, non era affatto schierato e non riusciva a darsi una disciplina, tanto che la loro goffaggine provocò gli scherni da parte dei nobili inglesi. Lothar si guardò intorno, fiero dei soldati tedeschi schierati rigidamente, le facce apparentemente calme, ma in realtà tese nell’ansia dell’imminente scontro e si sentì quasi un dio sceso in terra, pronto a dare o togliere la vita. Era partito da Klagenfurt per riportare a casa un bel gruzzolo e poter in tal modo impalmare la dolce Gertrude, ma ora, in attesa del suo battesimo del fuoco, seppe con certezza che era lì in cerca di gloria e di un posto nella storia e poco gli importava se tornava a casa oppure no. L’adrenalina gli scorreva nelle vene come un fiume in piena e le narici dilatate tradivano l’ansia dello scontro, nel quale pregustava il momento in cui avrebbe ucciso.
Poi, di colpo, senza alcun preavviso, si udì un urlo spaventoso, che squarciò la relativa calma di Crécy ed i balestrieri genovesi si gettarono in avanti, sperando di spaventare il nemico e di disperderlo. Le fila inglesi si irrigidirono, ma il Principe Nero, fiero del suo primo comando e consapevole che il regale padre si era ritirato su un altopiano per osservare lo svolgersi della battaglia e del suo operato, non si mosse ed altrettanto fecero i suoi uomini. E non si mossero al secondo urlo, mentre Lothar sentiva il suo cuore partire al galoppo, senza capire se fosse paura od eccitazione incosciente.
Infine, i balestrieri genovesi scoccarono le loro frecce che si abbatterono sul nemico. Gli arcieri inglesi, a quel punto, ricevettero l’ordine di contrattaccare ed un nugolo di dardi si levò in cielo, ricoprendolo come una grossa nube minacciosa che si abbatté simile ad un uragano sull’esercito francese. Lothar rimase affascinato dalla momentanea eclissi di sole e seguì la traiettoria con impazienza, per poi urlare tutta la tensione trattenuta quando vide il nemico decimato. Un grido di liberazione si levò in campo inglese, quasi una ripetizione a quello di Lothar ed i soldati capirono che l’attesa angosciante era finita.
-Ci siamo. I genovesi si ritirano.- notò il Principe Nero tutto soddisfatto, indossando la barbuta, pronto alla battaglia. -Stammi vicino, Lothar.-
L’interpellato annuì ed indossò anche lui la barbuta, pronto allo scontro.
In quell’istante si udì, dalle fila inglesi, un roboante ed infernale boato che fece rizzare i peli a tutti i soldati, simile ad un’eco diabolica che mai orecchio umano aveva ancora udito. E quel boato si ripeté, terribile e spaventoso, come ad annunciare il giorno del giudizio. Erano i primi colpi sparati con il cannone, una nuova arma che aveva lo scopo principale di intimorire gli avversari con il forte rumore che faceva e che Edoardo III si era portato dietro in gran segreto. Ed il fronte francese vacillò, non sapendo bene contro chi stesse combattendo.
A quel punto, vista la situazione, Filippo VI ordinò alla cavalleria di ignorare i boati e di travolgere i terribili arcieri nemici. Come un tuono rombante, quasi in risposta ai cannoni britannici, i cavalieri francesi presero la rincorsa e si andarono a scontrare contro i fanti inglesi, molti dei quali vennero falciati; ma i restanti si ricompattarono dopo il primo attimo di smarrimento e lanciarono le frecce con tale velocità e rapidità che il fior fiore della cavalleria francese cadde sotto il tiro di quei meravigliosi arcieri. Non uno se ne salvò e quel giorno la Francia non solo perse la battaglia, ma tutti i suoi migliori cavalieri, mettendo la parola fine al periodo di gloria dei cavalieri a cavallo.
Fu il segnale: con un urlo, le divisioni inglesi si gettarono nella mischia, seguendo il Principe Nero che, da quel 26 agosto, rivelò le sue doti di stratega che lo avrebbero reso vittorioso in altre battaglie, tanto da farlo divenire uno dei migliori capitani del XIV secolo. Al suo fianco, Lothar lo seguì generosamente alla testa dei suoi soldati, indifferente alla propria incolumità, la spada in una mano e la lancia nell’altra, menando fendenti e colpi precisi e potenti. In più di un’occasione uccise per salvare la vita di Edoardo, esponendosi al pericolo di stare al fianco dell’erede ed una di quelle occasioni gli portò via la barbuta, lasciandolo con la testa protetta solo dal camaglio ed una ferita che gli apriva la fronte in orizzontale. Edoardo se ne accorse e gli rimase vicino per proteggerlo a sua volta, saldando il debito in più circostanze e piantando solide radici in quella giovane amicizia.
La battaglia proseguì sanguinosa per il resto del giorno e quando gli inglesi temettero di non farcela contro l’esubero dei francesi, Edoardo mandò un corriere da suo padre per chiedergli rinforzi.
-Nostro figlio è morto?-
-No, sire.- rispose il corriere, un araldo mingherlino, trafelato e sporco di sangue, gli occhi inconsciamente sgranati per l’orrore visto sul campo.
-E’ ferito? E’ caduto da cavallo?- s’informò con una calma glaciale.
-No, sire.-
Edoardo III, algido e sprezzante, il volto bello e sereno, volse lo sguardo alla battaglia, dove la mischia era più fitta e dove sapeva trovarsi il suo erede e rispose:
-Allora non c’è motivo per cui dobbiamo scendere sul campo. Finché ci sarà nostro figlio, a lui solo spetteranno la gloria e gli onori per i posteri. A lui ed a coloro che gli sono vicini.-
La battaglia proseguì ancor più cruenta, entrambi gli eserciti che non volevano cedere, mentre da ambo le parti uomini e bestie crollavano a terra con una sequenza impressionante.
Ludovico, che combatteva come un indemoniato al fianco del conte di Vaudémont, all’improvviso lo vide barcollare sul suo destriero ed un attimo dopo si rese conto che era stato colpito a morte da una lancia che gli trafiggeva il corpo come se fosse stato uno spiedino. Urlò qualcosa verso il suo comandante, provando ad avvicinarglisi, ma la foga della battaglia non glielo permise e dopo poco vide cadere il conte d’Aumàle ed il conte di Roucy, seguiti dal conte d’Alençon, dal conte di Blois e da tanti altri nobili. All’improvviso, con orrore, prese coscienza che l’esercito francese stava perdendo tutti i suoi comandanti e d’istinto si voltò verso l’Orifiamma, per assicurarsi che almeno il sovrano fosse ancora vivo. Quindi, con rinnovato ardore, riprese ad uccidere più inglesi possibile, maledicendo le guerre e tutti i potentati che agivano solo per puro egoismo.
Lothar, nel frattempo, continuava a destreggiarsi sul suo cavallo, menando fendenti con precisione e spietatezza, il fiato corto, il corpo madido di sudore e vedeva, di tanto in tanto, l’erede al trono che si batteva con ferocia, instancabile, regale sulla sua cavalcatura. Il coraggio e l’indomita passione del giovane principe riuscivano ad infondere maggior vigore ai combattenti che, benché stremati, accaldati e nauseati, si rianimavano e riprendevano il combattimento con ardore alla vista del loro comandante che non si risparmiava. Questo contribuì a spezzare la vita del re Giovanni di Boemia, che cadde eroicamente insieme al conte di Fiandra ed al duca di Lorena, lasciando i francesi senza capi.
Lothar ed i suoi uomini fecero del loro meglio per proteggere il principe, rimanendogli costantemente al fianco, ed in mezzo alla mischia Lothar si prese una freccia destinata all’erede, scoccata da un balestriere che aveva puntato Edoardo e che gli trapassò il braccio sinistro, finendo la sua corsa altrove. Il suo gemito richiamò l’attenzione di uno dei suoi uomini, che gli si avvicinò per constatare le sue condizioni e quel gesto fece voltare Edoardo, che sgranò gli occhi alla vista dell’amico che si tratteneva l’arto dolorante e sanguinante, comprendendo, dalla sua posizione, che si era frapposto tra sé e la freccia. Con un fendente preciso uccise un avversario, quindi si avvicinò all’amico e s’informò:
-Stai bene?-
Lothar lo sbirciò dal basso verso l’alto, visto che era appiedato, e provò a guardarlo attraverso la feritoia della barbuta sormontata da un leone.
-Sì, sto bene.-
A quella risposta, Edoardo esitò, notando il sangue colare lungo il braccio del sassone, e riprese a combattere solo quando Lothar gli fece cenno che tutto andava bene.
Quando, infine, la battaglia stava per volgere al termine, consacrando la vittoria inglese, Lothar incontrò Ludovico.
Entrambi appiedati, con le armi in pugno, si affrontarono per un ultimo combattimento. Si fissarono a lungo attraverso le tenebre che incombevano, ansanti e stremati, l’italiano che aveva ancora l’elmo in testa ma che mostrava una ferita sulla coscia, mentre il sassone grondava sangue dalla fronte e dal braccio e con un ultimo sforzo le loro spade si incrociarono. Si batterono a lungo, rendendosi conto di avere davanti un avversario temibile, che non si sarebbe risparmiato nonostante la sfinitezza. Lothar parava affondi e ne infliggeva, ansimando e bestemmiando per il sangue che gli colava dalla fronte sugli occhi, cercando di asciugarlo con la mano libera per avere una visuale maggiore, ma pareva che il fiotto non volesse smettere di uscire. Poi, all’improvviso, Ludovico, con un gesto preciso e svelto, degno di un cavaliere, tolse la propria barbuta per essere alla pari con l’avversario ed i loro occhi si incontrarono per la prima volta, mentre gli echi della battaglia svanivano per lasciare posto ai lamenti dei moribondi ed alle grida di giubilo dei vincitori. Per un attimo Ludovico, con la visuale libera dalla barbuta, esitò dinanzi a quello sguardo diabolico che pareva trafiggerlo, e transitò come un lampo nella sua mente l’impressione di battersi contro un essere inumano. Ma fu solo una frazione di secondo: il sangue vermiglio che inondava il volto ed il braccio del suo avversario lo rendeva fin troppo umano ed indubbiamente temibile.
Ansanti, grondanti sangue proprio ed altrui, con i corpi dei cadaveri e dei feriti che intralciavano i movimenti, continuarono a battersi come leoni, come se dall’esito del loro scontro fosse dipeso l’esito dell’intera battaglia, fin quando udirono una voce imperiosa ordinar loro di fermarsi. Entrambi si voltarono verso il Principe Nero, ancora sulla sua cavalcatura, l’elmo sotto il braccio, come se la battaglia lo avesse solo sfiorato, il chiarore della luna e delle stelle che riluceva sul camaglio e lo rendeva simile ad un dio e Ludovico, riconoscendolo, si gettò in ginocchio per rendergli omaggio.
-La battaglia è finita, cavalieri. Come potete vedere, lo stesso Filippo è rimasto ferito e si è salvato solo grazie al conte di Hainaut che lo ha portato via: l’Inghilterra ha trionfato.- annunciò loro. -Deponete le armi: è inutile spargere altro sangue, ne è stato versato fin troppo.- concluse guardandosi attorno.
Sfinito, con il fiato corto, Lothar infilzò la spada nel terreno, si pulì per l’ennesima volta il volto insanguinato e ringraziò Dio di essere ancora vivo; quindi posò una mano sul ragazzo genuflesso, mormorando in francese in modo da farsi capire:
-Siete mio prigioniero, cavaliere. Ma, poiché ho avuto modo di conoscere la vostra valenza, il vostro coraggio ed il vostro onore, vi lascio la libertà senza che paghiate il riscatto.-
Ludovico, che era rimasto immobile, consapevole di aver perso e che, come minimo, l’attendeva un lungo periodo di reclusione prima di tornare ad essere un uomo libero, se mai qualcuno avesse avuto voglia di pagare il riscatto, a quelle parole inattese sgranò gli occhi, come se non avesse ben capito; ma il sorriso compiaciuto che vide dipingersi sulle labbra del Principe Nero lo scosse e lentamente si volse verso Lothar. Lo guardò a lungo, mentre la luna risplendeva su quella giornata indimenticabile e sulle donne di Crécy che avanzavano in mezzo all’infinito tappeto di cadaveri e feriti per portare un aiuto a chi ne avesse avuto bisogno, mentre gallesi ed irlandesi infierivano sui cadaveri e sui moribondi, nella generale indifferenza.
Ludovico si rialzò mestamente, pieno di sangue altrui ed anche un po’ del proprio, scansando le mosche che gli ronzavano intorno e fece un inchino ad Edoardo, prima di girarsi a fronteggiare il sassone che lo aveva graziato.
-Vi devo la vita, cavaliere. Ho perso, ma è comunque un onore aver combattuto contro di voi. Io sono Ludovico Zen, veneziano.- rispose in francese.
-Lothar von Klagenfurt, tedesco.- si presentò. -L’onore è mio.-
-Vi ricorderò nelle mie preghiere.-
Lothar rimase in silenzio prima di annuire appena e, dopo aver ripreso la spada conficcata nella terra, si girò e tornò dal suo cavallo, recuperato per tempo dai suoi uomini.

domenica 22 novembre 2009

E il mondo non fu più lo stesso...

Tutto ebbe inizio con la fine delle guerre in Europa, nel 1870.
La cosa buffa, a pensarci bene, è che questo lungo periodo di pace, in cui alleanze e prosperità economica avrebbero dovuto dare stabilità, era in realtà un focolaio intestino di ciò che sarebbe accaduto in seguito, a partire dai francesi che, in Place de la Concorde, avevano drappeggiato di nero la statua di Strasburgo, ceduta l’11 maggio 1871 alla Germania assieme all’Alsazia ed alla Lorena. Se, da un lato, il cancelliere di ferro, il prussiano Bismarck, era stato ben felice di apporre la firma sul documento che gli permetteva di incamerare le due provincie francesi, dall’altra il popolo gallico avrebbe rimuginato e borbottato e covato sogni di rivincita fino al secolo successivo. Ma, se i francesi fremevano senza darlo a vedere, una parte dell’Europa, quella balcanica, scalpitava come se avesse avuto la febbre.
Ma andiamo con ordine.
Sullo scorcio del diciannovesimo secolo lo scacchiere politico europeo era composto per la maggior parte da grandi imperi: quello inglese, quello austro-ungarico e quello russo, i cui regnanti erano tutti imparentati tra loro, eccezione fatta per l’impero ottomano e quello nipponico.
Prendiamo lo zar di Russia, Nicola II. Quest’uomo mite, incapace di grandi decisioni, amante della quiete, aveva sposato Alessandra d’Assia, nipote della regina Vittoria, la quale, preso atto delle debolezze del marito, aveva impugnato le redini della casa imperiale ed aveva cercato di barcamenare il consorte nel difficile compito che gli competeva. Era di origini tedesche, in quanto il padre era il granduca d’Assia, mentre sua madre una delle figlie della regina Vittoria e fino alla fine avrebbe sempre supportato il marito nelle questioni di stato. La zarina Alessandra era, a ragion veduta, cugina del re inglese, Giorgio V, e del kaiser tedesco, Guglielmo II. Pertanto, Inghilterra, Germania e Russia intrattenevano rapporti amichevoli, almeno a livello personale, ed i rispettivi coronati erano certi che non si sarebbero mai fatti guerra, a dispetto del carattere bellicoso di Guglielmo II, poco amato dalla zarina. Questi, infatti, si sentiva molto più legato all’Austria di Francesco Giuseppe I che non al panslavismo russo, ed intratteneva cordiali rapporti di amicizia con l’erede al trono austro-ungarico, Francesco Ferdinando d’Asburgo d’Este. Lo spirito degli avi, guerrieri teutonici, lo animava e lo spingeva a superare in ogni modo la menomazione fisica che lo affliggeva, ossia l’atrofia al braccio sinistro, rendendolo scontroso, duro ed inflessibile.
Francesco Giuseppe I, al contrario del kaiser e dello zar, non era più giovane, avendo compiuto ottantaquattro anni e, come lui stesso disse, nulla gli era stato risparmiato dalla vita, dall’assassinio dell’amata moglie, l’imperatrice Sissi, al suicidio del primogenito Rodolfo a Mayerling e guardava con occhi più critici e cinici lo scacchiere politico. Il fardello di esperienze che gravava sulle sue spalle lo rendeva molto cauto, più simile al morigerato Giorgio V d’Inghilterra che non al bellicoso Guglielmo II; eppure aveva preferito come alleata la Germania, molto più simile come lingua, usi e costumi.
Il fatto che la Gran Bretagna possedesse un impero vasto come il Commonwealth, che possedesse una flotta da fare invidia, aveva spinto il kaiser ad intensificare gli sforzi bellici per poter gareggiare con il cugino Giorgio V. Questi, al contrario, lasciava correre, da perfetto gentleman inglese, pago del suo status e si godeva la tranquilla eredità della nonna, la regina Vittoria.


All’inizio del ventesimo secolo molti erano gli appetiti di vari stati, da quelli che sognavano un proprio impero, a quelli che, in piccolo, aspiravano ad un’autodeterminazione. Chi, più di tutti, soffriva tumulti intestini, era il vasto impero austro-ungarico di Francesco Giuseppe I. Le troppe minoranze etniche che lo formavano erano sempre sul piede della rivolta, tra cui la parte del nord Italia, mentre ruteni, polacchi ed ucraini guardavano alla Russia come loro protettrice. A suo tempo l’impero ottomano aveva concesso l’autonomia all’Albania, sotto la poderosa pressione dell’Austria che sperava di poter incamerare la Serbia. Ma questa, bellicosa e facinorosa, convinta che il predominio austro-ungario sulla Bosnia valesse ad impedirle uno sbocco al mare, per nulla intimorita dal vasto impero, aveva pensato bene di invadere l’Albania, libera dalla sfera ottomana, per poter godere di quello sbocco sul mare.
Il vecchio imperatore si era visto costretto a mandare un ultimatum alla Serbia, intimandole il ritiro delle truppe entro otto giorni o le parole avrebbero lasciato spazio alle armi. Il kaiser aveva plaudito l’ultimatum, sussurrando a denti stretti che la Serbia andava in qualche modo rimessa in riga. Ora, visto il panslavismo russo, era logico supporre che lo zar Nicola II, essendo paladino della regione balcanica, avrebbe risposto a tono all’ultimatun austriaco. Invece rimase in silenzio e la Serbia si vide costretta a chinare la testa ed a ritirarsi di mala voglia, rinunciando allo sbocco sul mare. Tutto questo accadeva nel 1913, nello stesso momento in cui la Bulgaria si conquistava uno sbocco sul Mar Egeo e l’accesso al Mediterraneo, ed un anno dopo che l’Italia si era annessa la Libia, e la Grecia si era annessa la Tracia, a spese dell’impero della Mezzaluna.
E’ facile supporre come le diplomazie fossero impegnate a reggere le sorti di ogni paese nel migliore dei modi e come si industriassero per abbracciare la volontà dei regnanti e sostenere l’opinione pubblica. Perché in tutto questo contesto di affanno diplomatico, di annessioni e focolai di ribellioni, aveva iniziato a soffiare un vento di libertà che i popoli anelavano e che non facevano dormire sogni sereni ai governanti. La vecchia aristocrazia aveva un bel da fare nel mostrarsi ai ricevimenti con lustrini ed ottoni lucidati a dovere: fuori dei palazzi signorili si ingrossava sempre più la tempesta della rivolta.
Cosa assai strana, questa ondata di libertà che tanto faceva impensierire, sarebbe stata alimentata dalla Germania per costringere la Russia ad una pace separata nel 1917. Chi finanziava e sosteneva Lenin, altri non era che la Germania di Guglielmo II per chiudere uno dei due fronti di guerra che la dilaniavano. Che poi tutti avversassero Lenin era un mero cavillo: al momento serviva per porre termine alla guerra e tutti chiudevano un occhio.
Ma questo è ciò che accadde in seguito.


Agli inizi del secolo, dunque, si auspicava una guerra allo stesso modo in cui la si paventava, sebbene al momento l’ultimatum alla Serbia fosse finito con un nulla di fatto.
Le alleanze reggevano e questo era ciò che contava. Eppure il semplice gesto della Serbia aveva mostrato chiaramente come fossero fragili e posate su basi d’argilla.
Sin dal 1882 la Germania, l’Austria e l’Italia si erano unite in una Triplice Alleanza e, di conseguenza, visto che la Germania gettava con troppa insistenza l’occhio verso est per cercare di annettersi la Polonia, la Lituania e la costa Baltica, la Gran Bretagna, la Francia e la Russia si erano a loro volta unite nella Triplice Intesa per contrastare qualsiasi azione perpetrata dai paesi alleati centrali. Era un’evoluzione della Cordiale Intesa stipulata a suo tempo tra Gran Bretagna e Francia per comporre dispute su Egitto e Marocco. Inoltre, nel 1907 la Gran Bretagna aveva siglato un patto con la Russia per dirimere le dispute in Persia ed Afghanistan, cosa questa che non era piaciuta alla Germania, la quale aveva relazioni con la Turchia. Dal canto suo, però, la Germania fin dal 1899 aveva iniziato la costruzione di una ferrovia che andava da Berlino fino a Baghdad e questo aveva fatto storcere il naso agli inglesi. Insomma, ci si divertiva a tirare un po’ troppo la corda da tutte le parti, confidando che la corda fosse in realtà un elastico che difficilmente si sarebbe strappato.
Tutto sommato, la pace persisteva ed i regnanti godevano di quel periodo prospero, illudendosi che sarebbe durato a lungo. Gli attempati regimi erano duri a morire, eppure l’ottuagenario imperatore aveva subodorato qualcosa di grave quando si era reso conto che il suo erede, l’arciduca Francesco Ferdinando, patteggiava per quei paesi slavi che lui sognava di assoggettare da una vita. Già il semplice fatto che l’erede al trono avesse deciso di convolare a nozze morganatiche la diceva lunga, ma l’idea che aveva di far divenire l’Austria-Ungheria un impero a tre, concedendo diritti anche agli stati slavi, faceva preoccupare non poco Francesco Giuseppe I. Suo nipote era un coacervo di sangue reale, così come l’impero che avrebbe ereditato. Nelle sue vene scorreva il sangue di Federico II di Svevia, di Carlomagno, di Carlo V, di Maria Teresa d’Austria, di Filippo di Spagna, di Luigi XII di Francia, di Eleonora d’Aquitania, di Maria Stuarda ed altri, compresi gli Este di cui portava il nome e questo macigno di responsabilità gli pesava. Era l’uomo nuovo che con le sue idee progressiste avrebbe potuto fare la differenza e fu a causa di ciò che lo zio imperatore gli aveva fatto solennemente giurare che i figli avuti da quel matrimonio non avrebbero mai campato diritti al trono. E lui aveva giurato, preferendo di gran lunga sposare la donna amata anziché una imposta per ragioni di stato.
Il guaio è che Gavrilo Princip ed i suoi complici non lo sapevano e quel 28 giugno del 1914 innescarono una bomba ad orologeria che sarebbe sfociata nella Prima Guerra Mondiale.


Il 28 giugno 1914 Guglielmo II era a Kiel per l’annuale kermesse di giochi, gare e rappresentazioni e stava lui medesimo gareggiando con il suo yacht, quando gli consegnarono un messaggio urgente: Francesco Ferdinando era stato assassinato a Sarajevo insieme alla moglie, dal diciannovenne Gavrilo Princip, un reazionario anarchico.
Il kaiser abbandonò la regata e rientrò immediatamente a Berlino e da quel giorno l’Europa diplomatica rimase con il fiato sospeso in attesa della reazione inevitabile dell’Austria. Era logico supporre che l’imperatore avrebbe dichiarato guerra alla Serbia per punire quell’atto inconsulto, e alleati di una e dell’altra parte rimasero con le orecchie dritte per capire come sarebbero evolute le cose.
Ma Francesco Giuseppe I, a dispetto dell’assassinio, che riteneva una giusta raddrizzata al timone dell’impero da parte di Dio, non pensò a dichiarare guerra come il kaiser si aspettava. Il vecchio imperatore, in realtà, temeva, al pari del primo ministro ungherese, conte Tisza, che una guerra contro la Serbia avrebbe messo in moto un meccanismo più grande di loro, perché la Russia non sarebbe rimasta a guardare. E la Russia era alleata di Francia ed Inghilterra ed il solo potenziale di uomini che aveva era spaventosamente alto.
Gugielmo II, invece, aveva inveito contro i serbi, giungendo a dire che occorreva sistemarli una volta per tutte e soffriva come sui carboni ardenti l’indecisione di Francesco Giuseppe I. Era incline a pensarla come il ministro degli esteri austriaco, conte Berchtold ed il capo di stato maggiore austriaco barone Conrad von Hötzendorf, i quali vedevano nell’assassinio l’occasione che attendevano da anni per annettersi la Serbia. Pur tuttavia l’imperatore nicchiava, l’opinione pubblica manifestava violentemente contro lo stato balcanico e le diplomazie avevano il fiato corto a forza di correre per portare notizie lungo tutta l’Europa.
A distanza di una settimana dall’assassinio, il kaiser, convinto che l’Austria dovesse dichiarare guerra prima che la Russia si fortificasse, se ne andò in crociera nelle acque norvegesi, certo, in realtà, che non ci sarebbe stato nessun conflitto.
E mentre lui si godeva il riposo, a Vienna si lavorava alacremente per decidere il da farsi. La maggioranza dei ministri era favorevole a dare una dimostrazione di forza alla Serbia, mentre il conte Tisza scongiurava l’imperatore di pensarci bene prima di prendere qualsiasi decisione, ventilando l’ipotesi che, di fianco alla Russia, sarebbe scesa in campo anche la Romania. Francesco Giuseppe I nicchiava, consapevole del pericolo e deciso ad evitarlo senza perdere la faccia.
Allo stesso modo del governo austriaco, anche il resto del mondo era diviso in due, tra coloro che fossero convinti non ci sarebbe stata una guerra e coloro che la chiedevano a gran voce. Gli stessi diplomatici, a distanza di tempo dall’assassinio, iniziavano ad aver dubbi sull’intenzione dell’Austria di muovere guerra. In effetti, c’erano da tener presenti diversi fattori: la stretta parentela tra regnanti, le economie, le alleanze, la sensazione che nessuno nelle alte sfere avesse intenzioni ostili e, non per ultima, la dichiarazione serba in cui si diceva, prima ancora che tutto accadesse, che la visita dell’arciduca a Sarajevo era poco opportuna visti i tumulti. E soprattutto questa dichiarazione, che Francesco Giuseppe I conosceva, lo lasciava propenso a non prendere nessuna iniziativa, come se si sentisse in colpa per aver concesso al nipote di fare comunque la visita a Sarajevo.


Per circa una ventina di giorni l’Europa visse in una sorta di limbo e la gente comune, dopo i primi attimi in cui i cuori avevano palpitato furiosamente, ricominciò a vivere senza più timore dello spettro di una guerra dalle fatali conseguenze.
Venti giorni che parvero rispecchiare in piccolo la fatua pace che vigeva dal lontano 1870; venti giorni in cui tutti credevano a tutto ed a nulla; venti giorni di febbrile ed intenso lavoro diplomatico, con i regnanti che continuavano a scambiarsi lettere affettuose rassicurandosi reciprocamente; venti giorni in cui i militari saggiavano le proprie forze e quelle contrarie, mostrando i muscoli come palestrati.
Venti giorni che fecero la differenza tra il vecchio ed il nuovo mondo.


Il 19 luglio 1914 il governo di Vienna stilò l’ultimatum, tutti i ministri certi che la Serbia avrebbe respinto le aspre condizioni poste in atto. Ormai aveva vinto la fazione bellicosa ed il velo della diplomazia stava per cadere.
Il 21 luglio Francesco Giuseppe I, dopo aver letto l’ultimatum, lo autorizzò e due giorni dopo l’intero mondo prendeva atto “del documento più duro che uno stato abbia indirizzato ad un altro stato”, come si espresse sir Edward Gray, ministro degli esteri inglese. La Serbia aveva solo ventiquattro ore per rispondere.
Per precauzione, Il 24 luglio la Russia decise di mobilitare tredici corpi d’armata in gran segreto, solo una parte dell’esercito, mentre il giorno seguente la prima corazzata tedesca salpava dal canale di Kiel verso il Mare del Nord. Anche l’Austria aveva iniziato a mobilitare, ma il suo farraginoso meccanismo le avrebbe consentito di giungere ad una mobilitazione completa non prima di venti giorni. In parole povere, con la lettura al mondo dell’ultimatum, i paesi si sentirono in dovere di armare, seppure in silenzio, sicuri che l’ultimatum sarebbe stato totalmente respinto e nessuno voleva trovarsi impreparato.
Il 25 luglio, vista l’aria che tirava, la Serbia mobilitò. Eppure, a grande sorpresa, accettò parte dell’ultimatum, consapevole di mostrarsi, in questo modo, sotto una luce conciliante e rimetteva la disputa sulla clausola più dura di tutte, quella che prevedeva la partecipazione dell’Austria all’inchiesta giudiziaria contro i colpevoli dell’assassinio, al Tribunale Internazionale dell’Aia.
L’accettazione remissiva della Serbia lasciò il mondo in sospeso, laddove tutti avevano pensato che solo un miracolo avrebbe potuto bloccare il lento meccanismo messosi in moto. Ed il miracolo era giunto: l’ultimatum veniva in gran parte accettato e tutti, ora, erano convinti che mostrare le piume come pavoni era solo una prova di forza destinata a rimanere tale. Lo stesso zar, che colse al volo l’occasione per dirimere la cosa in modo pacifico, chiese all’Austria di aprire negoziati con la Serbia, che furono prontamente respinti dal governo.
Il 27 luglio, al pari dello zar che auspicava negoziati, Londra tentò di convocare una conferenza delle quattro potenze, Germania, Gran Bretagna, Francia ed Italia allo scopo di trovare una via di uscita diplomatica a quella situazione di prossimo collasso. La Germania, come l’Austria con lo zar, non accettò ed il vertice non si fece.
Dal canto suo, il kaiser era convinto che la guerra tra Austria e Serbia sarebbe rimasta un conflitto circoscritto ai due paesi belligeranti e riteneva che la Germania non sarebbe mai scesa in campo se l’Austria avesse dato una raddrizzata a quel popolo irrequieto. Ad un amico, poi, aveva confidato che non voleva neppur sentir parlare di guerra, che l’avrebbe evitata in tutti i modi. Ma la condizione era che l’Austria colpisse duramente la Serbia in modo da liquidare la faccenda una volta per tutte nel giro di poco tempo. In questo il suo sangue teutonico traspariva a chiare lettere.
Di contro, se il kaiser premeva per una spedizione punitiva, la Gran Bretagna premeva per scongiurare tale azione, soprattutto dopo aver saggiato la voglia di entrare in guerra degli austriaci. Il 28 luglio, dopo che ebbe preso visione dell’ultimatum, il kaiser cambiò radicalmente opinione e liquidò la faccenda annotando sul foglio che l’Austria sarebbe stata pazza a muovere guerra dopo aver già moralmente vinto con un simile documento. Ma neppure un’ora dopo che Guglielmo II aveva commentato l’ultimatum, patteggiando per vie più diplomatiche, l’Austria dichiarò guerra alla Serbia, confidando nell’appoggio tedesco.
Quel 28 luglio 1914 alle ore 12, ad un mese esatto dall’assassinio di Sarajevo, il mondo conosciuto fino allora cessò di esistere, sebbene nessuno in quel momento colse la portata di quella svolta epocale.
La conseguenza fu che la marina inglese mobilitò per occupare posizioni strategiche nel Mare del Nord, onde trovarsi in buona posizione qualora la Germania avesse deciso di scendere in guerra al fianco dell’alleato austriaco. Si parava le spalle, per così dire, nonostante i moniti del ministro della marina inglese, sir Winston Churchill. La Germania storse il naso, ma Giorgio V aveva espressamente dichiarato al cugino tedesco che la Gran Bretagna sarebbe rimasta neutrale, anche perché nessuno in Inghilterra capiva la smania di scendere in campo per colpa della Serbia. E questa rassicurazione al kaiser fu sufficiente, perché credeva ciecamente nella parola data da un re.
Dalla fredda Russia, intanto, giungevano dispacci dove si veniva a sapere che lo zar aveva mobilitato in parte, appena sei milioni di uomini, e li aveva mandati lungo la frontiera con l’Austria, senza dichiarare guerra, ma solo a scopo precauzionale. La richiesta dei ministri di mobilitazione generale era stata rifiutata da Nicola II, il quale sperava ancora di evitare il conflitto. Assieme alla Francia, premeva sulla traballante Gran Bretagna, affinché dichiarasse che, se la Germania avesse attaccato la Francia come tutti sospettavano, sarebbe stata costretta a scendere in campo al fianco dell’alleata. Al coro si era unita anche l’Italia, sostenendo che tale dichiarazione avrebbe evitato una guerra di proporzioni immani, ma la Gran Bretagna nicchiava, si crogiolava nella sua rinomata flemma e preferiva rimanere a guardare.
La Germania di Guglielmo II, dal canto suo, invitava la Gran Bretagna di Giorgio V a rimanere neutrale, promettendo come contropartita che non avrebbe sottratto territori alla Francia, se non alle colonie. E già questo, di per sé, la diceva lunga.
Nel frattempo lo zar ed il kaiser si scambiavano telegrammi nei quali ognuno asseriva di voler a tutti i costi scongiurare una guerra che andasse oltre le due belligeranti e, nel loro intimo, erano sicuri di riuscire a non espandere il pericolo, soprattutto Nicola II. Il kaiser, allora, consapevole dell’assurdità di una guerra, si fece promotore di un’intesa tra Austria e Russia per evitare una catastrofe mondiale e lo zar intimò ai propri generali di bloccare la mobilitazione parziale. Purtroppo per lui, il meccanismo era ormai in moto in tutto il vasto impero e fermarlo per tempo sarebbe stato impossibile. Al che lo zar telegrafò nuovamente al kaiser, sollecitandolo ad intervenire il prima possibile presso l’Austria affinché iniziasse i negoziati. Ma l’Austria fece orecchie da mercante e neppure il kaiser, per quanto si affannasse, riuscì a trattenere la mobilitazione indetta dal proprio stato maggiore per contrapporsi a quella russa.
Appena a San Pietroburgo giunse la notizia che la Germania aveva mobilitato, i ministri convinsero lo zar a firmare la tanto agognata mobilitazione generale. Era il 30 luglio 1914. Appena due giorni prima l’Austria aveva dichiarato guerra alla Serbia e già il terzo stato, la Russia, era stata risucchiata nel vortice senza neppure rendersene conto, con la scusa di dover scendere in campo per dare appoggio alla protetta Serbia. L’Austria mobilitò contro la Russia il giorno dopo e la Germania si vide costretta a mandare un ultimatum alla Russia, ordinandole di sospendere le misure belliche contro la sua alleata. San Pietroburgo respinse la richiesta.
A quel punto, visto il precipitare della situazione, Berlino, per timore di un doppio fronte, chiese a Parigi di rimanere neutrale, ma la Francia, alleata della Russia sin dal 1894, rispose picche e chiamò subito alle armi i propri uomini. I francesi corsero a frotte, felici di credere di scendere in campo per solidarietà tra classi lavoratrici, così come il socialismo predicava da un decennio. Erano ignari, al pari di tutti i soldati di altre parti schierate, di intraprendere un viaggio senza ritorno, un viaggio che avrebbe avuto come meta la trincea e la terra di nessuno.
Per scongiurare il pericolo di sempre, Alfred von Schlieffen, capo di stato maggiore tedesco fino al 1905, aveva a suo tempo elaborato un piano che prevedeva la disfatta della Francia ad ovest per poter lasciare via libera alla Germania verso est. Questo piano attendeva l’invasione del Belgio per poter entrare in Francia e far capitolare Parigi, in modo da liquidare la faccenda in pochi giorni.
La Gran Bretagna, subodorando qualcosa, chiese a Francia e Germania di rispettare la neutralità del Belgio, ma all’accettazione della prima fece eco un assordante silenzio della seconda.
Il 1 agosto 1914 la Germania dichiarò guerra alla Russia.
Eppure, quel medesimo giorno, Giorgio V aveva telegrafato al cugino Nicola II per cercare di scongiurare un massacro senza fine e lo zar era propenso ad ogni trattativa, ben sapendo che il suo popolo, checché se ne dicesse in giro, non era in grado di sostenere uno sforzo bellico. La Russia era ampia e colma di uomini, ciò nonostante del tutto impreparata ad una belligeranza. L’arrivo della dichiarazione di guerra della Germania lasciò nello sconforto e nella disperazione il mite zar.
Appena due giorni dopo, per coprirsi le spalle, la Germania dichiarò guerra alla Francia e subito le truppe tedesche, infischiandosene della neutralità, invasero il Belgio, come prevedeva il piano Schlieffen.
Quella mossa costrinse la Gran Bretagna a dichiarare guerra alla Germania e, come disse l’ammiraglio tedesco Tirpiz in un attimo di sconforto, “tutto è perduto”. Era il 4 agosto 1914.


L’escalation, costretto dalle alleanze, fu come una valanga, un effetto domino a cui nessuno poté sfuggire. Nel giro di pochi giorni, facendosi beffe della diplomazia e dei desideri dei coronati, i parlamentari ed i ministri innescarono una reazione a catena che condusse il mondo sul baratro, spazzò via un’intera generazione di vite senza risolvere nulla e senza che i posteri imparassero nulla, altrimenti non ci sarebbe stata una Seconda Guerra Mondiale a soli vent’anni di distanza dalla prima.

Quel 28 giugno 1914, Gavrilo Princip non lo sapeva ma avrebbe, con un colpo di pistola, cambiato la faccia ed i destini del mondo intero.

martedì 17 novembre 2009

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E' uscita la prima raccolta di racconti e poesie pubblicati sul sito Nonsoloscrivere. Scaricabile gratuitamente, aspetto i vostri commenti!

mercoledì 4 novembre 2009

Io non sono ipocrita

Io non sono ipocrita e sono nauseata da tutto.
Oggi, in ricorrenza della vittoria del 1918, mi ritrovo a fare i conti con la mia coscienza. Dire che sono nauseata è dir poco e scegliere da quale parte cominciare è arduo e comunque fallace.
Purtroppo mi rendo conto che uno stimato politico, nonché statista, aveva avuto ragione quando all’alba del ventesimo secolo aveva detto che la democrazia sarebbe stata più vendicativa dei reali e dei governi del passato e che le guerre dei popoli sarebbero state più terribili di quelle dei re. Chi pronunciò queste profetiche parole fu Churchill, quando si profilava all’orizzonte la follia della Prima Guerra Mondiale.
Purtroppo ha avuto ragione. Il troppo permissivismo ci ha condotti in un cul de sac dal quale non riusciamo a venirne a capo. Troppa gente non ha più il senso del rispetto e non si rende conto che la propria libertà termina dove inizia quella del vicino.
Una delle cose che mi sconvolge, tra le tante, è vedere la gente che si scopre indignata contro lo Stato per non aver scarcerato una terrorista che, condannata per aver partecipato ad un assassinio, dopo la sentenza decide di togliersi la vita. Io non voglio giudicare nessuno, ma mi è sempre stato insegnato che se prendo una decisione che si rivela errata, pago per questa scelta. La ragazza si è uccisa per motivi suoi che non voglio analizzare e per me la questione nasce e termina qui. Perdonatemi, ma non riesco ad essere ipocrita. Di contro, non capirò mai per quale oscuro motivo una brigatista come lei debba scontare una pena mentre un pirata della strada no. Cosa cambia tra i due reati? Entrambi hanno premeditato di uccidere (anche l’automobilista, se quando sale in macchina è imbottito di alcool e stupefacenti), entrambi fuggono al momento dell’omicidio (anche l’automobilista che non si ferma a dare soccorso) ed entrambi, a mio avviso, devono rendere conto del male causato, altrimenti significa che una vita vale più dell’altra, quando invece siamo tutti uguali, soprattutto dinanzi alla morte.
Altro argomento nauseante è la sentenza che costringe a togliere il crocifisso dalle aule scolastiche. Io non sono credente nel senso che dà Chiesa, anzi la Chiesa come istituzione l’avverso continuamente; ma l’idea che qualcuno venga (invitato o no) a casa mia e mi dica che debbo togliere un quadro perché non piace od offende, se permetti rispondo all’ospite che il quadro rimane lì perché a me piace così e se proprio si sente offeso può anche tornare da dove è venuto. Perdonatemi, ma non riesco ad essere ipocrita.
Altro grande fastidio di stomaco: i disordini dei no global. Protestare è lecito, beninteso ma a me è stato insegnato a protestare con il volto scoperto, senza timore di essere riconosciuta perché nel mio pieno diritto di protestare. Se guardo ai vari disordini causati dai no global, allora mi domando: sono dimostranti o teppisti che frantumano vetrine, causano il panico, usano mezzi contundenti per farsi udire e non si preoccupano di lasciare una città parimenti a come l’avrebbe lasciata Attila? Non lamentiamoci delle forze dell’ordine se queste rispondono per salvarsi la vita. Immaginate vostro figlio con la divisa addosso. Perdonatemi, ma non riesco ad essere ipocrita.
Altro cruccio che sento a pelle: io mi reputo una storica, una di quelle sempre con il naso dentro i libri di Storia (con la S maiuscola, perché per me la Storia è Storia e non necessariamente politica, ma fatti), una che prima di giudicare va a studiare e vagliare le varie campane per poi trarre un giudizio personale, (grazie a Dio ho un cervello mio e non manipolato) e leggere e vedere certe cose mi dà la nausea. Come sottolineato sopra, mi ritengo una persona apolitica, perché per me la Storia è super partis e come tale metto i fatti dinanzi alle correnti del momento, li pongo sul piatto della bilancia e penso. Mi sono sempre domandata (sebbene sappia la risposta) per quale motivo sia lecito far sventolare una bandiera rossa con falce e martello, mentre sia bandito sventolare una croce celtica (che non ha nulla a che vedere con il nazismo; anzi, quest’ultimo la prese in prestito, come la croce uncinata). Se non vado errata, ha causato più vittime la prima della seconda e se ancora non è stata bandita, lo deve solo ed esclusivamente perché ha vinto il secondo conflitto mondiale. Perdonatemi, ma non riesco ad essere ipocrita.
Sono nauseata anche da ciò che leggo su Marrazzo e Berlusconi. Qui torniamo al quadro di cui sopra: a casa mia, nella mia sfera privata, sono libera di fare ciò che voglio (a parte uccidere e massacrare di botte la consorte ed a tal uopo mi domando altresì per quale motivo questi mostri non vengono interessati dai media mentre tutti puntano l’indice contro Marrazzo e Berlusconi). Certo, se sono un personaggio pubblico starò bene attento a non ledere gli interessi del paese, ma per il resto sono libera di intrattenermi con viados e prostitute, è solo un problema mio e non della comunità. Se poi, da cittadino, voglio incaponirmi nel voler vedere i nostri politici come quel tizio che si era gettato nella politica ed aveva un curriculum di tutto rispetto, era un decorato di guerra, non aveva mai tradito la propria compagna e non aveva nessun vizio, né bere né fumare, allora ben venga. Ma ricordiamoci anche che tale politico senza macchia e senza paura, aveva un nome: Hitler.
Insomma, queste sono solo alcune delle cose che mi fanno venire la nausea se mi fermo a riflettere. Ma prima o poi occorre riflettere, cosa che, al pari della Chiesa nei secoli passati, i nostri politici aborriscono. Non a caso ci bombardano di influenza A, di reality, e di stupidaggini varie. Con questo non voglio dire che l’influenza A sia una stupidaggine, beninteso, ma secondo me è eccessivamente strumentalizzata. Perdonatemi, ma non riesco ad essere ipocrita.
Mi sfogo oggi, nell’anniversario del 4 novembre, giorno dell’armistizio e della vittoria nella Grande Guerra per onorare tutti quei milioni di giovani che hanno donato le loro vite per poterci regalare un futuro migliore e che noi, con la nostra superficialità ed il nostro modo di fare, stiamo lentamente vanificando.

lunedì 5 ottobre 2009

Riflessione amara

Tra poco ricominceremo a vedere in TV quei programmi cult di cui non potremmo fare a meno, quei programmi che da soli producono una share altissimo, che coinvolgono milioni di telespettatori, tanto da creare canali a pagamento e decine di riviste scandalistiche con titoli a caratteri cubitali. La mia gioia è incontenibile… non potete immaginare quanto.
E poi, volete mettere tutte quelle ore trascorse davanti allo schermo a sentir parlare Tizio e Caio del fallo subito o non subito da taluno calciatore o del rigore concesso o non concesso? E’ impagabile stare lì, penzoloni dalle lebbra di questi personaggi che ci assicurano di sapere anche quanti peli ha sul braccio tale calciatore. Riempie l’anima e l’intera esistenza sapere queste cose, per noi di vitale importanza.
E poi, volete mettere i nostri miseri discorsi sul taluno reality che sottraggono ore al lavoro perché è indispensabile essere a conoscenza dell’ultimo fatto successo nella casa o nella fattoria o sull’isola… O la gioia incontenibile quando il calciatore fa goal, come se fossimo stati noi in persona a realizzarlo? Dico, volete mettere?
Volete mettere le sonore sconfitte della tanto blasonata nazionale di calcio con la splendida vittoria della nazionale femminile di pallavolo che ci regala il secondo titolo iridato europeo? Volete mettere gli inciuci dei protagonisti dei reality con la dottoressa missionaria che ha dedicato tutta la sua vita a far crescere i ragazzi nel Congo? Volete mettere le ore trascorse a parlare di calcio quando in Italia si è svolto un mondiale di baseball e nessuno se n’è accorto, ma tutti continuano a ribadire che lo sport fa bene ed i ragazzi devono praticarlo? Vuoi mettere i battibecchi della politica, che nulla hanno da dire se non buttare fango sull’ultimo capitato, mentre c’è gente che veramente si fa in quattro per salvare intere popolazioni in Africa e donare un’istruzione per emanciparle? Volete mettere i nostri cari ragazzi che a mala pena sanno scrivere in italiano e si vantano di essere istruiti, quando il più ignorante in Congo conosce cinque lingue?
Scusate, ma il sarcasmo è d’obbligo.
Sì, perché se mi fermo e rifletto, non posso che sorridere sarcasticamente.
Io non mi meraviglio più quando uno ubriaco e drogato con la macchina ti arrota e ti uccide e non si fa neppure un giorno di galera, perché il problema è tuo che ti sei fatto arrotare. Non mi sorprendo più se non abbiamo nessuna classe dirigente in grado di dirigere questo paese che, visto e considerato che non concepisce più la semplice logica che la mia libertà termina dove inizia la tua, continua a propinarti reality pur di non affrontare i veri problemi che affliggono il nostro paese. Non parlo di destra o di sinistra, mi ritengo al di sopra di simili divisioni, perché io concepisco solo l’idea buona per il paese e se essa venga propinata da Tizio o Caio a me non importa.
Un tempo qualcuno disse che non era difficile governare l’Italia, ma gli italiani e ritengo che avesse avuto ragione. Siamo un popolo -mi ci metto in mezzo anche io- stupido, che non vede oltre il proprio naso, che non ragiona con il cervello che possiede e preferisce continuare a discutere di reality e calcio quando tutto intorno il mondo vive e va avanti.

mercoledì 23 settembre 2009

Ridiamo, va'!

FEUDALESIMO: Hai 2 mucche. Il tuo signore si prende parte del latte.
SOCIALISMO PURO: Hai 2 mucche. Il governo le prende e le mette in una stalla insieme alle mucche di tutti gli altri. Tu devi prenderti cura di tutte le mucche. Il governo ti da' esattamente il latte di cui hai bisogno.
SOCIALISMO BUROCRATICO: Hai 2 mucche. Il governo le prende e le mette in una stalla insieme alle mucche di tutti gli altri. A prendersi cura di loro è un gruppo di ex allevatori di polli. Tu devi prenderti cura delle galline prese agli ex allevatori di polli. Il governo ti da' esattamente il latte e le uova di cui i regolamenti stabiliscono che hai bisogno.
FASCISMO: Hai 2 mucche. Il governo le prende entrambe, ti assume perché te ne prenda cura e ti vende il latte.
COMUNISMO PURO: Hai 2 mucche. I tuoi vicini ti aiutano a prendertene cura e tutti insieme vi dividete il latte.
COMUNISMO RUSSO: Hai due mucche. Tu devi prendertene cura, ma il governo si prende tutto il latte.
DITTATURA: Hai due mucche. Il governo le prende entrambe e ti spara.
DEMOCRAZIA DI SINGAPORE: Hai 2 mucche. Il governo ti multa per il possesso non autorizzato di due animali da stalla in un appartamento.
REGIME MILITARE: Hai 2 mucche. Il governo le prende entrambe e ti arruola nell'esercito.
DEMOCRAZIA PURA: Hai 2 mucche. I tuoi vicini decidono chi si prende il latte.
DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA: Hai 2 mucche. I tuoi vicini nominano qualcuno perché decida chi si prende il latte.
DEMOCRAZIA AMERICANA: Il governo promette di darti 2 mucche se lo voti. Dopo le elezioni, il presidente è messo sotto impeachment per aver speculato sui "futures" bovini. La stampa ribattezza lo scandalo "Cowgate".
DEMOCRAZIA INGLESE: Hai 2 mucche. Le nutri con cervello di pecora e loro impazziscono. Il governo non fa nulla.
BUROCRAZIA: Hai 2 mucche. All'inizio il governo stabilisce come le devi nutrire e quando le puoi mungere. Poi ti paga per non mungerle. In seguito le prende entrambe, ne uccide una, munge l'altra e ne butta via il latte. Alla fine ti costringe a riempire alcuni moduli per denunciare le mucche mancanti.
ANARCHIA: Hai 2 mucche. O le vendi ad un prezzo equo, oppure i tuoi vicini provano ad ucciderti per prendersi le mucche.
CAPITALISMO: Hai 2 mucche. Ne vendi una e ti compri un toro.
CAPITALISMO DI HONG KONG: Hai 2 mucche. Ne vendi tre alla tua società per azioni, usando le lettere di credito aperte da tuo cognato presso la banca. Poi invii uno scambio debito azioni con un'offerta pubblica e riesci a riprenderti tutte e quattro le mucche con uno sgravio fiscale per il mantenimento di cinque mucche. I diritti sul latte di sei mucche sono trasferiti tramite un intermediario panamense ad una compagnia delle Isole Cayman di proprietà dell'azionista di maggioranza, che rivende alla tua Spa i diritti sul latte di tutte e sette le mucche. Il bilancio annuale afferma che la società è proprietaria di otto mucche, con un'opzione sull'acquisto di un'altra. Nel frattempo tu uccidi le due mucche perché il latte è cattivo.
AMBIENTALISMO: Hai 2 mucche. Il governo ti vieta sia di mungerle che di ucciderle.
FEMMINISMO: Hai due mucche. Loro si sposano e adottano un vitellino.
TOTALITARISMO: Hai due mucche. Il governo le prende e nega che siano mai esistite. Il latte è messo fuori legge.
POLITICAL CORRECTNESS: Sei in rapporto (il concetto di "proprietà" è simbolo di un passato fallocentrico, guerrafondaio ed intollerante) con due bovini di diversa età (ma altrettanto preziosi per la società) e di genere non specificato.
CONTROCULTURA: Ehi, capo... tipo che ci stanno due mucche. Oh! Devi proprio farti un tiro di 'sto latte.
SURREALISMO: Hai due giraffe. Il governo ti costringe a prendere lezioni di fisarmonica.
SOTTO WINDOWS 95/98: Hai bisogno di un po' di latte: provi a mungere una vacca, ottieni il messaggio "Errore generale di protezione al corno FFFF, se il problema persiste contattare il fornitore del bovino", e ti si impiantano tutte e due le vacche. Su Internet trovi che è possibile aggiornare i drivers, scaricando il file "Cow_OK.dll", di 18 mega. Dopo un paio d'ore di modem, lo inSTALLI, fai ripartire le vacch... pardon, il sistema, il quale non riconosce più le mammelle. Allora devi reinSTALLARE tutto da capo: formatti (a bastonate) le vacche, installi WIN95, a quel punto provi a mungere e ottieni latte rancido. Abbatti le due vacche e vai in vacanza all'Hotel Flamingo.

lunedì 21 settembre 2009

S'i' fosse fuoco (Cecco Angiolieri)

S’i’ fosse fuoco, arderei ‘l mondo;
s’i’ fosse vento, lo tempesterei;
s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei;
s’i’ fosse Dio, mandereil’ en profondo;

s’i’ fosse papa, allor serei giocondo,
ché tutti cristiani imbrigarei;
s’i’ fosse ‘mperator, bel lo farei:
a tutti taglierei lo capo a tondo.

S’i’ fosse morte, anderei a mi’ padre;
s’i’ fosse vita, non starei con lui:
similmente faria da mi’ madre.

S’i’ fosse Cecco, com’i’ sono e fui,
torrei le donne giovani e leggiadre;
le zoppe e vecchie lasserei altrui.

martedì 15 settembre 2009

Levitico ed omosessualità

La dottoressa Laura Schlesinger è una famosa giornalista della radio
americana; nella sua trasmissione dispensa consigli alle persone che
telefonano. Qualche tempo fa, Laura ha affermato che l'Omosessualità,
secondo la Bibbia (Lev.18:22) è un abominio, e non può essere tollerata
in alcun caso.

La seguente è una lettera spedita alla dott.ssa Laura SCHLESINGER.

Cara Dottoressa Schlesinger,
le scrivo per ringraziarla del suo lavoro educativo sulle leggi del
Signore. Ho imparato davvero molto dal suo programma, ed ho cercato di
dividere tale conoscenza con più persone possibile.
Adesso, quando qualcuno tenta di difendere lo stile di vita omosessuale,
gli ricordo semplicemente che nel Levitico 18:22 si afferma che ciò è
un abominio. Fine della discussione.

Però, avrei bisogno di alcun consigli da lei, a riguardo di altre
leggi specifiche e come applicarle.

Vorrei vendere mia figlia come schiava, come sancisce (Esodo 21:7).
Quale pensa sarebbe un buon prezzo di vendita?

Quando sull'altare sacrificale accendo un fuoco e vi ardo un toro,
so dalle scritture che ciò produce un piacevole profumo per il
Signore (Lev.1.9). Il problema è con i miei vicini: loro, i blasfemi,
sostengono che l'odore non è piacevole. Devo forse percuoterli?

So che posso avere contatti con una donna quando non ha le mestruazioni
(Lev.15: 19-24.). Il problema è come faccio a chiederle questa cosa?
Molte donne s'offendono.

Il Levitico ai versi 25:44 afferma che potrei possedere degli schiavi,
sia maschi che femmine, a patto che essi siano acquistati in nazioni
straniere.
Un mio amico afferma che questo si può fare con i filippini, ma non con
i francesi. Può farmi capire meglio? Perché non posso possedere schiavi
francesi?

Un mio vicino insiste per lavorare di Sabato. Esodo 35:2 dice chiaramente
che dovrebbe essere messo a morte. Sono moralmente obbligato ad ucciderlo
personalmente?

Un mio amico ha la sensazione che anche se mangiare crostacei è
considerato un abominio (Lev. 11:10), lo sia meno dell'omosessualità.
Non sono affatto d'accordo. Può illuminarci sulla questione?

Sempre il Levitico ai versi 21:20 afferma che non posso avvicinarmi
all'altare di Dio se ho difetti di vista. Devo effettivamente ammettere
che uso gli occhiali per leggere... La mia vista deve per forza essere
10 decimi o c'è qualche scappatoia alla questione?

Molti dei miei amici maschi usano rasarsi i capelli, compresi quelli
vicino alle tempie, anche se questo è espressamente vietato dalla
Bibbia (Lev 19:27). In che modo devono esser messi a morte?

Ancora nel Levitico (11:6-8) viene detto che toccare la pelle di maiale
morto rende impuri. Per giocare a pallone debbo quindi indossare dei
guanti?

Mio zio possiede una fattoria. E' andato contro Lev. 19:19, poiché ha
piantato due diversi tipi di ortaggi nello stesso campo; anche sua
moglie ha violato lo stesso passo, perchè usa indossare vesti di due
tipi diversi di tessuto (cotone/acrilico). Non solo: mio zio bestemmia
a tutto andare.

E' proprio necessario che mi prenda la briga di radunare tutti gli
abitanti della città per lapidarli come prescrivono le scritture? Non
potrei, più semplicemente, dargli fuoco mentre dormono, come
simpaticamente consiglia Lev 20:14 per le persone che giacciono con
consanguinei?

So che Lei ha studiato approfonditamente questi argomenti, per cui
sono sicuro che potrà rispondere a queste semplici domande.
Nell'occasione, la ringrazio ancora per essere così solerte nel
ricordare a tutti noi che la parola di Dio è eterna ed immutabile.
Sempre suo.

Un ammiratore devoto.

mercoledì 9 settembre 2009

Drammaticamente vera!

Una società italiana ed una giapponese decisero di sfidarsi annualmente in una gara di canoa, con equipaggio di otto uomini.
Entrambe le squadre si allenarono e quando arrivò il giorno della gara ciascuna squadra era al meglio della forma, ma i giapponesi vinsero con un vantaggio di oltre un chilometro.
Dopo la sconfitta il morale della squadra italiana era a terra. Il top management decise che si sarebbe dovuto vincere l’anno successivo e mise in piedi un gruppo di progetto per investigare il problema.
Il gruppo di progetto scoprì dopo molte analisi che i giapponesi avevano sette uomini ai remi e uno che comandava, mentre la squadra italiana aveva un uomo che remava e sette che comandavano.
In questa situazione di crisi il management dette una chiara prova di capacità gestionale: ingaggiò immediatamente una società di consulenza per investigare la struttura della squadra italiana.
Dopo molti mesi di duro lavoro, gli esperti giunsero alla conclusione che nella squadra c’erano troppe persone a comandare e poche a remare.
Con il supporto del rapporto degli esperti fu deciso di cambiare immediatamente la struttura della squadra. Ora ci sarebbero stati quattro comandanti, due supervisori dei comandanti, un capo dei supervisori e uno ai remi.
Inoltre si introdusse una serie di punti per motivare il rematore:” Dobbiamo ampliare il suo ambito lavorativo e dargli più responsabilità”.
L’anno dopo i giapponesi vinsero con un vantaggio di due chilometri.
La società italiana licenziò immediatamente il rematore a causa degli scarsi risultati ottenuti sul lavoro, ma nonostante ciò pagò un bonus al gruppo di comando come ricompensa per il grande impegno che la squadra aveva dimostrato.
La società di consulenza preparò una nuova analisi, dove si dimostrò che era stata scelta la giusta tattica, che anche la motivazione era buona, ma che il materiale usato doveva essere migliorato.
Al momento la società italiana è impegnata a progettare una nuova canoa.

venerdì 4 settembre 2009

Due risate

DOMANDA DI ESENZIONE
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Signor Ministro della Difesa,

mi permetta di prendere rispettosamente la libertà di esporvi quanto
segue, e di sollecitare per vostra benevolenza lo sforzo necessario
al rapido disbrigo della pratica.

Sono in attesa della chiamata alle armi, ho 24 anni e sono sposato
con una vedova di 44 anni, la quale ha una figlia di 25 anni.
Mio padre ha sposato tale figlia. Quindi attualmente mio padre è
diventato mio genero, in quanto ha sposato mia figlia.

Inoltre, mia nuora è divenuta mia matrigna, in quanto moglie di mio
padre.

Mia moglie ed io abbiamo avuto lo scorso Gennaio un figlio. Costui
è quindi diventato fratello della moglie di mio padre, quindi cognato
di mio padre. Ed inoltre mio zio, in quanto fratello della mia matrigna.
Mio figlio è dunque mio zio.

La moglie di mio padre a Natale ha avuto un figlio che quindi è
contemporaneamente mio fratello in quanto figlio di mio padre, e mio
nipote in quanto figlio della figlia di mia moglie.

Io sono quindi fratello di mio nipote, e siccome il marito della madre
di una persona è suo padre, risulta che io sono padre della figlia di
mia moglie e fratello di suo figlio.

Quindi io sono mio nonno.

Spiegato ciò, Signor Ministro, la prego di volermi concedere di essere
esentato dal servizio militare, in quanto la legge impedisce che padre,
figlio e nipote prestino servizio contemporaneamente.

Fermamente convinto della vostra comprensione, la prego Signor Ministro
di accettare i miei più distinti saluti.

P.S.: Per la cronaca, il ragazzo in questione è stato riformato per "stato
psichico instabile e preoccupante e turbe mentali aggravate da un clima
familiare molto disturbante".

mercoledì 26 agosto 2009

Quanto sei bella, Roma!

Quanto sei bella Roma!
Aveva ragione Venditti quando intonava la sua canzone d’amore per la città eterna, quando ne esaltava la bellezza con semplici parole rimaste nel cuore. Solo chi ha visto Roma può capire. Se la vivi da turista è veramente la città più bella del mondo, con i suoi infiniti monumenti, i suoi eterni riti, le sue opere grandiose.
Per la prima volta in tutta la mia vita ho deciso di andare ad attendere lo scoccare del mezzogiorno al Gianicolo. E lì, circondata dal fiero cipiglio dei garibaldini sparsi per il parco e sovrastata dalla statua equestre di Garibaldi, mi godo questo colle che offe di Roma una visuale mozzafiato. E’ qui che si compie il giornaliero rito dello sparo del cannone. Ed è un’emozione forte, soprattutto se ripenso che questa tradizione si ripete dal lontano 1846 per volere di papa Pio IX per far sì che tutte le chiese suonassero all’unisono il mezzodì.
E’ bello vedere la folla che si riunisce, i bambini con gli occhi sgranati fissi sul cannone, i soldati che gentilmente offrono la possibilità di scattare una foto ricordo accanto al pezzo di artiglieria; e poi la cerimonia, il caricamento a salve, l’attesa del momento ed il braccio del comandante che dà il via. Non avevo mai sentito sparare un cannone da così vicino e mi sono sorpresa ad udirmi strillare per la paura. Però, infarto a parte, è piacevole scoprire, o riscoprire, queste piccole cose che sono venute prima di noi e che ci sopravvivranno. L’unico rammarico, semmai, è la delusione di non aver trovato il mitico canone dell’ottocento, ma un moderno pezzo di artiglieria.
Ma la delusione non c’è stata quando sono tornata a Castel Sant’Angelo di notte, illuminato al pari del cupolone che svetta lì vicino. Le mura massicce, i torrioni, le carceri che, se fossero in auge adesso farebbero pensare due volte prima di commettere un delitto, ed il famoso Passetto che congiunge la mole Adriana con il Vaticano. Una volta veniva usato dai papi per rifugiarsi senza pericolo nella fortezza, così come accadde durante il sacco di Roma nel 1527, ed ora possiamo vederlo anche noi miseri mortali. E pensare che anni addietro avevo provato ad aprire il portoncino di accesso ma sono stata bloccata perché nessuno poteva vedere o entrare nel Passetto. Un pezzo di Storia che stava lì ad ammuffire, pieno di erbacce e vietato a chicchessia ed io che mi rodevo il fegato. Ora, per qualche oscuro miracolo cinematografico (o meglio dire miracolo del dio denaro?) il Vaticano si è reso conto dell’interesse che suscitava il famoso Passetto e si è deciso ad aprirlo, almeno per un pezzo. E così, con il cuore in gola per il pensiero di quanti papi, principi e persone varie che hanno lasciato un segno nella Storia erano passate di lì, mi sono addentrata ed ho mirato la mia Roma dall’alto del Passetto, illuminata come una cartolina, il Tevere che accarezza piano i torrioni del castello. Uno spettacolo unico che toglie il fiato, soprattutto di notte.
Roma, Roma, perché sei tu Roma? Perché io che ci vivo non posso goderti come qualsiasi turista? Perché mi costringi ad odiarti quando giornalmente rimango impantanata nel caos cittadino, mentre vorrei amarti con tutta me stessa?

giovedì 6 agosto 2009

Il cane operato sta benissimo!

E’ partito da Roma per arrivare sino a Tuoro sul Trasimeno per amore del suo cane, un bellissimo setter inglese che, per colpa di un tumore al rene, deve essere operato. Ed è rimasto con noi, compagno di due torride serate di luglio.
Un romano classico: trucido, bestemmiatore, con i segni della vita sul volto, uno di quelli che guardi in faccia e pensi che non gli daresti mai tua figlia; eppure di una simpatia irresistibile e, strano a dirsi, una persona buona. Ha mollato moglie e figlia per portare il suo cane da caccia a farsi operare e noi non avremmo mai potuto immaginare di trascorrere due serate all’insegna del riso più sfrenato. Con la sua calata romana che rasenta la volgarità ma che, bestemmie a parte, non raggiunge mai tali livelli (e questa è già di per sé una meraviglia), ci racconta, con la sua flemma inglese (giuro che è così, un Lord non potrebbe essere più composto ed avere quel tono di voce calmo e remissivo) che sua moglie in realtà è una brasiliana e non l’attuale compagna calabrese che gli ha dato una bellissima figlia. Ci spiega che il suo unico matrimonio, in attesa di separazione, in realtà è una farsa: ha sposato per soldi questa ragazza carioca che aveva bisogno di rientrare in Inghilterra dal suo amante. Una storia classica, che non avrebbe nulla di speciale, se non lui, con la sua incredibile flemma, la sua faccia che non lascia nulla all’immaginazione, che ci parla del pranzo di matrimonio. Narra alle nostre incredule orecchie di aver chiamato un ristorante romano che non va famoso per le posate d’argento ma per ben altre cose, e di aver fatto una prenotazione per un pranzo di nozze. Alla domanda del ristoratore di quanti coperti avesse bisogno, lui ha candidamente risposto: “Due”. Ovvio che il proprietario del locale, pensando ad uno scherzo, lo abbia gentilmente mandato a quel paese e riattaccato il telefono. Al che, il neo sposo ha richiamato, insistendo sulla veridicità della cosa e quando il ristoratore gli ha risposto che, se fossero stati realmente in due gli avrebbe offerto il pranzo, lui ha ribadito la quantità di persone, riaffermando che si era appena sposato e che voleva festeggiare l’evento. Sempre pensando ad uno scherzo, l’oste ha domandato: ”Allora siete tu e tua moglie?”.
E lui, come se fosse la cosa più naturale del mondo: “No, io e il mio testimone”.
Dire che a quel punto del racconto siamo scoppiati tutti a ridere è dir poco. Ovvio che lui, non conoscendo la sposa, abbia preferito sposarsi e portare con sé il proprio amico che gli aveva fatto da testimone. E per ben due volte, badate bene! Sì, perché la prima volta il funzionario del comune non gli aveva spiegato il problema della divisione dei beni e lui, appena intravisto il futuro problema, infischiandosene delle coppie che dovevano sposarsi subito dopo, ha preteso (non voglio neppure immaginare come) ed ottenuto di essere sposato di nuovo seduta stante, stavolta stando bene attento alla clausola della divisione dei beni. Posso solo provare ad immaginare le facce del funzionario e delle coppie di sposi in attesa. Ma torniamo al ristorante.
Fatto sta che l’oste ha dovuto chinare la testa dinanzi al certificato di matrimonio e gli ha offerto il pranzo, con tanto di camerieri che servivano di tutto punto i due soli avventori. Si è addirittura complimentato con lui per quanto aveva fatto per aiutare quella ragazza.
E il viaggio di nozze in Brasile? Lui è partito con il suo amico, per dimostrare la veridicità del matrimonio (perché le autorità lo andavano regolarmente a trovare per accertarsi che la cerimonia nuziale non fosse una farsa) e si è ritrovato a conoscere una marea di brasiliani (calciatori affermati a livelli mondiali, posso garantire) solo con la sua squisita simpatia. Addirittura si è ritrovato a fare il testimone di nozze a due ragazzi conosciuti due giorni prima!
Ora è in attesa di divorzio.
E la sua attuale compagna? Non tanto lei, quanto la sua famiglia calabrese lo manda fuori di testa. La suocera soffre di diabete, al pari di tutti gli altri familiari, e lui le pratica ogni giorno l’iniezione di insulina, ricordandole sempre di mangiare moderatamente. Ma da buona calabrese la suocera non ascolta e, a dispetto di un valore altissimo di glicemia, si gusta il pane con i fichi che la figlia le offre. E lui, candidamente, risponde: “Ho capito che la vuoi fare fuori, ma così evidente…”.
Posso solo aggiungere che questa è una minima parte degli aneddoti raccontatici con la sua calma che contrasta violentemente con il suo aspetto trucido, classico esempio di romano che rasenta la volgarità. Ed io non ridevo così da tempo, con le lacrime agli occhi, mentre ascoltavo rapita quest’uomo che, alternando una bestemmia ad una frase sensata, raccontava la sua incredibile vita, tanto che non basterebbero due persone per viverla.

P.S. Il cane operato sta benissimo!

lunedì 3 agosto 2009

Perché no?

Perché no?
E’ quello che mi sono chiesta appena messo piede in quest’oasi di pace alle falde degli Appennini, a ridosso del lago Trasimeno, dove nel 217 a.C. Annibale Barca combatté contro i romani, trovando una leggendaria vittoria.
Perché no? mi sono ripetuta mentre ascoltavo gli uccellini, le cicale, i cinghiali, i cani, i rospi… Per me, che vengo dal caos di Roma, questo è un paradiso terrestre. Qui non sento i continui martellamenti di chi decide di iniziare i lavori di ristrutturazione dell’appartamento accanto; qui non sono costretta a sentire la sega elettrica che il solito ignorante decide di accendere quando non va al lavoro, ossia il sabato e la domenica, che tutti aspettano con ansia per poter riposare un po’ più a lungo dopo la faticosa settimana lavorativa. Qui non sento il solito imbecille che manomette la marmitta del motorino per farsi sentire quando passa per appagare il suo egocentrismo, né il cretino che arriva sgommando con lo stereo della macchina che rompe i timpani e qualcos’altro. Qui non odi le continue ambulanze che corrono a raccogliere ciò che rimane dei feriti sfracellati dopo una notte brava a suon di droghe ed alcool, perché “altrimenti non è uno sballo”, mentre rimanere spiaccicati sull’asfalto è molto cool. In questo angolo di paradiso non senti il vicino che ti abita di sopra rientrare in piena notte e camminare allegramente con le scarpe con i tacchi alti, come se si trovasse in via del Corso, mentre tu cerchi vanamente di dormire; o quello sul pianerottolo che urla e schiamazza con gli amici infischiandosene di chi, all’una di notte, ha la folle pretesa di dormire. Qui non senti il continuo abbaiare isterico del cane della dirimpettaia che ti tormenta ad ogni ora del giorno e della notte e fai il tifo per chi, esasperato, qualche volta urla: “Lo uccidiamo questo cane?”. Basterebbe eliminare i proprietari che non comprendono che il cane isterico dà fastidio.
Qui, a parte gli echi della battaglia della seconda guerra punica, odi solo la campagna, il ringhiare dei cani esclusivamente contro gli intrusi, il grugnire dei cinghiali quando escono di notte con il branco per mangiare, il frinire delle cicale ed il canto melodioso degli usignoli che ti dà il buongiorno di prima mattina. Perché no? Perché non abbandonare il caos cittadino di Roma, la maleducazione e la totale mancanza di rispetto di chi ti abita al fianco, per ritrovare la calma e la serenità della campagna? Ma sì, stavolta faccio le valigie e mollo tutto, inizio una nuova vita senza più rumori dai decibel insopportabili, senza più stress. Pianto radici in questo angolo di paradiso, all’ombra di secolari ulivi e mi dedico alla contemplazione dei colori della natura. Qui c’è la pace assoluta, rotta solo dai bambini che si divertono in piscina in orari consoni. Pazienza se poi qualche insetto ti pizzica e ti gratti come una scimmia o se ti accorgi che accanto al letto hai un vicino speciale: uno scorpione.
Poi… Poi accade. Improvviso ed inatteso; mi giro e mi ritrovo a faccia a faccia con il mio peggior nemico e rimango paralizzata. Lui sta lì, immobile, quasi strafottente, che mi fissa con alterigia, mentre io inizio a sudare freddo. Allora capisco che la campagna non fa per me, che, tutto sommato, preferisco morire di stress anziché di infarto e mestamente riprendo la via di casa.
Il ragno ha vinto.

martedì 30 giugno 2009

Cristalli - 5° puntata

2



Hilda uscì dall'edificio ed osservò il sole alto nel cielo estivo. In lontananza, sotto un albero, LA l'attendeva parlando con alcune amiche ed appena la vide le corse incontro sorridendo fiduciosa. Tutta eccitata le prese le mani e chiese a bruciapelo:
-Allora? Com'è andata? Su, forza: quanto? Non farmi penare così! Allora?-
Hilda la guardò tristemente, quindi chinò la testa in segno di sconfitta ed LA impallidì, perdendo tutta l'euforia. La fissò incredula e mormorò:
-Non è possibile... Sapevi tutto...-
Hilda alzò le spalle, come se si fosse rassegnata per quell'esame andato a male, ma LA non si diede per vinta.
-Non è possibile!- ripeté con stizza. -Il professore che ti ha esaminato è solo uno stronzo! Santo cielo! Dimmi chi è e ci andrò io a parlare! Voglio proprio sapere con quale assurdo criterio ti ha valutato! Deve essere proprio un pez...-
Si bloccò quando vide l'amica scuotere la testa e scoppiare a ridere, trattenendosi lo stomaco.
-Sei decisamente matta!- esclamò senza riuscire a trattenere le risate. -Mi ha concesso pure la lode!-
LA la scrutò attentamente, quindi le diede una spinta e scoppiò a ridere.
-Mi hai fatto prendere un bello spavento! Che scema a cascarci! Dovevo immaginarlo!-
Ridendo e scherzando si avviarono verso casa, noncuranti della gente che si girava a guardarle con curiosità. Il sole risplendeva sui loro capelli, dando vita ad uno spensierato gioco di colori iridescenti, dove il rosso si fondeva a striature bionde ed il nero a striature azzurre, provocando un contrasto di mirabile bellezza.
Da quando era arrivato Hols, Hilda aveva ritrovato il sorriso e la voglia di vivere di un tempo e lo spettro scuro del passato aveva iniziato a dissolversi lentamente, lasciandola libera di godere la tanto agognata serenità. Ma non era stato facile far capitolare Alan. Era stato irremovibile fin dall'inizio: non voleva il lupo in casa. Era stata LA a fargli cambiare idea, trattandolo ora con dolcezza ora con rabbia, cantandogliene quattro ed alzando la voce quando lui alzava la sua, ma alla fine Hilda aveva ottenuto l'autorizzazione a tenere Hols.
Da due mesi LA stentava a riconoscere la sua amica. Era serena e felice come mai l'aveva vista e ciò le procurava grande gioia. A stento riusciva a paragonarla alla ragazzina che aveva conosciuto cinque anni prima: della vecchia Hilda era rimasto poco o niente.
All’epoca aveva solo quindici anni e frequentava ancora il liceo, quando aveva pregato Alan di portarla con sé agli alloggi universitari. LA vi si era trasferita una settimana prima e, come Alan, era iscritta al primo anno di corso. Spinta dalla curiosità di sapere che tra gli studenti c'era una quindicenne, era scesa per dar loro il benvenuto ed era rimasta incantata a fissare Alan. Non aveva mai visto un ragazzo così bello in tutta la sua vita: perfetto, fu il suo unico pensiero.
-Io... Io sono LA Fawkes e... Be', volevo dare a te ed a tua sorella il benvenuto...-
Si era ritrovata a balbettare come una scolaretta alla prima cotta, senza riuscire a staccare gli occhi da lui ed il suo viso era diventato purpureo.
-Salve. Io sono Alan Wild.- si era presentato, osservandola con palese ammirazione.
Erano rimasti a guardarsi sulla soglia della porta, senza parlare e sorridendosi un po' imbarazzati, Poi, come se si fosse ricordato solo in quel momento, Alan aveva chiamato la sorella e lei aveva allungato il collo per sbirciare oltre la spalla del ragazzo. Aveva scrutato quella figura sottile, emaciata e tremendamente pallida avanzare come un fantasma ed appena se l'era ritrovata di fronte l'unica cosa che era riuscita a percepire era stata l'invidia. Ma come quegli occhi grigi, trasparenti, si erano posati su di lei, il cuore le si era stretto in una morsa dolorosa. In quei due cristalli aveva letto solitudine e paura con un'intensità tale da lasciarla interdetta. Hilda aveva teso la mano, senza che un'ombra di sorriso le increspasse le labbra, totalmente abulica. Era rimasta impassibile, con lo sguardo spento fisso nel vuoto e quando LA si era decisa a stringerle la mano, aveva sentito quella di Hilda gelida ed aveva notato il nastrino di raso intorno al polso. Si era chiesta cosa potesse significare ed i suoi occhi si erano repentinamente posati sull'altro braccio, dove stava, seminascosto dal maglione, il secondo nastrino.
Nei giorni successivi era rimasta a lungo con il pensiero fisso su di lei, sentendo di dover fare qualcosa per aiutarla ed ogni volta che le si era presentata l'occasione, era andata a trovarla. All'inizio era stata accolta con freddezza, poi, lentamente, era riuscita e far breccia nel cuore di quella quindicenne diffidente.
Col tempo la sua tenacia si era rivelata l'arma migliore: lei ed Hilda erano diventate amiche e si vedevano tutti i giorni, ora per studiare, ora per fare la spesa. Non aveva mai fatto domande sul suo passato e sapeva che di questo Hilda le era riconoscente.
Una massa pelosa ed argentata le saltò addosso e tornò bruscamente al presente.
-Gesù!- esclamò ridendo. -Buono, buono, Hols. Fa' la cuccia, da bravo.-
-E' meglio che ti lasci fare le feste o non ti darà pace. Sei l'unica alla quale si sia affezionato.- disse Hilda andando a prendere il guinzaglio.
LA l'accarezzò e si lasciò leccare, pensando vagamente che stava prendendo la forma del lupo adulto.
Cresceva sano, robusto, con il pelo argentato sempre lucido e spazzolato ed ogni mese Hilda lo infilava in vasca per fargli il bagno. Era stata dura abituarlo all'acqua, ma infine ci aveva preso confidenza e si divertiva a sguazzare in mezzo alle bolle di sapone. Adorava la sua padrona e le trottava sempre al fianco, ringhiando contro chiunque le si avvicinasse. La sola persona che gli riusciva difficile da sopportare era Alan, che si comportava come se lui neppure esistesse.
-Ecco qui il tuo guinzaglio, Hols.- annunciò Hilda sorridendo. -Ora andiamo a fare una bella camminata.-
Mentre si chinava per legarglielo al collo, LA le si avvicinò e con titubanza chiese:
-Come... Come va la questione finanziaria?-
Per una frazione di secondo le mani di Hilda si bloccarono e si domandò cosa ne potesse sapere dei loro problemi. Si voltò a guardarla e con noncuranza chiese:
-Perché questa domanda?-
-Così... Circa una settimana fa è venuto un ragazzo che cercava te e tuo fratello, ma Alan era fuori e tu stavi in facoltà e lui si è rivolto a me, dicendo...-
Con uno scatto felino Hilda balzò in piedi e l'afferrò per le spalle, pallida come un cadavere e domandò:
-Ti ha detto chi era?-
LA la fissò ad occhi sgranati, non riuscendo a comprendere la sua foga e balbettò:
-Ma... Veramente no...-
-Ti ricordi com'era? Potresti descriverlo?-
Era evidente che attendesse la visita di qualcuno che le stava particolarmente a cuore e l'amica si chiese chi fosse il fortunato. Comunque sia, si concentrò sul ragazzo ed iniziò a dire:
-Dunque... Era abbastanza alto, magro...-
-I suoi occhi?- l'interruppe con ansia.
-I suoi occhi?-
Hilda sospirò e spiegò:
-I suoi occhi erano grigi come i miei?-
-Mi pare... No, no. Non erano grigi.-
-Sei sicura?-
-Certo. Erano scuri, me lo ricordo bene.-
La mente di Hilda si rifiutò di crederci: doveva essere lui! Doveva! Ma dovette registrare la delusione amara della realtà e lentamente chinò la testa, abbozzando un pallido sorriso e tornò ad occuparsi di Hols, lasciando l'altra confusa ed attonita.
-Allora? Mi stavi parlando di un ragazzo: cosa voleva?- chiese all'improvviso, come se niente fosse accaduto.
-Io... Ecco, mi ha detto... Non ricordo molto bene, ma ha accennato alle vostre finanze. Comunque, sarebbe tornato uno di questi giorni.-
Hilda sorrise con indifferenza, aggiustandosi una ciocca di capelli: non era la persona che lei avrebbe desiderato fosse, quindi non le premeva sapere chi era.
-Bene. Se tornerà vedremo di chi si tratta.- rispose con sufficienza. -Che ne diresti di pranzare insieme?-
LA la studiò a lungo, cercando di leggere qualcosa su quel volto, ma Hilda era tornata ad essere quella di sempre ed accettò l'invito sorridendo, dimenticando volutamente quanto era accaduto.

venerdì 19 giugno 2009

Cristalli 4° puntata

-Cristo, Hilda! Siamo quasi ridotti alla fame e tu mi porti un animale in casa! Perdio! Non abbiamo soldi e tu mi sobbarchi della responsabilità di sfamare un'altra bocca! Che cazzo ti dice la testa? Eh? Cristo! Cristo!-
Con stizza Alan si passò una mano tra i capelli e continuò ad imprecare ed a bestemmiare con veemenza.
Da più di un'ora non faceva che urlare e camminare avanti e indietro, agitando le mani e strabuzzando gli occhi per l'ira. Era bastato che lei accennasse ad Hols che subito l'aveva guardata da prima allibito, poi con maggior furore fin quando non era esploso. Lei l'aveva lasciato sfogare, niente affatto intimorita dalla sua ira, seduta al tavolo della cucina con la testa reclinata in avanti, lasciando credere al fratello di avere timore di lui. Sì, aveva imparato che era meglio non dar prova che la sua violenza la lasciava del tutto indifferente.
Alan la costrinse a guardarlo, afferrandole rudemente il volto e lei assunse un'espressione prostrata ed intimorita.
-Non abbiamo soldi, Cristo! Mi spieghi come cazzo intendi nutrirlo?-
Lei non rispose, ma continuò a guardarlo attentamente. Ormai doveva arrendersi all'evidenza: Alan aveva problemi, seri problemi. Da troppo tempo perdeva la calma facilmente e giorno dopo giorno peggiorava, proprio come le aveva fatto notare LA.
-Alan sta male. Non credo sia solo esaurimento nervoso. Non lo vedi anche tu? Sembra quasi che stia impazzendo. A volte mette paura...- le aveva detto un giorno.
-Sei tu la pazza!- aveva risposto con veemenza. -Alan sta benissimo; è solo stressato perché ha dovuto studiare molto, bisogna capirlo. Vedrai che si rimetterà presto.-
LA l'aveva guardata con compassione, quindi aveva scosso la testa mormorando:
-Lo difendi solo perché è tuo fratello. Ma te ne accorgerai presto.-
Oh, come avevi ragione! Ed io che non avevo voluto crederti!
-Non guardarmi con quell'aria da scema! Rispondi quando ti parlo, perdio!-
La scosse con violenza, facendola tornare bruscamente al presente.
-Alan... Ti prego...- gemette per il dolore.
Lui la lasciò andare e rimase a fissarla con gli occhi iniettati di sangue ed il fiato corto. Lentamente, a testa bassa, Hilda si ricompose e passò una mano sulla fronte. Alzò il volto e studiò il fratello: il suo viso era sconvolto e tirato dall'ira ed era palese lo sforzo che faceva per dominarsi.
Per un lungo momento tutto tacque ed all'improvviso, così come era esploso, Alan si calmò. Inspirò profondamente e bofonchiò qualcosa di inintelligibile, fissando cupo la sorella. Per una frazione di secondo parve che volesse scusarsi, ma altro non fece che sedersi, continuando un sommesso ed incomprensibile monologo.
Hilda continuò a sbirciarlo con circospezione, cercando di intuire cosa gli stesse passando per la testa. Per un attimo rivide il piccolo Alan che le faceva le carezze ed i complimenti; rivide un bambino dolce e premuroso... Ma tornò subito con i piedi per terra, pensando con amarezza che quell'Alan era morto. Per sempre.
-Allora? Potresti anche farmelo vedere, ti pare?-
Quel tono di voce dolce l'impensierì. Solo un minuto prima stava urlando e bestemmiando come un forsennato ed ora...
Sforzandosi di sorridere, corse in camera ed appena Hols la sentì entrare balzò dal letto e le andò vicino scodinzolando felice. Lei lo prese in braccio, ripromettendosi di non lasciarlo toccare da Alan: sarebbe stato capace di spezzargli il collo.
Sospirando tornò in cucina, tenendo Hols stretto al seno. Si fece forza e sorridendo disse:
-Eccolo qui. Ti piace?-
Alan fissò il cucciolo, alzandosi in piedi lentamente. Hols, a sua volta, puntò i propri occhi gialli in quelli neri del ragazzo e questi sussultò.
-Sei forse impazzita sul serio, perdio?- urlò all'improvviso.
Additò il cucciolo e guardando con un barlume di follia la sorella sibilò minaccioso:
-Io me ne vado, ma tra un'ora, quando ritornerò, non voglio più trovare questo lupo in casa! Guai a te se lo vedrò ancora: butterò fuori a calci in culo te e lui! Sono stato chiaro?-
Fece una smorfia al genuino stupore di Hilda e si avviò verso la porta, ruggendo con rabbia:
-Sbarazzatene!-
Hilda rimase sbigottita ed interdetta ad osservare Hols tra le sue braccia, riuscendo solo a ripetersi: oddio, un lupo... un lupo...

lunedì 8 giugno 2009

Cristalli - 3° puntata

-Hilda, io vado da Sandy. Devi uscire?-
Dalla propria camera, alzando la voce per farsi udire, lei rispose:
-Ho un appuntamento con LA per studiare.-
Alan fece una smorfia di disprezzo e bofonchiò:
-Tornerò per cena. Vedi di farti trovare a casa per quell'ora.-
Appena sentì chiudere la porta, Hilda si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo ed aggiustò una piega invisibile sulla gonna. Quindi si diresse in bagno per prepararsi ed iniziò a spazzolare i lunghi capelli corvini.
Sorrise pensando alla sua amica. Alan la disprezzava e questo LA lo sapeva, nonostante per un certo periodo di tempo fossero stati insieme. Ma non se ne curava affatto. Hilda la conosceva già da cinque anni, praticamente da quando si era trasferita lì con Alan e poteva giurare tranquillamente di non averla mai vista pensierosa o con un problema da risolvere: era sempre allegra e spensierata; niente riusciva a sminuire la voglia di vivere che l'alimentava.
Una puttana dal viso d'angelo, dicevano di lei. Poteva avere tutte le virtù di questo mondo ma le piaceva troppo divertirsi e per questo era stata marchiata.
Già, pensò tristemente, fa presto la gente a giudicare... Possono dire tutto il male che vogliono su di te, ma per me sei semplicemente magnifica. Sei la mia unica vera amica e non ti cambierei con una santa. Solo tu hai saputo aiutarmi e comprendermi senza che io ti chiedessi o dicessi niente.
Si voltò verso la finestra con un'espressione intensa sul volto pallido, le sopracciglia aggrottate ed i capelli che le ricadevano voluminosi ed ondulati sulle spalle. LA, pensò, non è minore la bellezza anche se cade ad un soffio di vento...
All'improvviso il ricordo di quella domenica mattina le fece venire le lacrime agli occhi e si morse le labbra per non cedere alla debolezza. Il passato le tornava troppo spesso in mente, crudele ed ossessionante, malgrado facesse sforzi enormi per dimenticare.
Scosse violentemente la testa e decise di fare due passi prima di andare da LA e, afferrato l'impermeabile, uscì senza pensarci oltre.
Da poco aveva smesso di piovere, anche se la città era ancora avvolta da un cupo grigiore ed un leggero vento la fece rabbrividire all'improvviso. La sua mente era un continuo via vai di ricordi che si susseguivano con velocità dirompente e che la perseguitavano ormai da cinque anni, tenendola segregata nella prigione di se stessa.
L'uomo è come un fiore portato dal vento, si ripeté per la centesima volta. E' il Karma.
Lasciò spaziare la mente in un luogo da fiaba, dove si rintanava quando voleva fuggire alla realtà, e quel luogo così cristallino, incontaminato, dove solo a lei era consentito l'accesso, rifletteva una luce abbagliante, fatta di miriadi di cristalli iridescenti. Cristalli che rilucevano sopra una cascata di capelli biondi che svolazzavano liberi e che sembravano trasparenti, tanto erano chiari... I capelli di Siegfried, così biondi da meritarsi il soprannome di Dagr, il mitico dio del giorno. E lui le sorrideva, col suo volto da bambino, circondato da un velo di nebbia. Otto anni...
Involontariamente rabbrividì, mentre alcune gocce di pioggia ricominciavano a cadere. Scrutò il cielo plumbeo e decise di rientrare. Era anche ora di andare da LA.
Ritornò sui propri passi e mise il cappuccio dell'impermeabile in testa. Tra meno di un mese doveva dare un esame ed era meglio non pensare ad altro. Se si fosse dedicata allo studio, sarebbe riuscita e superare la prova eccellentemente; la media dei suoi voti era buona e non avrebbe permesso ai ricordi di rovinargliela. Ed anche volendo, non si sarebbe potuta permettere il lusso di prendersela comoda.
Quando sua zia aveva telefonato, li aveva avvertiti che quello che i loro genitori avevano lasciato in banca si stava consumando e se Alan non si fosse sbrigato a laurearsi ed a trovare lavoro, si sarebbero ritrovati senza fondi e lei avrebbe dovuto abbandonare gli studi. In parole povere, si sarebbero ritrovati sul lastrico e sua zia aveva lasciato chiaramente intendere che lei non avrebbe potuto far niente. Meglio ancora: nei tre anni che li aveva mantenuti aveva fatto anche troppo.
Ma che bella prospettiva! pensò con sarcasmo.
Con stizza accelerò il passo, mentre la pioggia cadeva con maggior insistenza. Fu in quel momento che qualcosa attrasse la sua attenzione. A prima vista sembrava un fagottino grigio e peloso, abbandonato per la strada e se non fosse stato perché tremava convulsamente, non l'avrebbe neppure notato. Incuriosita si avvicinò accucciandosi ed allungò una mano, quando un guaito la fece sobbalzare. Fissò il fagotto e subito dopo sorrise, prendendolo in braccio: era solo un cucciolo di cane inzuppato come un pulcino che tremava per il freddo. Lo strinse a sé cercando di trasmettergli un po' del suo calore ed il cucciolo la guardò drizzando le orecchie.
-Ma chi ha avuto il coraggio di abbandonarti sotto questa pioggia?- mormorò accarezzandolo dolcemente.
Mossa da compassione, decise di portarlo a casa e si mise a correre, arrivando a destinazione con un violento batticuore. Senza curarsi di togliere l'impermeabile che gocciolava, si diresse in bagno, posò il cucciolo a terra ed aprì l'acqua per riempire la vasca.
-Mi auguro che tu non abbia paura di un bel bagnetto caldo.- disse osservando il batuffolo bianco che a mala pena si teneva sulle zampe.
Ridendo si sbarazzò dell'impermeabile, cercando un nome da dargli e quando l'acqua giunse al livello desiderato, prese il suo nuovo amico e gli fece un bel bagno caldo, insaponandolo e frizionandolo a dovere. Ci impiegò quasi un'ora a lavarlo ed asciugarlo, lottando per tenerlo fermo ma, alla fine, il risultato superò ogni aspettativa: del cucciolo inzuppato, infreddolito e maleodorante non c'era più traccia; al suo posto c'era una massa gonfia di peli lunghi e brillanti, che risplendeva sotto la luce del neon.
Hilda lo sollevò per osservarlo e, contenta, esclamò:
-Sei perfetto! Non immaginavo che una volta rimesso a nuovo saresti stato così carino. Vediamo... Ti chiamerò Hols. Sì, suona bene. Hols...-
Un lampo saettò negli occhi gialli del cucciolo, occhi obliqui e sottili, così diversi da quelli di ogni cane. Il suo pelo era folto, la coda grossa e voluminosa, il muso più allungato del normale e le orecchie dritte ed aguzze.
-Devo riconoscere che come cane sei abbastanza strano.- commentò rigirandolo da tutte le parti. -Ma mi piaci così come sei.-
Sorrise felice e l'abbracciò, stampandogli un bacio in mezzo al muso. Siamo entrambi soli, amico mio; ci faremo compagnia.
Lo lasciò libero di girare per casa, mentre si dirigeva in cucina per preparargli una ciotola con l'acqua ed un piatto con alcuni pezzi di carne avanzati a pranzo. Hols mangiò con avidità e lei lo guardò con affetto, ripromettendosi di comprargli un guinzaglio ed un collare.
Per la prima volta dopo tanti anni, Hilda riuscì a dimenticare il passato che l'ossessionava e fu contenta di essere ancora viva.
Ancora viva...
Erano trascorsi ben cinque anni, eppure, all'improvviso, le parve solo un sogno, una cosa irreale e si ritrovò a chiedersi se veramente fosse stata lei a compiere quel gesto.
Il suo sguardo si posò sui polsi: benché sottili, le due cicatrici c'erano e ci sarebbero rimaste per sempre.
Chiuse gli occhi rabbrividendo ed in quell'istante suonarono alla porta. Si riscosse dal passato ed andò ad aprire, con Hols che le scodinzolava attorno felice e con la pancia piena.
La sorridente faccia di LA fece capolino ed Hilda non ebbe la possibilità di aprir bocca ché subito la ragazza esclamò ridendo:
-Ehi! Lo sai che ti sto aspettando già da un'ora? Ti eri dimenticata che dovevi salire da me? Allora? Ehi! Non dirmi... Non dirmi che c'è un uomo in casa! Ho interrotto qualcosa?- domandò insinuante, squadrandola da capo a piedi. -Ma no, sei ancora vestita... Allora? Mi fai entrare?-
Quell'inatteso fiume di domande e constatazioni la lasciò un attimo interdetta, mentre la faceva entrare e richiudeva la porta alle proprie spalle. Quindi scoppiò a ridere e mormorò:
-Oh, no! Niente uomini. Ero uscita per fare due passi.-
-Oh, santo cielo!- sospirò LA. -Ed io che speravo di trovarti in dolce compagnia... Ho la vaga impressione che tu sia affetta da una grave, addirittura cronica fobia... Allora?-
Hilda sorrise, intuendo la muta domanda dell'altra e lasciò scivolare lo sguardo ai propri piedi. LA chinò la testa e vide Hols rannicchiato dietro le gambe dell'amica.
-Oh, cielo! Che amore!- esclamò chinandosi e prendendolo in braccio. -Dio, è dolcissimo! Dove diamine l'hai trovato?-
-A dir la verità l'ho trovato ora che sono uscita. Qualcuno deve averlo abbandonato e così ho deciso di portarlo a casa. Mi faceva tenerezza.-
-Pensi di tenerlo?-
-Sì. Gli ho già trovato un nome: Hols. Ti piace?-
Si diressero in cucina ed Hilda si diede da fare per preparare il caffè, mentre LA giocherellava con il cucciolo.
-Sì, mi piace. Direi che è perfetto.- rispose. -Alan l'ha visto?-
-Veramente no.- ammise Hilda in un sussurro, posando la caffettiera sul fuoco.
I grandi occhi nocciola di LA puntarono sull'amica, ma non disse niente: il silenzio parlò per lei. In quegli anni aveva imparato a conoscere i due fratelli e già immaginava la reazione che avrebbe avuto Alan. Brutta faccenda, pensò tristemente.
Sentì Hilda sospirare ed il suo sguardo si fece compassionevole.
-Bene!- esclamò con allegria, posando Hols a terra. -Dall'odore si direbbe che il caffè stia venendo buono. Penso io alle tazzine, tu prendi lo zucchero.-
Hilda la sbirciò mentre si muoveva per la cucina e sorrise. Sei una cara amica, pensò.
-Perfetto.- commentò LA sedendosi. -Ora ci gustiamo il caffè, quindi ci buttiamo nel ripasso, ok?-
-Ok.-
Per tutto il pomeriggio LA ascoltò le risposte che Hilda dava alle sue domande, fornendole maggiori spiegazioni, facendole ampliare o restringere vari concetti, dandole consigli ed assicurandola che avrebbe superato l'esame con il massimo dei voti.
Una volta sola, Hilda fece mangiare Hols e si preparò all'arrivo di Alan.