domenica 21 febbraio 2010

CICERUACCHIO (Angelo Brunetti)

(Roma, settembre 1800 - Porto Tolle, 10 agosto 1849)

A Roma non piove molto, ma quando il cielo decide che è ora di piangere, ne manda giù talmente tanta che noi romani diventiamo scemi. No, non scherzo. Noi siamo avvezzi al sole, ci crogioliamo sotto la sua luce e non conosciamo nebbia, neve, bora né nubifragi. Siamo un po' come le lucertole, usciamo solo con il bel tempo e, visto che c'è sempre il sole, usciamo sempre. Ma quando piove… Quando piove e siamo costretti a mettere il muso fuori di casa causa lavoro, noi romani impazziamo. Se con il sole siamo soliti usare gli autobus e la metro, con la pioggia montiamo tutti in macchina, terrorizzati all'idea che una singola goccia d'acqua possa bagnarci. E allora vedi l'Urbe divenire un'immensa pozzanghera, straripare di autovetture incolonnate per ore per giungere a destinazione, con gli automobilisti che smadonnano e si insultano reciprocamente, dando la colpa al tempo se fanno tardi. E' follia, ma è sempre così. Quando piove, Roma va in tilt. Figuriamoci se dovessero scendere due fiocchi di neve…
Osservo in silenzio le macchine incolonnate, imbottigliate nel caos cittadino, mentre me ne sto sotto l'ombrello in attesa che arrivi l'autobus che mi conduca al lavoro, stando bene attenta a non farmi schizzare dalle macchine che passano sulle buche piene d'acqua piovana. Alcuni vigili provano a sfidare l'ira degli automobilisti, ricevendo in cambio insulti e minacce sussurrati a fior di labbra. Solo un singolo essere sorride divertito, un uomo che mi sta vicino, senza alcun riparo e guarda con sommo disprezzo la follia che scivola dinanzi ai suoi occhi. Lo sbircio e mi accorgo che, a dispetto della pioggia, è asciutto e veste un po' dimesso. Lo osservo meglio e subito dopo sgrano gli occhi, esclamando:
-Ciceruacchio!-
Lui si volta a guardarmi e sorride, illuminandosi in quel volto rotondo che ispira fiducia e tranquillità
-Ma tu guarda 'sti romani di oggi!- esclama con il suo forte accento romanesco.
-Ai tuoi tempi era diverso.-
-Lo puoi dire forte, ragazza mia! E non c'era neppure questo rumore assordante al quale voi vi siete assuefatti. Tutt'al più si potevano udire gli strilloni in Campo Marzio, o a piazza Navona, o lo stridio delle ruote delle carrozze sul selciato oppure il calpestio degli zoccoli dei cavalli. Tutto questo…- e fa un gesto con la mano, -roboante rumore non c'era.-
-Si viveva meglio, eh?- commento divertita dalla sua aria schifata.
-Eccome!-
Esito un attimo, quindi abbasso il mio ombrello e mi accorgo che la pioggia devia, non mi tocca, come se fossi coperta da una invisibile campana di vetro. Come al solito la gente non ci vede neppure e torno a guardare lui, con quei suoi baffoni scuri e quel pizzetto che quasi fanno sparire la bocca.
-Perché il soprannome Ciceruacchio?- domando curiosa.
-E' una corruzione di ciruacchiotto, ossia cicciottello. Ed io lo sono sempre stato, fin da piccolo.-
-Tu sei nato e vissuto a Roma in un periodo un po' turbolento.- ricordo.
Scuote la testa annuendo e si accarezza il ventre prominente.
-In effetti, dopo la rivoluzione francese, si annusava in giro aria di ribellione ovunque.-
-E tu ti sei dato da fare.-
Lo vedo corrucciarsi e scurirsi in volto, quel volto rubicondo che i romani avevano imparato ad amare e rispettare, nonostante fosse solo un semplice oste.
-Con il mondo che cambia, che riscatta la sua libertà, secondo te cosa avrei dovuto fare? Starmene con le mani in mano?-
Non rispondo, consapevole che ha ragione. E' destino che alcuni uomini sentano maggiormente il richiamo della Storia, seppur inconsapevolmente, e lui è uno di questi. Non a caso, durante la Repubblica Romana, si diede da fare per far passare armi e vettovaglie ai combattenti ed al popolo di Roma.
-So che i romani hanno sempre guardato a te come il portavoce dei loro sentimenti.-
-Ero il loro specchio, il riflesso di loro stessi!- esclama soddisfatto. -Essendo un oste, conoscevo più che bene il malumore dei miei concittadini, che si riunivano nel mio locale per parlare male o bene di taluna persona o di tale nobile o porporato. La gente si confidava con me ed io ascoltavo. Ed essendo sempre stato socievole e bontempone, ho preso le redini in mano quando si è trattato di eleggere il nuovo papa.-
Sgrano gli occhi e chino la testa di lato, incredula.
-Tu… hai eletto il nuovo papa?- esclamo.
-Ma no! Certo che no!- risponde quasi offeso. -Con l'avvento di Pio IX Mastai Ferretti, mi feci portavoce del malcontento popolare e riportai con la mia dialettica diretta, priva di retorica, tutta l'ansia dei romani che da tempo attendevano riforme.-
Espiro, inconsapevole di aver trattenuto l'aria e subito dopo sorrido. Be', capita di fraintendere…
-Addirittura,- riprende con il suo vocione, -ho ringraziato pubblicamente il nuovo papa per aver concesso la libertà ad alcuni prigionieri politici ed ho offerto da bere nella mia osteria. Ah, sì…- sospira ed un velo di malinconia ricopre i suoi occhi attenti. -Che festa abbiamo fatto… Fino a sera tardi, al lume delle torce e delle fiaccole, tutti a bere e cantare e mangiare: sembravano tornati i bei tempi andati.-
Rimango in silenzio, domandandomi a quali bei tempi si riferisse e, a dispetto della mia ricerca nella memoria, non trovo nulla che possa definirsi tale. Forse è solo un suo sentimento personale. Di certo l'Italia non percorreva un buon periodo, viste le dominazioni francesi ed austriache.
-A Porta del Popolo, poi,- continua con aria estasiata, -abbiamo acceso un fuoco enorme, richiamando tanti di quei romani che tu non puoi immaginare.-
Sogghigno sotto i baffi, immaginando un concerto dei Queen, o dei Led Zeppelin, o dei Pink Floyd e neppure rispondo, lasciandolo crogiolare nel suo ricordo. Ed in quel lasso di tempo mi rendo conto di quanto possano essere cambiati i tempi nel volgere di un solo secolo, stravolgendo le abitudini e lo stesso pensiero.
-Ma poi qualcosa è cambiato.- noto.
China mestamente la testa al ricordo bruciante e si morde le labbra.
-Avevo riposto grande fiducia nel nuovo papa, tanto da sperare fino all'ultimo che avrebbe veramente cambiato le cose. Ma quando è fuggito, facendo crollare anche la Repubblica Romana, ho aperto gli occhi.-
-Non poteva essere il successore di Pietro il riformatore, vero?-
-No.- ammette controvoglia. -E l'ho capito a mie spese. E' fuggito lasciando Roma nelle mani dei francesi. Ti lascio immaginare gli avventori della mia osteria: indignati, offesi e furiosi era a dir poco. Io con loro.-
Annuisco, ma non so se riesco a capire pienamente il suo stato d'animo. Di certo non deve essere stato facile vivere in quel periodo di stravolgimenti emotivi. Da una parte la Francia che insegnava con la sua rivoluzione e con l'avvento di Napoleone, dall'altra l'Austria e la Prussia con le loro ancor solide radici nel medioevo, impermeabili a qualsiasi capovolgimento, insofferenti ad ogni riforma ed ognuna di loro con basi stabili, o semi stabili, in Italia. In effetti, noi giovani di oggi, cosa possiamo saperne dell'occupazione, delle restrizioni, dell'impossibilità di esprimere le proprie opinioni, della morte che si annida dietro ogni angolo che si può svoltare? Salvatore Quasimodo ne sapeva qualcosa e la sua meravigliosa "Alle fronde dei salici" è lì a testimoniarlo.
-Anche tu sei fuggito.-
-Be', a dir la verità, visto come si mettevano le cose, ho preferito seguire Garibaldi… Hai presente Garibaldi?- domanda con aria da inquisitore.
-Eh, sì.- sospiro annuendo.
Mi fissa a lungo, come se la mia espressione non gli piacesse e provo a piegare le labbra in un sorriso amichevole.
-Aho, regazzì,- mi riprende alzando l'indice come un maestro ed agitandomelo sotto il naso, -guai se ti vedo deridere il nostro Garibaldi. Non te lo permetto.-
-Non lo permetterei a me stessa.- ribatto. -So bene chi fosse Garibaldi e ne ho profondo rispetto, nonché stima.-
-Ah, be'.- commenta compiaciuto.
Lo vedo rilassarsi in volto e porta le mani dentro le tasche del panciotto, con aria soddisfatta.
Rimango ad osservarlo, in attesa che continui il racconto e, quando si rende conto del mio prolungato silenzio, mi fissa e chiede brusco:
-Be'? Che hai da guardare?-
Esito, non sapendo bene cosa dire, quindi rispondo:
-Guardo un eroe romano.-
Quella risposta lo compiace e sorride beota.
-Be', forse hai ragione.- risponde. -In finale, ho dato la mia vita per Roma, per la sua libertà. E con me l'hanno data i miei due figli, il più grande ed il più piccolo, poco più di un bambino.-
-Sì, ricordo. Gli austriaci non hanno avuto pietà di un ragazzino.-
-Già- ringhia con espressione furiosa. -Ci vuole coraggio a fucilare un tredicenne mingherlino.-
Avverto il sarcasmo e convengo con lui. Non deve essere facile affrontare la morte a viso aperto, figuriamoci poi se al fianco ti ritrovi con due figli che debbono fare la tua stessa fine. Me lo immagino, Ciceruacchio, provare a coprire con il suo corpo massiccio il figlio minore, nella speranza di salvarlo dal plotone di esecuzione.
-Sei morto lontano dalla tua Roma.- commento.
-Purtroppo. E pensare che quando ero partito, speravo di contribuire alla sua liberazione. Sai,- mormora sconsolato, -con Garibaldi volevo dare una mano a Venezia che resisteva agli austriaci, ma ci siamo dovuti fermare al Delta del Po, per sfuggire alle vedette nemiche. Abbiamo chiesto rifugio ai connazionali, ma quei bastardi di italiani, anziché aiutarci, ci hanno denunciato agli austriaci, i quali hanno provveduto a fucilarci senza perdere tempo. Comprendi? Noi, italiani che volevamo scacciare gli oppressori, denunciati dai nostri stessi concittadini! Roba da non credere.-
Scuoto la testa come lui, pensando che fosse normale per gli italiani dell'epoca, divisi per secoli, non provare un sentimento di unità nazionale. Troppo diversi. Troppi dialetti diversi. Troppe frontiere. Ma, chissà perché, questo solo pensiero non mi consola dinanzi alla vista di italiani che tradiscono gli stessi italiani. Quello che mi colpisce e mi ferisce, è che oggi, tutto sommato, la pensiamo ancora come quei contadini del Delta del Po.
-Oggi, però, riposi al Gianicolo.- lo consolo.
Sorride ed in un gesto affettuoso mi dà un buffetto sulla guancia.
-Aho, regazzì, e mica è da tutti!-
Rido della sua romanità ed in quel momento sento la pioggia bagnarmi la tesa. Alzo lo sguardo e mi bagno il volto, ricordando che avevo chiuso l'ombrello perché riparata dalla presenza di Ciceruacchio. Quando mi giro per salutarlo, non c'è più e la pioggia sul mio viso mi sembra all'improvviso come un pianto silenzioso per tutte quelle vite donate per un ideale che oggi nessuno sente più.

domenica 14 febbraio 2010

Stralcio da "La spada bianca"

-Vorrei capire, sensei.-
Distolsi l’attenzione dal cielo azzurro scuro e mi sedetti pigramente su una roccia, socchiudendo gli occhi stanchi. Sì; in fondo era meglio che sapesse.
-Domanda pure.-
-Voi… voi vi siete difeso in modo… Come avete fatto?-
-Esperienza acquisita con gli anni.- risposi vago.
Zephyr aprì la bocca, ma la richiuse quando si rese conto, dalla mia espressione, che su quell’argomento non avrei aggiunto altro. Allora sbirciò il rio scorrere placido e domandò:
-Christian voleva ucciderci. Perché?-
Inspirai profondamente e ponderai bene le parole prima di chiedere:
-E’ difficile rispondere. Se tu ne avessi la possibilità, uccideresti il Re?-
-Sì!- esclamò d’impeto.
-Perché?-
-E’ un tiranno. Domina con il terrore e senza un briciolo di umanità.-
Annuii lentamente pensieroso e mi accarezzai la barba.
-E se tu fossi il Re e vedessi qualcuno che stesse tentando di usurparti il trono?-
Non rispose subito perché capì che volevo una risposta sincera.
-Probabilmente… Be’, sì. Lo farei uccidere.-
-Vedi, Zephyr, questa non è altro che la spirale di violenza nella quale l’uomo ha sempre vissuto e dalla quale non uscirà mai. Noi due siamo venuti a trovarci nel centro di questa spirale e ieri sera è iniziata la lotta. Il Re vuole le nostre teste perché ci considera una minaccia e noi vogliamo la sua vita perché è un tiranno.-
-Non stiamo minacciando nessuno.- mormorò incredulo.
-Apparentemente no. Ma il solo fatto che io appartenga alla sacra Via Divina mi fa reputare un pericolo serio. Per i potentati. Perché avere il potere nelle mani è il sogno di tutti.-
Meditò un attimo sulle mie parole, quindi si avvicinò al rigagnolo ed osservò le pietre brillare adamantine sotto i raggi solari. Si chinò ed affondò la mano dalle dita lunghe nell’acqua, più e più volte, ritirandola fuori ogni volta chiusa a pugno e vuota.
-Il potere…- mormorò meditabondo. -E’ inafferrabile come queste iridescenze emanate dai sassi. Ho provato a catturarle… Per un attimo, ma solo per un attimo, ho creduto di riuscirci e stavo per esultarne; poi mi sono reso conto che il pugno non racchiudeva altro che aria.-
Si voltò a guardarmi, con le sopracciglia aggrottate, continuando:
-Se il potere è capace di dare solo un fugace attimo di gioia a chi crede di possederlo, perché l’uomo uccide per ottenerlo?-
-E’ una storia vecchia come l’universo. E’ prerogativa umana cercare di dominare su tutto e su tutti ed il potere offre questa effimera speranza. Per un brevissimo attimo.-
Rimase perplesso a lungo, quindi mi rivolse la domanda… quella domanda:
-E noi?-
Non c’era bisogno che aggiungesse altro: sapevo cosa chiedeva. Sospirai appena ed osservai la landa desolata e desertica che si stendeva davanti ai miei occhi diafani, immersa in un perenne silenzio. Misi il cappuccio sulla testa per ripararmi dal sole e spiegai:
-L’uomo ha sempre combattuto per ottenere il potere, disseminando la storia di cadaveri barbaramente mutilati, di stragi e di stermini, di odio e di violenza. Non si è mai fatto scrupoli pur di afferrare la leggenda e questo eccidio non avrà mai fine, nonostante la distruzione. E quello che ti ho promesso è il potere. Quello stesso potere che ha condotto l’uomo all’autodistruzione. Hai paura, Zephyr?-
Mi studiò a lungo con quei suoi occhi profondi e perspicaci ed ammirai il suo portamento fiero e deciso.
-No, non ho paura.- rispose pacato. -Il potere che avete promesso di tramandarmi ha qualcosa di diverso da quello che insegue l’uomo.-
Sorrisi soddisfatto, perché aveva intuito.
-E’ così, hai ragione. Esistono due differenze fondamentali tra noi e gli uomini. Questi hanno cercato il potere con la violenza per dominare sugli altri; noi lo usiamo per aiutare l’umanità.-
-E’ questo il compito che dovrò svolgere?-
Annuii con aria grave e tornai ad osservare il cielo.
-Riesci a comprendere l’altra differenza?-
Alla mia domanda seguì il silenzio ed io, con estrema facilità, entrai nella sua mente per carpirne i dilemmi. Stava pensando alle immense distese desertiche che da anni, ormai, caratterizzavano la terra e dominavano sotto la forte luce del sole. Da quando la radioattività aveva gremito l’atmosfera terrestre, le stagioni erano state spazzate via come per incanto ed ogni giorno il sole bruciava come un’estate perenne. Solo al tramonto l’aria si raffreddava ed era il momento migliore della giornata; la notte, invece, bisognava accendere il fuoco se non si voleva morire congelati. Difficilmente pioveva e quando ciò avveniva era preferibile rintanarsi in luoghi sicuri perché la crosta terrestre veniva bombardata da acqua radioattiva.
Mentre osservavo con lui quel paesaggio angoscioso, mi rattristai pensando a tutti quei bambini che, nati dopo la distruzione, non avrebbero avuto la possibilità di vedere la terra come era una volta. Sarebbero nati, cresciuti e morti in un deserto infido e crudele, ben diverso dal deserto di un tempo che pullulava di vita.
All’improvviso il paesaggio mutò e mi ritrovai a fissare una distesa di ghiacci immacolati. Non pensai mai a come Zephyr, nato dopo la distruzione, conoscesse la neve ed il ghiaccio. Sapevo cosa significasse quel paesaggio, meglio di lui stesso che lo immaginava. Almeno per il momento.
-No, non puoi ancora comprendere l’altra differenza.- affermai osservando una piccola nuvola bianca.
-Dovrò comprendere da solo, vero?-
-Sì.-
Rimase un secondo in silenzio, quindi chiese:
-Cos’è la Spada Bianca?-
-Prima di comprendere questo, devi conoscere la verità.-
-Quale verità?-
Inspirai a lungo ed abbassai gli occhi per guardarlo. Si era seduto al mio fianco, in trepidante attesa ed io, spinto da un’improvvisa tenerezza, gli scompigliai i capelli affettuosamente.
-La sacra arte di Kamido ha avuto inizio molti millenni fa, prima ancora che l’uomo nascesse. Ai primordi molti Cavalieri diffondevano l’arte per portare la pace tra i popoli dell’universo.-
Iniziai a raccontare con tono pacato, per fargli comprendere nel migliore dei modi quello che avrebbe dovuto apprendere, mentre la mia mente tornava indietro nel tempo, valicando generazioni e generazioni, fino a giungere alla soglia dei secoli. Kamido è una disciplina severa, rigida, che chiede molto ai propri allievi e ricompensa in ugual misura. E’ l’essenza della vita, la fonte dalla quale scaturisce la forza ed io, insieme ad altri 999, ero l’eletto, il degno di continuare la discendenza.
Eravamo stati scelti da mille diversi punti dell’universo, destinati a portare ordine, giustizia e serenità. Eravamo i mille Cavalieri del Potere; niente ci era sconosciuto e nulla ci era impossibile. Nelle nostre mani giaceva inerme il destino del creato ed eravamo noi, dèi immortali, a comandare con giustizia. Ma con l’avvento dell’uomo tutto l’equilibrio, che fino allora aveva dominato, si era sgretolato. Molti Cavalieri, contaminati dall’avidità, dal rancore e dall’odio del genere umano, avevano preso coscienza fin troppo bene del potere che possedevano e che potevano usare. La ribellione si era protratta nei secoli ed i Cavalieri traditori si erano mescolati agli uomini, non più con lo scopo di aiutarli nel bene, ma per istigarli gli uni contro gli altri, facendo comprendere loro quanto fosse importante avere il potere nelle mani per dominare.
Poco a poco la sacra arte di Kamido si era scissa in due: i Cavalieri, fedeli alla disciplina, ed i Bushi, ribelli e traditori.
Ma il Potere non aveva permesso a questi ultimi di avere il sopravvento. Nel corso dei secoli i Bushi si erano moltiplicati, mentre dei mille cavalieri che erano esistiti all’inizio ne erano rimasti solo due a servire Kamido. E laddove questi avevano mantenuto il Potere, i Bushi avevano perso molto dell’arte appresa e ben presto non erano stati più in grado di rinascere. Allora avevano iniziato a tramandarsi l’arte di padre in figlio, fino a giungere ai nostri giorni con la stessa forza che avevano i loro padri ma non con lo stesso potere.
Rivissi con nostalgia quel racconto succinto che feci a Zephyr, rimpiangendo i mille Cavalieri. Non dissi altro per non sconvolgere la sua mente ancora giovane ed impreparata, ma sapevo che col tempo avrebbe ricordato tutto. Non potevo svelargli che lui era stato il mio maestro e che io, a mia volta, lo fui di lui nel passato e così via, fino ai primordi. Avrebbe ricordato da solo le sue vite precedenti, soprattutto la distesa di ghiacci dove, nella sua ultima vita, era morto per mano mia. Ma non avrebbe provato rancore, come io ora non lo provo per lui.
So di certo che Kamido sopravvivrà grazie a noi due, che continuiamo a servire devotamente, benché i Bushi ora abbiano affinato e perfezionato il loro potere, comprendendo fino in fondo il pericolo che io e Zephyr rappresentiamo per la loro sopravvivenza.
La lunga catena di vite stava per fare una svolta: ora Kamido ci ordinava di estirpare il male.

sabato 13 febbraio 2010

Aforisma

La cosa importante non è ciò che essi pensano di me, ma quello che io penso di loro.
Reg. Vittoria

mercoledì 10 febbraio 2010

BENVENUTO CELLINI

(Firenze, 3 novembre 1500 - Firenze, 13 febbraio 1571)

Credo non ci sia nulla di più piacevole che andarsene in vacanza dopo un intero anno lavorativo, dimenticando le arrabbiature, le delusioni, le battaglie verbali con l'eccentrico, con il perfettino, con l'ignorante, con il saccente e con il prototipo del cafone romano. Sì, perché noi romani, quando ci mettiamo, sappiamo essere ignoranti e sgradevoli come pochi altri al mondo. Inutile illuderci. Allora, dopo un intero anno a combattere con gente simile, la vacanza sembra una vera manna dal cielo, un modo per ritemprarsi e fare rifornimento di buonumore per poter sopravvivere ad un altro anno di duro lavoro.
E' meraviglioso starsene su una barchetta a remi a crogiolarsi sotto il sole, sopra un lago piatto ed invitante, la mente vuota ed il cinguettio melodioso degli uccellini che corrobora lo spirito abbrutito dal caos cittadino. E poi, se decidi di fare un bagno rinfrescante, hai la possibilità di godere della fauna marina che pullula, vive e prolifica sotto la barchetta. E non solo la fauna: anche un uomo ormai in là negli anni, che se ne sta lì, sul fondale, accovacciato su uno scoglio sommerso, le braccia incrociate e l'aria bellicosa.
-Era ora.- esordisce acido. -E' da un bel po' che ti aspetto e tutta questa umidità non fa certo bene alle mie povere giunture.-
Sgrano gli occhi incredula e porto la mano alla maschera ed al boccaglio che indosso, prima di dire:
-Benvenuto Cellini?- e mi domando come diavolo faccio a comunicare con lui sotto la superficie del lago.
-Io, sì, in persona.- ribatte con tono burbero e cipiglio fiero.
-Ma… cosa ci fai qui?- domando sorpresa ed in quell'istante mi accorgo che è il mio pensiero a parlare, non io.
Lo sento borbottare qualcosa di inintelligibile, circondato da un branco di bellissimi pesciolini gialli e rossi, prima di bofonchiare:
-Aspettavo te. Chi altri?-
-Be', tutto ciò è alquanto lusinghiero e sono onorata di trovarmi al tuo cospetto…-
-Dacci un taglio, figliola e vieni al sodo: cosa vuoi sapere?-
Santo cielo! Ma allora è proprio vero che Cellini era scontroso, irascibile, attaccabrighe e violento, al pari del suo genio. Sì, perché nel Rinascimento italiano un solo nome si ergeva al di sopra di tutti gli altri in fatto di arte orafa: Benvenuto Cellini. E non solo orafo alla corte papale e coniatore della zecca, ma anche scultore, visto e considerato che ci ha lasciato in eredità un Perseo di mirabile bellezza.
-So che sei nato a Firenze, la città dei Medici, da un suonatore di flauto.- inizio, ignorando volutamente la sua maleducazione.
Fa una smorfia e con la mano scansa i pesci in malo modo, prima di controbattere:
-Discendo da un capitano di Giulio Cesare.-
Sorvolo su quell'affermazione inventata di sana pianta e continuo:
-Sei stato amico di Michelangelo, che tu hai sempre considerato un idolo ed un modello da seguire.-
Gonfia il petto come un attempato pavone e subito dopo dal naso gli escono migliaia di bollicine d'aria che provocano la mia ilarità.
-Quale amicizia, eh? Puoi vantare lo stesso?-
-No, purtroppo no.- rispondo alzando le spalle.
-A quel tempo, nella Signoria, si incontravano persone fuori del comune.-
-Non stento a crederlo. Ma tu a Firenze non ci sei rimasto a lungo.- faccio presente.
-Vero. Mi sono spostato a Roma non ancora ventenne, presso papa Leone X Medici, il quale mi ha preso a servizio come incisore della zecca e suonatore di flauto. Ma questo secondo mestiere lo facevo solo a ricordo di mio padre.- ammette con una certa riluttanza.
-Un bel lavoro.-
-Sì.- conviene con superficialità, osservandosi le punte delle dita. -Ero un genio: tutto ciò che toccavo trasformavo in oro. Un dono che nessun altro, nel corso dei secoli, è riuscito ad avere.-
-La modestia non è il tuo forte, vero?- replico con evidente sarcasmo.
Vedo le sue narici dilatarsi dall'ira e con stizza ribadisce:
-Checché tu ne dica, il mio era un dono che tu, sicuramente, non hai e mai avrai.-
-Un dono, sì, ma lo usavi male.- gli rammento, per nulla intimorita dalla sua arroganza. -Non facevi che giocare d'azzardo ed andare a donne, ignorando tua moglie, ed ogni volta avevi problemi con la giustizia.-
Lo vedo sbuffare con irritazione e portare una mano al fianco, in posa prosaica, l'aria meditabonda ed infine china appena la testa ed ammette:
-Era l'unico inconveniente che mi costringeva a cambiare repentinamente città. Ma a Roma sono sempre tornato. Il fascino dell'Urbe è irresistibile.- ammette annuendo.
-Ed a Roma stavi, durante il sacco del 1527.-
Lo vedo sogghignare strafottente e mi sistemo meglio la maschera sul naso per osservarlo più nitidamente. Quest'uomo, un genio nel far uscire dalla sua fucina monete, monili, medaglie, intarsi e via dicendo, era, tutto sommato, un mezzo delinquente, un furbacchione, un ladruncolo che si spacciava per erudito e che riusciva a farsi perdonare ogni marachella, ogni omicidio, ogni rissa grazie al tocco magico delle sue mani. Un novello re Mida.
-Sì, ero a Roma quando giunsero i lanzichenecchi di Georg von Frundsberg. Mi sono offerto di divenire artigliere del papa, Clemente VII Medici, ed è stato un mio proiettile, sai, ad uccidere il Conestabile di Borbone ed a ferire il principe Filiberto d'Orange.-
-Tu?- esclamo inarcando le sopracciglia.
-Io, sì!- ringhia furente, convinto che non gli credessi.
-Ottimo.- rispondo malleabile, per calmarlo. -Potevi ammazzarne altri, visto che c'eri.-
-L'ho fatto. Ho anche provato ad accoppare quel vecchio volpone del Frundsberg, ma non ci sono riuscito. Vedere Roma devastata da quell'orda barbarica… Ah, quale atroce spettacolo!- esclama con un gesto della mano.
-Comunque, papa Clemente ti nominò mazziere in seguito al tuo servigio e sei rimasto a Roma fino…-
-Fino a quando,- conclude per me, -il papa si è accorto che facevo la cresta sull'oro destinato alla zecca e sostituivo i metalli buoni con quelli vili e falsificavo le monete e via dicendo.-
Sgrano gli occhi dinanzi alla sua ammissione e chiedo:
-E' vero?-
-Certo.- risponde fiero. -Per questo, dopo che il papa mi aveva condannato a morte, ingiustamente secondo me, sono fuggito a Napoli, presso una delle mie amanti. Ma poi, al cambio di papa, sono rientrato nell'Urbe, per poi fuggire di nuovo a gambe levate, riparando in Francia presso re Francesco.-
-Il munifico Francesco I?- ripeto incredula.
-Lui, proprio lui, quel gigante in persona.- borbotta, in qualche modo contrariato dal ricordo.
-Era davvero così alto?- m'informo curiosa.
-Altissimo. Suppongo arrivasse a due metri; non ho mai più visto un uomo simile in vita mia.- risponde pensieroso, grattandosi il mento barbuto.
-E poi?- domando, conquistata dalla sua vita avventurosa ed irriverente.
-E poi… I francesi, quei bastardi di prima categoria, non mi hanno trattato affatto bene ed io ho rifatto fagotto e sono tornato a Roma.-
-Roma… Sempre Roma.-
-Eh, che vuoi…- sospira malinconico. -La città eterna era la mia gallina dalle uova d'oro. Il guaio è che la stessa gallina si è arrabbiata e mi ha rinchiuso in Castel S. Angelo per una… sciocchezza commessa durante il sacco del '27.-
-Una sciocchezza?- ripeto chinando appena la testa per sbirciarlo di sottecchi, maledicendo l'acqua che non mi fa vedere le giuste proporzioni.
-Mi accusarono di aver rubato nelle casse. Tst! Che taccagni!-
-Ci risiamo.-
-Erano trascorsi tanti anni, undici per l'esattezza ed io non ci pensavo più. Ovvio, non trovi? Ma, a quanto pare, qualcun altro ci aveva pensato al posto mio, rimuginando ed aspettando il momento favorevole.- commenta acido. -Quel Pier Luigi Farnese ce l'ha sempre avuta con me, bastardo pusillanime!-
-Suppongo avrà avuto i suoi validi motivi.- borbotto.
Mi fissa a lungo, con sguardo truce ed istintivamente deglutisco, ammonendomi di non commettere altri errori.
-E poi dicono a me che sono scontroso!- sibila.
Provo, per quanto l'acqua me lo concede, a fare un gesto di scusa per non irritarlo maggiormente e continuo con noncuranza:
-Allora? Ti hanno rinchiuso.-
-Sì. E lì ho bestemmiato, ho urlato, ho pregato ed alla fine ho tentato la fuga. Volevo emulare il gesto di Cesare Borgia quando è riuscito a fuggire dalla rocca della Mota: a lui andò bene, a me no. Mi calai con le lenzuola annodate, ma caddi e mi ruppi una gamba.- ricorda scuotendo la testa canuta.
-Ed è stato allora che, dopo aver scontato il fio, sei tornato in Francia.-
-Sì, e stavolta accolto con tutti gli onori. Ma il mio caratteraccio mi ha ributtato in mezzo ai problemi e sono stato costretto a far di nuovo fagotto e tornare di gran carriera a Firenze. E' stato allora, presso il duca Cosimo de' Medici, che ho creato il Perseo. Oh, ma a Roma ci sono tornato un'ultima volta, ammaliato dalla sua eterna bellezza.-
-Ma poi sei ritornato definitivamente a Firenze, quando, in un impeto di espiazione, hai preso gli ordini e ricevuto la tonsura.-
China la testa ed annuisce mestamente.
-Ho trascorso la vita intera nella sregolatezza, nella violenza, nell'imbrogliare il prossimo e nel maltrattare le mie mogli e le mie amanti. Avevo cinquantotto anni quando ho preso i voti e mi sono messo a scrivere la mia vita. Non mi sono pentito della scelta fatta. Alla fine, dopo tanto vagare alla ricerca di me stesso, ho trovato la pace ed il conforto nella Fede.-
-Sei stato un rivoluzionario ante litteram.- commento.
Alza le spalle, come se la cosa non lo interessasse minimamente ed un pesce gli passa davanti agli occhi perspicaci ed attenti.
-Addio, figliola. Auguro anche a te di riuscire a trovare te stessa. E se, per caso, in questo tuo girovagare tra le anime del passato, incontrassi il Frundsberg, porgigli i miei più calorosi saluti.-
Rimango letteralmente spiazzata e lo fisso attonita, comprendendo che il vecchio detto ha un fondo di verità: il lupo perde il pelo ma non il vizio. Ed è con perplessità che mi allontano nuotando, chiedendomi se, tutto sommato, il genio immorale quanto inimitabile che risponde al nome di Cellini, non abbia ragione.

domenica 7 febbraio 2010

Stralcio da "Il condottiero"

Bracciano, novembre 1496
Non era riuscito a credere nei dispacci che i corrieri portavano a Roma, dove Juan veniva elogiato per le sue eminenti doti militari e, scortato da Ramiro e da Michelotto, era giunto nei pressi del campo di battaglia, per rendersi conto di persona come stavano realmente le cose.
Se, dal 27 ottobre, giorno della partenza delle truppe pontificie, le cose erano andate per il meglio, era stato grazie all'abilità di Guidobaldo di Montefeltro, duca di Urbino, che aveva espugnato i primi castelli, facendo gioire Alessandro VI, il quale non aveva fatto altro che elogiare la competenza del figlio, ignorando volutamente l’abilità del Montefeltro. Solo Cesare aveva subodorato qualcosa di marcio e, infine, si era deciso a partire per vedere e giudicare con i propri occhi.
Il castello, una mole enorme ed inespugnabile, sorgeva come un titano sul paese e sul lago sottostante, svettando con le sue mura massicce e talmente alte che sarebbe stato impossibile anche solo scalfirlo. Per questo motivo, Guidobaldo di Montefeltro lo aveva posto sotto assedio, nella speranza che, con il tempo e con le epidemie, Bartolomea Orsini, moglie di Bartolomeo d’Alviano, si arrendesse. Ma la donna pareva essere la degna compagna del condottiero umbro e con scherno aveva fatto alzare bandiere francesi sugli spalti.
-Ecco svelato l’arcano.- commentò Cesare con un sorriso di soddisfazione dipinto sul volto mascherato. -Non è lui a dirigere le operazioni, ma Guidobaldo. Ramiro.- chiamò.
Il ragazzo si avvicinò, anch’egli con la maschera sul volto e Cesare ordinò:
-Va’ a vedere dove si trova il duca di Gandìa.-
Ramiro spronò il cavallo in direzione del campo degli assedianti e Michelotto si avvicinò a Cesare, silenzioso come sempre, ombra nera tra le tenebre.
-Avevo ragione. Le doti militari vanno al duca di Urbino, eminente cavaliere che stimo e che onoro come un fratello.- mormorò il Valentino.
Michelotto osservò il proprio alito che si condensava al freddo della campagna laziale e restrinse gli occhi per scrutare meglio le tende alzate nel campo. Anche lui, come il suo signore, non capiva come il pontefice fosse così cieco da non notare che non poteva essere Juan il condottiero dei Borgia, bensì il modesto cardinale che aveva al fianco; ma non poteva permettersi di fare simili osservazioni. Conosceva fin troppo bene la forza fisica del suo signore, avendolo visto gareggiare con i più robusti braccianti dell’Umbria e del Lazio, tanto da averne il maggior rispetto possibile e conosceva altrettanto bene la sua risolutezza e la mente tattica che possedeva. Chiunque lo avvicinasse rimaneva vittima del suo fascino, dei suoi modi cavallereschi e del timbro della sua voce, che sapeva usare alla perfezione in qualsiasi situazione. Era lui il condottiero di casa Borgia, non il suo inetto fratello.
Distolse lo sguardo dal campo e lo posò su Cesare, vestito con gli abiti da caccia, la chierica celata da un cappello a larghe tese ed il volto nascosto dalla maschera nera. Com'era possibile non amarlo? Com'era possibile non amare la sua forsennata voglia di vivere, la sua pacatezza, la sua bellezza, la sua aria malinconica che affiorava dietro ogni sorriso, i suoi modi da gran signore e la sua naturale superiorità?
Avvertendo il suo sguardo, il Valentino si girò a guardarlo e rimase a fissarlo attraverso la maschera nera.
Ramiro stava tornando, con un sorriso stupendo sulle labbra e le gote arrossate dal freddo pungente ed arrestò bruscamente il cavallo davanti al suo signore.
-Rinchiuso nella tenda, a tremare come un coniglio.- annunciò.
A quelle parole, Cesare si illuminò e scambiò un’occhiata di silente intesa con Michelotto.


Roma, gennaio 1497
Cesare staccò un acino e lo portò alle labbra, baciandolo dolcemente prima di porlo a Lucrezia. Lei lo mangiò con una sensualità innata, lasciandolo stupefatto ed ammaliato. Non c’era nulla di meglio per dimenticare gli elogi proferiti a Juan, il meno degno di riceverli. Era più bravo Jofre, di questo era sicuro. Se avesse dovuto mettere la propria vita nelle mani di uno dei suoi fratelli, avrebbe senz’altro scelto il più piccolo.
-Sei stupenda.- sussurrò all’orecchio di Lucrezia.
Lei socchiuse gli occhi e Cesare lasciò scorrere la mano sul suo corpo liscio e ben fatto, facendola fremere. Era meraviglioso guardarla mentre si lasciava coccolare, così calda e sensuale da far perdere la testa. Si chinò a baciarla e nel frattempo pensò a chi potesse prendere il posto di Giovanni Sforza. La scelta andava ponderata bene, perché da quella futura unione dipendeva il volgere della politica e la situazione, lo sentiva, stava per prendere una piega imprevedibile.
-Ancora un po’ di uva, mio dolce amore?- domandò.
-No.- rispose buttandogli le braccia al collo. -Ho già tutto ciò che desidero.-
-Dimmelo, allora.- la invitò insinuante.
Lucrezia chiuse gli occhi ma non aprì bocca. Non voleva fargli capire fino a che punto l'amasse, non voleva dargli quella soddisfazione.
Cesare sorrise sardonico e la strinse a sé.

venerdì 5 febbraio 2010

Aforisma

"La strada per la saggezza? E' semplice e facile da esprimere: sbagliare e sbagliare e sbagliare ancora. Ma sempre meno e meno e meno." Piet Hein