mercoledì 2 novembre 2011

Lettura su Radio Autori Emergenti

mercoledì 26 ottobre 2011

"Il Condottiero" su una tesi di laurea.

Monica Valentini è autrice de Il Condottiero, l’ultima opera presa in esame all’interno di questa trattazione. Come si è avuto modo di vedere, questa biografia romanzata intraprende una via che potrebbe essere definita anti-mitica, nel senso che si pone nella direzione opposta al filone che ha creato e alimentato il mito borgiano.
L’autrice affronta l’ostico tema della vita del Valentino dal punto di vista storico, cercando di tralasciare tutte le vicende inventate o romanzate nel corso del tempo su Cesare Borgia; dunque sarà opportuno ed interessante scoprire fino a che punto ella ha raggiunto il suo obiettivo, conoscere le difficoltà incontrate durante il percorso e sapere il motivo che l’ha spinta a scrivere ancora una volta, dopo tanta produzione letteraria diffusasi nel corso dei secoli, di questo personaggio così misterioso. Per far ciò, dopo aver letto il libro ed analizzato il testo, uno strumento privilegiato è senza dubbio l’intervista diretta all’autrice. Monica Valentini si è prestata molto gentilmente a rispondere ad alcune domande, che verranno qui riproposte fedelmente, ringraziandola per la sua disponibilità.
Come le è venuta l’idea di scrivere un romanzo su Cesare Borgia?
A dire il vero, all’inizio non pensavo affatto di scrivere un romanzo su Cesare Borgia; mi limitavo a leggere. Ma quanto più leggevo, tanto più prendevo coscienza delle varie interpretazioni che ogni autore dava al singolo personaggio di casa Borgia e a quel punto mi sono detta che, forse, bisognava fare un po’ di luce basandosi sui documenti arrivati sino ai nostri giorni.
In che modo ha conosciuto il Valentino?
In un modo “moderno”: uno sceneggiato TV intitolato “I Borgia”. All’epoca ero ancora adolescente e rimasi folgorata dall’interpretazione di Oliver Cotton, tanto che iniziai immediatamente a collezionare libri e romanzi sui Borgia.
Cosa l’ha colpita di questo personaggio storico?
All’inizio sicuramente l’alone di mistero, che tuttora lo avvolge. In seguito la scoperta che, precursore dei tempi, desiderava creare uno stato unito per contrapporlo alla crescente potenza di regni come la Francia e la Spagna.
Cosa l’ha spinta ad intitolare il suo romanzo “Il Condottiero”?
Il semplice fatto che Cesare Borgia, in fin dei conti, è stato un principe condottiero, uno di quelli che, come si direbbe oggi, combatteva in prima linea. E, nondimeno, perché l’aiuto concessogli dal re di Francia era l’equivalente di una condotta, seppur personale.
Che studi ha affrontato per la stesura del libro?
Ho letto molti testi, a partire dalla “Lucrezia Borgia” del Gregorovius e della Bellonci, al “Cesare Borgia” del Fusero e del Sacerdote, alla “Roma dei Borgia” di Apollinaire, al “Principe” di Machiavelli e via dicendo.
C’è un particolare che ha trovato di frequente nelle sue fonti che l’ha colpita maggiormente?
Sì, che si passa dall’adulazione alla maldicenza, secondo i sentimenti di chi scrive, senza tentare una minima interpretazione dei documenti.
Che spiegazione si è data dell’esistenza di un così diffuso mito nero sul Borgia?
L’unica spiegazione plausibile, a mio avviso, sta nella mancanza di fonti, ossia, i documenti ci sono, ma in numero così esiguo che si fa fatica a cercare di ricostruire la realtà. Del resto, se i Borgia fossero riusciti nel loro intento, oggi apparirebbero sotto una luce aurea. Ma tant’è: guai ai vinti, perché la Storia la scrive chi vince e in questo caso ha vinto Giulio II, osteggiando prima e poi abbracciando e proseguendo la politica di Alessandro VI e del Valentino.
Sente di aver ricostruito una biografia piuttosto fedele? Ritiene di aver restituito giustizia alla realtà storica, oppure teme di essere caduta in una delle intricate maglie che costituiscono la leggenda dei Borgia?
Sui Borgia esiste tutto e il contrario di tutto; nonostante ciò spero, onestamente, di essere riuscita a riportare solo i fatti, sebbene debbo ammettere che la figura di Cesare Borgia eserciti su di me un certo fascino.
A differenza di altri romanzieri, lei non fornisce nessuna risposta, ma preferisce insinuare dei dubbi riguardo ad alcune vicende controverse. Come mai ha fatto questa scelta?
Quando si decide di scrivere una biografia, sebbene romanzata per renderla più accessibile al grande pubblico, non si dovrebbero scrivere falsità, bensì attenersi a quello che si sa per certo, senza scendere nel sensazionale. Ho volutamente lasciato in sospeso alcuni lati oscuri della famiglia Borgia, proprio per mancanza di fonti certe.
Che rapporto immagina ci sia stato tra i vari membri della famiglia Borgia?
Un immenso amore familiare.
Chi ritiene essere l’assassino di Juan di Gandía?
Probabilmente non lo sapremo mai con certezza e fintanto che non salterà fuori un documento vero, preferisco pensarla come Alessandro VI: gli Orsini.
Chi pensa sia stato il colpevole dell’omicidio di Alfonso d’Aragona?
Considerato il momento politico che stava attraversando la Chiesa, le varie alleanze suggellate in quel periodo verso la Francia, ritengo plausibile che il mandante fosse Cesare Borgia. Non dimentichiamo che Lucrezia era stata data in sposa al principe spagnolo prima che la scelta politica del Valentino e del papa ricadesse sulla Francia; pertanto il legame con la Spagna andava reciso. Nulla di personale come si vuol far credere, bensì solo un freddo calcolo delle circostanze.
A suo parere cosa rappresenta Cesare Borgia nel quadro della storia rinascimentale italiana? E nella letteratura italiana e straniera?
Nel quadro del Rinascimento ha rappresentato una meteora, un sogno che, se avverato, avrebbe forse cambiato il nostro paese: da terra di conquista perché lacerato in tanti potentati che si facevano guerra tra loro, a stato forte e autonomo. Non ci sarebbero state invasioni né dominazioni e non ci sarebbe stato un Risorgimento per liberarci dagli austriaci. Nella letteratura, a mio avviso, ha contribuito a creare il fascino del “bello e dannato”.
Quanto influito il mito nero di Cesare Borgia nel suo interessamento a questo personaggio storico?
Molto. Ma è un nero che si sta schiarendo e di questo non posso che esserne felice.
... Ringrazio infine Monica per aver scritto un libro sincero sul Valentino, per aver risposto alla timida mail di una sua lettrice, per aver voluto instaurare un rapporto sereno e splendido con la sottoscritta, per l’infinità di consigli che mi ha dato, per essere sempre arrivata al momento giusto con l’aiuto giusto, per essere così tanto disponibile e gentile da volere, ancora una volta, condividere con me la gioia di questa tesi. A lei devo molto: ha letto tutti i miei dubbi ed i miei pensieri arzigogolati su Cesare ha risposto a tutte le mie domande ed alle mie curiosità, ha parlato a lungo con me di una passione che ci accomuna riempiendomi di splendidi doni.
25 ottobre 2011, Chieti. Università degli studi “G. D’Annunzio”, facoltà di Lettere e Filosofia. Corso di Laurea magistrale in Linguistica, Filologia e traduzioni letterarie.
Maria Iezzi.

mercoledì 12 ottobre 2011

Lucrezia Borgia - Tratto da "Roma vista da me"

(Subiaco, 18 aprile 1480 - Ferrara, 24 giugno 1519)


Mi aggiro in silenzio nelle stanze dei Musei Vaticani, mirando incantata le opere d'arte in esse contenute, instancabile e insaziabile dinanzi ai dipinti di Raffaello, insignificante sotto la volta della Sistina, stupefatta nel fissare le mummie egizie, fin quando entro nella Torre Borgia, fatta costruire da papa Alessandro VI e mi addentro nelle sale affrescate da Bernardino Betti, il Pinturicchio, soffermandomi sui volti dove il pittore ha ritratto i componenti della famiglia Borgia. I dipinti sono così belli che rapiscono lo sguardo e quasi mi pare impossibile che quelle figure così candidamente ritratte possano essere i crudeli personaggi che la Storia ci ha tramandato. O, almeno, una parte della Storia. Chiudo gli occhi e un attimo dopo vedo la santa Caterina che, quasi per magia, si stacca dall'affresco e rimane sospesa a mezz'aria, fluttuando lieve, simile a un sogno. Ci risiamo, penso sgranando gli occhi e fissando la figura davanti a me che, sorridendo affabile, esordisce:
-Lo vuoi proprio sapere?-
Rimango mio malgrado incantata e mi accorgo che la gente che affolla la sala non si rende conto di noi, non ci guarda neppure, come se fossimo due creature invisibili. Lei, Lucrezia adolescente, presa a modello dal Pinturicchio per interpretare la santa, mi sorride e alza il braccio per mostrarmi i suoi familiari.
-Mio padre, Rodrigo Borgia, eletto papa con il nome di Alessandro VI, era un uomo buono, parco, gaudente, sostenuto dalla ferrea Fede che aveva nel Cristo, a dispetto di tutti coloro che lo hanno soprannominato l'Anticristo.-
-In effetti, si concedeva talmente tanta licenza che quando era ancora un giovane vescovo si è beccato un rimprovero dall'allora papa Pio II Piccolomini.-
Lei annuisce e ribatte candidamente:
-Era moralità del tempo. Non esisteva uomo di Fede che non fornicasse.-
-Alla stregua di tuo fratello?- domando insinuante.
La vedo scurirsi in volto per una frazione di secondo, quindi recuperare la regalità conseguita per ricoprire il ruolo primario di principessa del Vaticano.
-Mio fratello Cesare era un cardinale allegro, modesto, pieno di vita e i contemporanei possono sottoscrivere.-
-Era il fratello maggiore, vero?-
-Maggiore se parli dei figli che mio padre ha avuto da Vannozza Cattanei: ne ha avuti altri in precedenza da altre donne. Ma sì, Cesare era il maggiore, poi venivamo Juan, io e infine Jofre. Quattro, e mio padre ci ha amato tutti, in particolare Juan, destinato alla carriera militare.-
Vedo i suoi occhi brillare mentre parla della sua famiglia e comprendo che il loro sangue valenzano li ha legati indissolubilmente.
-So che ti sei sposata a tredici anni.- rammento, provando a toccare un visitatore per assicurarmi di essere vista, ma costui non mi sente neppure.
-Sì, con Giovanni Sforza, conte di Pesaro e nipote del Moro. Ma era un matrimonio destinato a naufragare per correre dietro ai venti politici.- commenta scuotendo la bellissima testa dai lunghi capelli biondi. -Puoi immaginare cosa significa essere costretta a sciogliere un matrimonio in quell'epoca? Mio padre e mio fratello erano talmente sicuri del fatto loro che non si sono mai curati dell'infamia che mi gettavano addosso.-
-Come un marchio a fuoco.-
-Proprio così. Quando Giovanni non è stato più utile, mio padre e Cesare si sono guardati intorno per cercarmi un altro degno marito che a loro potesse aprire le porte di altre proficue alleanze. A me non era concesso ribellarmi. Come non mi è stato concesso piangere la morte di mio fratello Juan.-
Sento la sua voce incrinarsi al penoso ricordo e posso solo immaginare il dolore da lei provato.
-Se non rammento male,- mormoro facendo un vago gesto con la mano, -fu ritrovato accoltellato nel Tevere, nello stesso periodo in cui eri costretta a divorziare.-
Lei china appena la bionda testa e sospira mestamente.
-Fu un momento terribile per me e per tutto il mondo cristiano. Il fatto poi di non aver mai saputo chi avesse osato uccidere il figlio prediletto del papa, lasciò tutti con l'amaro in bocca.-
-Si sussurrò che fosse stato Jofre, tuo fratello più piccolo, perché Juan era l'amante di sua moglie.-
-Sciocchezze.- taglia corto con decisione, alzando il mento come una regina. -Noi Borgia siamo stati a lungo infamati da parole che hanno scavalcato i secoli, proferite da persone che ci hanno sempre odiato. Era vero che Juan fosse l'amante di sua moglie, ma Jofre non ha mai ucciso nessuno. Si disse pure che fosse stato Cesare, ma neppure lui avrebbe mai alzato la mano su un congiunto.-
-E chi fu a ucciderlo?- domando incuriosita. -La Storia non ha mai svelato l'arcano.-
-Fai la domanda alla persona sbagliata: io ero chiusa in convento in quel periodo, in attesa del divorzio e pronta a impalmare il secondo marito, il duca di Bisceglie.-
-Per certo, qualcuno che conosceva bene le sue abitudini lo ha colpito e poi si è ritirato nel buio.- indago pensierosa.
-Sì, e quello che so per certo è che mio padre incolpò gli Orsini, senza, per altro, averne mai le prove.-
-La scomparsa di tuo fratello fu la causa dello spogliamento di Cesare.-
-Ovvio. La nostra famiglia aveva bisogno di un uomo d'arme più che di un uomo di Chiesa e Cesare scese in campo.-
-Una morte quanto mai provvidenziale per l'ambizione del Valentino.- faccio notare.
Lei mi fissa dall'alto in basso, con il distacco dell'essere superiore e ribatte:
-Cosa ne sai tu? La gente dice che uccise il fratello per diventare condottiero; io sostengo che fu costretto a divenire condottiero perché gli avevano ucciso il fratello.-
Con un cenno della testa le concedo il beneficio del dubbio e insinuo:
-Si dice pure che tu abbia avvelenato i tuoi mariti.-
Si mette a ridere di cuore, portando una mano alla bocca ed io rimango incantata dinanzi alla sua bellezza e ai suoi modi gentili, da sempre decantati dai poeti e dalle persone a lei vicine.
-Io non ho mai avvelenato nessuno. Amavo talmente tanto il mio secondo marito che quando Cesare me lo ha ucciso per potermi rendere vedova e donarmi agli Este, sono quasi impazzita dal dolore.-
-Vuoi dire che, nonostante il matrimonio politico, eri innamorata di Alfonso d'Aragona?-
Lei socchiude i bellissimi occhi a mandorla e sospira.
-Chi non l'avrebbe amato? Era giovane, bello e gentile ed ho pregato per avere una lunga vita insieme a lui. A quanto pare,- aggiunge con tono struggente, -ho pregato la persona sbagliata.-
Vedo una piccola goccia di rugiada bagnare le sue ciglia e commento:
-Allora ricusi l'accusa di avvelenatrice.-
-Così come ricuso tante altre calunnie gettate sul nostro nome.-
-Eppure la gente ci crede.- faccio notare inarcando le sopracciglia.
Lei abbozza un sorriso e volge il chiaro sguardo oltre la finestra, perdendosi in ricordi lontani. Io ne approfitto per provare a toccarla, per vedere se è reale o se è il frutto della mia fantasia e lei mi lascia fare, condiscendente e intimamente divertita. Con timidezza le sfioro la manica a sbuffo e sento sotto i polpastrelli la vellutata morbidezza del broccato e le coste in rilievo ricamate con fili d'oro. L'emozione quasi mi stronca e alzo lo sguardo per guardarla, bellissima e delicata, eterea ed evanescente.
-Mio padre fu troppo buono nel concedere che il popolo, e chi lo sobillava, sparlasse di lui e lo rendesse ridicolo; Cesare, al contrario, puniva persino i pensieri.-
Esito dinanzi alla sua espressione assorta, come rapita da un vago senso di voluttà e solo dopo un po' le rammento:
-Si dice che tuo fratello fosse un mostro.-
Lei mi fissa e d'istinto allunga la mano per scansare una ciocca di capelli che mi era caduta sugli occhi ed io arrossisco come una scolaretta.
-No, non lo era. Era determinato e ispirato da un alto ideale: quello di unire un'Italia lacerata da guerre intestine; e per portare a termine i suoi progetti non si è fermato dinanzi a nulla. Basti dire che mi ha fatto sposare Alfonso d'Este, recalcitrante e inviperito contro la mia persona perché credeva a tutte le malelingue che correvano sulla mia famiglia.-
-Ma poi ha finito con l'amarti.-
China appena la testa e annuisce.
-Sì, si è ricreduto, come tutti, del resto. Ha pianto moltissimo la mia dipartita.-
Colgo quel commento per mormorare insinuante:
-Si dice che alla morte del Valentino, il tuo pianto straziante somigliasse a quello di una donna innamorata.-
Lei si gira a guardarmi, raddrizza le spalle e i suoi occhi grigi brillano come diamanti.
-Cesare era l'uomo più seducente e bello del suo tempo. Nessuno poteva avvicinarlo senza cadere nel magnetismo del suo fascino. Persino i suoi condottieri, quando hanno provato a ribellarsi al suo straripante potere, gli sono caduti tra le mani appena li ha richiamati. Era impossibile resistergli. Tutti, prima o poi, si scornavano contro i suoi modi affabili, il suo timbro di voce dolce e sommesso, la sua forza fisica che amava mettere in mostra; prova a chiedere al suo fido Michelotto: si è lasciato torturare pur di non rivelare i suoi segreti. Cesare era una forza della natura e nessuno poteva o riusciva a resistergli.-
-Eppure ti ha ammazzato il marito.- le ricordo.
Lei esita, si tocca la fronte con la mano e sospira, come riportata indietro di secoli, a un periodo buio della sua vita, il periodo indimenticabile di Roma.
-Per un po' l'ho odiato, è vero.- ammette riluttante. -Ma era impossibile odiare a lungo il Valentino: era il mio fratello preferito.- aggiunge con insinuante dolcezza e con sguardo che non ha bisogno di altre parole.
Questa volta chino io la testa, accettando la sua mezza risposta e m'informo:
-Come ti sei trovata lontana da Roma?-
Sospira malinconica e chiude un attimo i suoi magnifici occhi, quindi risponde:
-Roma… Roma era tutto per me: era il bene ed era il male, era la felicità ed era il dolore, era la gioventù ed era l'irresponsabilità. Io ho amato oltremodo Roma e quando l'ho lasciata, costretta a trasferirmi a Ferrara, ho pianto a lungo. Tu hai mai lasciato l'Urbe?- indaga fissandomi dritto negli occhi.
-Solo il tempo strettamente necessario per andare in vacanza.- ammetto sorridendo.
-Io l'ho lasciata per sempre e quel vuoto non si è mai colmato.-
-Ma a Ferrara,- ribatto, -alla fine ti sei trovata bene; tuo marito, da prima riluttante, alla fine ti ha amato teneramente ed ha pianto la tua morte, così come i ferraresi. Sei rimasta nei loro cuori.-
-Sì, è vero, tuttavia ho dovuto faticare non poco per sopire i malanimi. Ero vista come una strega, come una donna dissoluta e dai facili costumi. Nulla di tutto ciò, anche se a tutt’oggi lo si crede. Pensa un po',- aggiunge con aria birichina, -quando sono morta, di parto, hanno finalmente scoperto che portavo il cilicio. No,- conclude con un sorriso dolce, -non sono mai stata il mostro che mi si dipinge, tanto meno lo è stato Cesare. La nostra unica colpa, semmai, è stata quella di essere una famiglia di umili origini che vanta due papi e che ha travolto nomi altisonanti come gli Orsini, i Colonna, i Savelli, gli Aragona, gli Sforza, i Malatesta, i Baglioni e tanti altri. Di nemici ne abbiamo avuti molti, a partire dal re di Francia ai reali Cattolici di Spagna, ma abbiamo avuto anche tanti ammiratori, quali il Machiavelli, Leonardo da Vinci, il Bramante, il Bembo, il Sangallo, i Medici e, soprattutto, il popolo.-
-Non è poco.-
-No, non è poco.-
Ci guardiamo per un lungo attimo, con la connivenza di due donne che si conoscono da una intera esistenza e la vedo sorridere un attimo prima di sfiorarmi la fronte con un bacio materno. Rimango esterrefatta, rapita dal suo fascino malinconico e un nodo mi chiude la gola quando riprende il suo posto nel dipinto, immobile dinanzi alla figura di suo fratello Cesare.

domenica 25 settembre 2011

Intervista

E' stata una grande emozione rientrare da un viaggio a Valencia e trovare pubblicata l'intervista sul portale Talento nella Storia!
Eccola qui!

mercoledì 7 settembre 2011

Noi italiani

In questi giorni, per caso, ho avuto la riprova, ahimé, di quanto noi italiano siamo indisciplinati, arroganti e ignoranti rispetto al resto del mondo o, almeno, del mondo civilizzato.
Ho accompagnato alcuni amici a visitare la basilica di S. Pietro e, siccome indossavo un vestito scollato, le guardie non mi hanno concesso di entrare perché avrei dovuto coprire le spalle con un foulard o un giacchettino che non avevo. Colpa mia, perché so che non si entra in chiesa come se si stesse andando in spiaggia, ma siccome a Roma segnavano 40°, non ho pensato a questo inconveniente. Pertanto, con pazienza mi sono messa in disparte, permettendo ai miei amici di entrare ed io sono rimasta in attesa accanto a una bellissima ragazza di Salamanca, anche lei sprovvista di foulard.
Durante il lasso di tempo occorso ai miei amici per vedere la basilica, dinanzi alle guardie sono passate centinaia di visitatori provenienti da tutto il mondo e quando qualcuno si sentiva invitato a non entrare se non si fosse coperto, ho assistito a scene a dir poco imbarazzanti.
In linea di massima gli stranieri erano già premuniti, poiché in ogni guida, in ogni libro, in ogni cartellone è indicato che è vietato entrare nelle chiese con shorts e bretelle; tuttavia chi non aveva di che coprirsi ci rimaneva male, un po’ spaesato, eppure si metteva da parte, in attesa che un congiunto andasse ad acquistare un foulard che permettesse alle signore in questione di accedere alla basilica, tutti comunque disciplinati e pazienti. Del resto, dopo aver fatto migliaia di chilometri, cinque minuti di attesa per scoprire le meraviglie di S. Pietro valgono bene un po’ di calura romana.
Poi sono giunti alcuni italiani che, a dispetto dei cartelli informativi che capirebbe anche un bambino, e a grandissimo dispetto di quella fetta di italiani ligi e corretti, hanno iniziato a inveire contro le guardie, pretendendo di entrare adducendo la puerile scusa che venivano da lontano e che, secondo loro, era inammissibile rinunciare a vedere la chiesa per una simile sciocchezza. Purtroppo nessuno ha spiegato a queste persone che non si tratta di sciocchezza, bensì di rispetto. Vorrei tanto vedere le loro facce all’entrata di una sinagoga o di una moschea…
Per non parlare dei furbi, che hanno fatto finta di capire, si sono messi al mio fianco in attesa, per poi approfittare della presunta distrazione delle guardie per avviarsi verso la scalinata e guadagnare la basilica. La scena patetica è stata che le guardie se ne sono accorte, come era ovvio perché non stanno lì con le mani in mano, e li hanno rincorsi, esortandoli ad allontanarsi.
Ebbene, mi sono vergognata di appartenere ad un popolo simile. Sì, vergognata, perché non conosciamo regole, né rispetto, ci facciamo beffe di tutto e di tutti pensando di esserci comportati nel modo giusto fregando il prossimo e ci arrabbiamo e offendiamo se dall’altra parte qualcuno osa mostrarci che abbiamo torto. A discapito, questo, degli italiani che si comportano bene.
Noi, che siamo stati un popolo meraviglioso, che abbiamo conosciuto i fasti del Rinascimento, gli atti di eroismo del Risorgimento, che possediamo un patrimonio che tutto il mondo ci invidia in fatto di natura e Storia, noi siamo diventati un popolo di burattini arroganti e ignoranti e non dobbiamo meravigliarci se il nostro paese va a rotoli. Diceva bene uno statista di cui non faccio il nome: che non era difficile governare l’Italia, bensì gli italiani.

giovedì 1 settembre 2011

Stralcio da "Agemina"

Orso portò un affondo con la spada e Gelina provò a difendersi, senza riuscirci. Sotto i suoi assalti scivolò e rovinò a terra, in un fragore sordo di ferraglia e maledisse l'armatura. -Non è ad essa che devi rivolgere i tuoi epiteti, bensì a te stessa.- la rimproverò Orso, offrendole la mano per aiutarla mentre sorrideva divertito. Gelina la prese e si rimise in piedi, chiedendo: -Perché a me?- -Perché,- rispose picchiandole l'indice sulla fronte, -questa testolina si trova in chissà quale altro posto.- Lei si irrigidì e afferrò nuovamente lo spadone a due mani, mettendosi in guardia. -Non so di cosa parli.- affermò con sicurezza. -Ma davvero?- la schernì guardandola in tralice. -Non perderti in futili chiacchiere da comare e combatti.- lo esortò menando la spada. Orso parò il colpo senza fatica e rise della sua goffaggine, agguantandole un polso e facendole cadere l'arma. Per un lungo attimo rimasero a guardarsi negli occhi e la ragazza notò all'improvviso quanto fossero belli quelli del suo amico, circondati da lunghe e folte ciglia bionde. Strano che non se ne fosse mai accorta prima. E quelle efelidi sul naso dritto… -Ascolta, Gelina.- iniziò lui con tono serio. -Questa è solo una perdita di tempo: tu qui, ora, non stai imparando niente.- -Non è vero.- ribatté cocciuta, facendo il broncio come una bambina. Orso sbuffò e scosse la testa prima di continuare: -Sei la signora e i tuoi vassalli ti adorano e ti prendono ad esempio. Dovresti controllarti davanti a loro. Si sono accorti del tuo cambiamento dall'arrivo del Colonna e questo non è regolare. Hai indetto un torneo solo per compiacerlo e questo non è regolare. Ti mostri troppo interessata e questo non è regolare.- -Ma io non...- -E non provare a negare con me. Ti conosco troppo bene, ormai.- Si fronteggiarono a lungo, come spesso era capitato in quegli anni, lei con espressione incerta, lui conciliante; infine Gelina abbassò lo sguardo sulla mano che le tratteneva il polso e Orso la lasciò andare, come se si fosse improvvisamente scottato. Per un lungo istante rimase perplesso e attonito, non comprendendo quello che gli stava accadendo, mentre prendeva coscienza che il suo cuore aveva iniziato una folle corsa che gli tagliava in due il respiro. Esitò dinanzi al suo volto assorto e dovette deglutire prima di dire: -Riesci a capire cosa cerco di dirti?- Lei annuì pensierosa e si allontanò di qualche passo, trascinandosi addosso la pesante armatura. Orso continuò a studiarla anche quando gli diede le spalle e per la prima volta, in tutti i suoi diciotto anni di vita, si fermò a esaminare il corpo di una donna. Aveva avuto molte avventure con contadine, serve e dame che erano state ben liete di ruzzolarsi con lui in un fienile o in mezzo ai campi, ma non si era mai soffermato a guardare realmente la persona che aveva davanti. Si era sempre limitato a prendere quello che loro gli offrivano, senza curarsi di chiedere il nome o di ricordarsi di loro la mattina dopo. E ora, senza rendersene conto, studiava le forme esili di Gelina strette dentro l'usbergo. Era fine, delicata, minuta come si conveniva a una gran dama di nobile famiglia. Oltre al ricamo, le sue mani non avevano mai toccato altro ed erano candide e senza calli. Tuttavia Gelina era diversa dalle altre dame: aveva capito che in quel mondo prettamente maschile era utile per una donna sapersi difendere con le proprie mani ed era per questo che lo aveva supplicato di insegnarle a usare la spada. Non lo avrebbe chiesto a nessun altro, perché ogni buon cavaliere sarebbe inorridito dinanzi a una simile richiesta. E lui aveva accettato di buon grado, anche perché, vivendo a stretto contatto con lei, aveva capito da tempo che il suo era un carattere coriaceo e che era meglio assecondarla nei suoi capricci per evitare litigate e scenate puerili. Eppure ad osservarla ora, così assorta in un'espressione schiettamente femminile, mentre camminava goffa dentro l'armatura esclusivamente maschile, gli fece un effetto sconvolgente. Non era la prima volta che la vedeva vestita così, come un uomo, anche perché era stato lui stesso a insistere ché indossasse la cotta in maglia per evitare che potesse farsi male; eppure ora… Ora le sue budella si rivoltarono, il cuore gli salì in gola e dagli inguini partì un calore che lo eccitò terribilmente. Per la miseria! pensò imbarazzato. Che diavolo mi sta succedendo? Lei scelse quel momento per girarsi a guardarlo, bellissima con i raggi del sole che le risplendevano addosso indorandola e per la prima volta in vita sua Orso abbassò lo sguardo. -È vero. Il Colonna è affascinante e tutte le mie dame tubano come colombe. A me ha fatto uno strano effetto: mi sento diversa, piacevolmente diversa e tuttavia non saprei spiegarti perché. È un peccato? Dimmelo, Orso, perché io non lo so.- Lui deglutì e si costrinse a guardarla: fu un errore, perché il suo cuore partì al galoppo e si sentì male. Gelina aveva un'espressione angelica e timorosa insieme, gli occhi sgranati nel terrore di aver infranto una delle leggi divine, il volto accaldato dalla lotta, le trecce che le danzavano intorno alla vita fino a lambire le natiche e le gambe e Orso dovette far violenza a se stesso per trattenersi dal stringerla tra le braccia e… Ma che diavolo mi sta succedendo? si ripeté preoccupato. Sono anni che vivo al suo fianco, crescendo con lei, volendole bene come un fratello e ora… Ora che mi prende? pensò sgomento. -Io… Io non credo che tu abbia peccato. Non... non lo credo proprio.- balbettò incerto. -Però padre Alfio dice che un uomo e una donna…- -I preti dicono tante stupidaggini.- tagliò corto con gesto deciso della mano. Gelina lo studiò a lungo, avvertendo che qualcosa non andava e gli chiese: -Stai bene?- -Sì. Devo solo aver mangiato qualcosa che mi ha fatto male.- borbottò per convincere più se stesso che lei. Gelina si avvicinò preoccupata e gli toccò la fronte, per accertarsi che non avesse la febbre, ma a quel tocco lui sussultò e si allontanò con uno scatto. -Mio Dio, Orso, che ti succede?- esclamò agitata. -Niente. Non ho niente. Voglio solo essere lasciato in pace.- Impugnò la spada e se ne andò, ancora confuso e smarrito, chiedendosi se veramente non stesse male. Lungo i corridoi captò commenti pungenti sul bel cavaliere e vide l'espressione estasiata di una ancella al solo sentire il nome di Braccio Colonna e, come arrivò nella sua piccola stanza, capì come se avesse ricevuto una staffilata che la sua malattia aveva un nome: gelosia.

domenica 21 agosto 2011

Su di me

E dire che pensavo di essere una tra pochi matti, invece ho scoperto che la mia passione è un “male” comune a molti italiani: scrivere. Sì, scrivere. Sembra facile, eppur non lo è. Soprattutto se viviamo in Italia, dove la metà della popolazione imbratta carta come me e almeno l’altra metà dovrebbe (e il condizionale è d’obbligo) leggere. Invece siamo il paese dove si scrive tanto e si legge pochissimo e questa, per un aspirante scrittore, risulta essere una mazzata tra capo e collo. Almeno per la sottoscritta è stato così.
Scrivo (imbratto carta come sopra) da quando facevo le elementari e crescendo mi sono accorta che se non hai un cognome con una storia alle spalle (può andare come eufemismo?) sei considerato dagli editori alla stregua della mosca che ti ronza intorno e crea solo fastidio. No, peggio: della zanzara che ti punge e che devi assolutamente schiacciare contro il muro per liberartene. Salvo che non si tratti di editori a pagamento, i quali ti stendono un tappeto rosso sotto gli occhi e tu neppure ti accorgi che anche per loro sei una zanzara e che il rosso del tappeto è quello del tuo sangue che loro succhiano come vampiri.
Tornando alla sottoscritta, dicevo che amo scrivere, leggere e disegnare (non a caso le copertine dei miei libri le ho fatte io) e in genere prediligo i romanzi storici. Perché? Perché sono convinta che la Storia non si impari a scuola, nel modo obbrobrioso in cui te la insegnano i professori, (per lo meno la maggior parte di essi) e capisco bene le smorfie di coloro che non vogliono neppur sentir parlare di questa materia. Eppure vi assicuro che è bellissima se spiegata nel modo giusto. Con questo non voglio assolutamente innalzarmi a maestrina, non sia mai, ma, nel mio piccolo, cercare di narrare a minuscoli passi le cause che portarono a determinati eventi, oppure scrivere la vita di alcuni personaggi storici che nell’immaginario collettivo sono totalmente distorti. Non vi è mai capitato di passare dinanzi a un palazzo signorile, a una roccaforte, a un mausoleo, a una strada antica e chiedervi: chi ci avrà vissuto? Quali vicende si nascondono dietro questi mattoni? Ecco: per me è così che succede, vado oltre la semplice visuale che mi propone l’occhio e immagino le persone che ci hanno vissuto, amato, odiato, ordito... E subito penso a come rendere meno intricate le vicende svolte in quel luogo, inventando personaggi che, inevitabilmente, intrecciano le loro vite con persone realmente vissute e con esse vivono gli eventi storici. Facile, no? Sì, sembra, eppure non è così.
Ma non scrivo solo romanzi storici. Però il filo conduttore per ognuno di essi è sempre il solito: ogni qualvolta riprendo in mano un mio scritto, lo distruggerei e lo rifarei daccapo! Non so se vi è mai capitato: io mi accorgo sempre degli errori/orrori solo a distanza di tempo, quando la mente si è svuotata di quel racconto e non lo so più a memoria! Perché a forza di correggere, correggere, correggere... le parole non le leggo più, è tutto impresso nella mente e non vedo più neppure il refuso. Allora mi vedo costretta a smettere, dimenticare il libro per una mesata buona e poi, con infinita pazienza, riprenderlo in mano e... inorridire tutte le volte! Inutile domandarsi come ho fatto a non accorgermi degli errori: si ripete sempre lo stesso schema, per questo alla fine ho preso un bel respiro e ho dato da leggere i miei libri a estranei. E devo dire che quattro occhi vedono meglio di due.
Per anni la mia passione è stata votata solo ed esclusivamente alla sottoscritta e alla ristretta cerchia di amici che mi spronavano a mandarli a un editore, fin quando ho avuto riprova che gli americani sono un gran popolo sotto tanti punti di vista e quello dell’editoria è uno dei tanti. Quando ancora in Italia non si conosceva la pubblicazione on-demand, sono stata folgorata dal fare la conoscenza del sito Lulu.com, americano per l’appunto, un sito che consente a chiunque abbia una vena artistica di realizzare i propri sogni... senza spendere un centesimo! In seguito anche da noi sono sorti siti sulla falsa riga di quello statunitense, eppure nessuno eguaglia la grandezza di Lulu.com, che offre più di tutto quello che ti offrono gli altri, senza per forza di cose dover acquistare copie ad ogni revisione che fai del tuo romanzo, oppure acquistare un minimo di copie, o rimanere vincolato al sito dove decidi di pubblicare e via dicendo.
Così, senza porre altro tempo in mezzo, mi sono decisa e, riesumati i romanzi gettati nel cassetto, li ho corretti (per l’ennesima volta!), impaginati a dovere, ho disegnato la copertina e... et voila! Il libro è pubblicato per chiunque abbia voglia di leggerlo. Negli anni ne ho pubblicati dieci, di cui due sono solo brevi racconti e uno la raccolta di interviste che erano apparse su un web magazine. Il bello di Lulu.com, è che ti dà la possibilità di concedere il download gratuito, oltre un ISBN gratuito e la certezza assoluta che tu sei e rimarrai il solo detentore dei tuoi diritti d’autore. Le mie piccole soddisfazioni me le sono tolte e ora ho anche un gruppetto di fans che attende sempre l’ultimo libro per poterlo leggere.
Il mio consiglio spassionato per gli aspiranti scrittori, è di non fidarsi assolutamente di chi ti chiede soldi per un lavoro che tu hai fatto (dovrebbero pagarti loro!) ma di provare a cambiare la propria visuale sul modo di pubblicare un libro. Prima di buttarvi in pasto ai pescecani, fatevi un giro su Lulu.com, c’è anche la parte in italiano che spiega come fare e vi assicuro che è facile. Chissà, forse impareremmo anche a leggere di più.

giovedì 9 giugno 2011

Stralcio da "L'ombra della ginestra" - battaglia di Poitiers

L’aurora del 19 settembre vide l’esercito francese disporsi secondo gli ormai superati canoni della battaglia medievale, presi la sera prima di comune accordo tra il re e i suoi capitani. Le forze di attacco si stavano dividendo in quattro parti: in prima linea trecento cavalieri, scelti tra i migliori, agli ordini di John Clermont e Arnold d’Audrehem, uniti a mercenari tedeschi, muniti di picche, i quali avevano il preciso ordine di caricare i temutissimi, e a ragione, arcieri inglesi.
Dietro il primo gruppo si schierarono gli altri tre, formati da cavalieri scesi da cavallo, comandati, rispettivamente, dal Delfino, dal duca d’Orleans e infine, l’ultimo, dallo stesso Giovanni II.
Da parte sua, Edoardo si era assicurato il lato sinistro da un crepaccio naturale e le spalle da un bosco, mentre il lato destro era stato occupato dai pesanti carriaggi pieni di bottino. Tutti i cavalieri erano scesi da cavallo ed erano stati divisi in tre gruppi, mentre gli arcieri si erano posizionati a forma di V, in modo da contenere tutti i cavalieri, così come era avvenuto trionfalmente a Crécy. Nei boschi, Edoardo lasciò un’unità di cavalleria, comandata da Captal, nascosta agli occhi avversari.
Instancabilmente, in ambedue gli schieramenti, i preti passavano a benedire e a fare le veci del viatico, ricordando a ogni uomo di compiere il proprio dovere davanti agli occhi del Signore e che il regno dei Cieli li avrebbe attesi con canti e squilli di trombe e che, sicuramente, il Signore si sarebbe ricordato di loro nel giorno del giudizio.
Tutto era pronto per la battaglia e il cielo settembrino lasciava supporre che sarebbe stata una bella giornata di sole, adatta a un combattimento.
-A guardare da qui,- mormorò John preoccupato, agitandosi sul suo cavallo ricoperto di cotta in maglia, -i francesi sembrano terribilmente tanti.-
-No, non sembrano.- lo corresse Edoardo, lo sguardo cupo. -Lo sono. Forse, tutto sommato, ci conviene ritirarci.-
Il capitano si voltò a guardarlo con occhi sgranati e intravide il volto teso del suo signore, che fissava ansioso il terreno di battaglia nella vallata che si stendeva sotto di loro. Il silenzio quasi irreale durò fino alle otto, quando, dopo aver visto un falso cedimento sul fianco destro inglese, la cavalleria francese ruppe gli indugi.
Il rumore degli zoccoli che si abbattevano sul terreno, pareva un boato sinistro che si avvicinava sempre più e le urla degli uomini erano agghiaccianti. Tutti gli uccelli che avevano trovato rifugio nei boschi intorno, volarono via, dispiegando le ali con una frenesia tale che Edoardo, John e Robert alzarono lo sguardo per vederli fuggire via.
Gli inglesi schierati sul campo rimasero immobili, niente affatto intimoriti dalle urla, mentre gli arcieri si preparavano a scoccare i loro micidiali dardi.
Lothar e Ludovico si scambiarono un’occhiata, le armi già in pugno, privi dei loro scudieri che avevano lasciato a protezione di Kamilla, consapevoli che quel giorno poteva essere l’ultimo della loro esistenza terrena ed erano pronti a viverlo al meglio, consegnando alla storia il loro onore intatto. Fissarono i cavalieri francesi avanzare, in testa i loro comandanti con pennacchi sugli elmi dai colori sgargianti, e un attimo dopo li videro finire a terra, falciati dalle frecce inglesi.
Fu il segnale.
Come un sol uomo, l’esercito anglo-guascone si gettò nella mischia, rovesciandosi come una furia selvaggia sui cavalieri disarcionati, impossibilitati a rialzarsi a causa della pesante armatura. Fu una strage.
A quel punto, orripilato dallo scempio che si svolgeva sotto i loro occhi, il secondo battaglione, comandato dall’inesperto Delfino, corse generosamente in aiuto del primo e ingaggiò una feroce lotta contro il nemico.
Lothar e Ludovico combattevano fianco a fianco, protetti dal contingente tedesco, ignari di tutto quello che li circondava, tranne dell’uomo che si trovavano di fronte di volta in volta in una sorta di duello infinito. Le spade, le mazze ferrate, le alabarde, le picche, i mazzafrusto: ogni arma era buona pur di abbatterla sul nemico e vederlo cadere esangue, in uno scempio di carne e arti staccati di netto.
Come per magia, quello che restava della cavalleria franca e lo stesso Delfino, iniziarono a indietreggiare, incalzati dai fanti nemici, che combattevano come leoni.
-Mio signore, sembra… sembra che la battaglia ci stia rovinando addosso.- notò con tono apprensivo uno dei luogotenenti del duca d’Orleans.
Questi, rigido sul suo destriero, gli occhi sgranati per l’orrore e il terrore, d’un tratto si vide venire incontro l’intera battaglia come un’onda gigantesca in rotta libera e il panico lo aggredì. Non fece neppure in tempo a dare il segnale di ritirata ai propri uomini, perché anche questi, vista la situazione, si sbandarono ignominiosamente e corsero a rifugiarsi a Poitiers.
Edoardo, al riparo nel bosco con la cavalleria, piegò le labbra in un sorriso e si girò verso Robert e John, annuendo soddisfatto.
Dal canto suo, Giovanni II rimase atterrito nel vedere il proprio esercito allo sbando e maledisse il duca d’Orleans che lasciava suo figlio e gli altri nobili a difendere da soli l’onore della Francia.
-Sire…- mormorò un alfiere al suo fianco, stralunato e attonito.
Il regale cavaliere restrinse gli occhi e serrò le redini, quindi si volse verso l’alfiere che portava il suo gonfalone, l’Orifiamma, e disse:
-Date ordine di avanzare. Oggi, qui a Poitiers, o si vince o si muore.-
Dalla sua posizione, Edoardo vide muovere il quarto e ultimo battaglione, capitanato dal re in persona e i suoi occhi brillarono di eccitazione quando si posarono sull’Orifiamma. Fece un cenno a Captal, in attesa con i suoi uomini sull’altro lato della collinetta e questi diede il via: la cavalleria sarebbe uscita dal bosco per accerchiare i combattenti e terminare così la battaglia.
Senza fretta, Edoardo indossò la barbuta, ornata da uno zuccotto rosso circondato di pelliccia d’ermellino, sormontato da un leone e, levata la spada, si gettò con il suo contingente nella mischia, diretto verso il faro che lo attirava come una falena: l’Orifiamma.
Lothar e Ludovico si accorsero dell’arrivo della loro cavalleria, accompagnato da un urlo selvaggio e incitarono gli uomini a battersi con maggior vigore, indicando il vessillo reale come punto di arrivo. Così, in quell’ora tragica, i cavalieri francesi si batterono come leoni per salvare il proprio re e il proprio onore, ma i fanti inglesi parevano un muro compatto e insormontabile, contro il quale continuavano a scornarsi senza riuscire a sfondarlo.
-I cavalli!- urlò Lothar a Günter, indicando i destrieri che avevano disarcionato il proprio cavaliere francese e che vagavano come impazziti.
In un batter d’occhio, il contingente tedesco si impadronì delle bestie e formò una cavalleria alla buona, andando alla carica verso il centro della battaglia.
Al calar del sole, il campo era ormai cosparso di cadaveri e feriti e il sangue pareva essere ovunque, mentre le urla e gli echi della battaglia scemavano inevitabilmente, simile a un sudario che si posava sull’intera vallata. Pochi soldati si battevano ancora per l’onore di un re e di un paese che non avrebbe trovato pace facilmente.
Edoardo, con l’armatura ricoperta di sangue non suo, avanzò sul proprio destriero verso il cerchio formato dai suoi uomini e si fermò vicino a Lothar. Si guardarono, per accertarsi di non essere feriti, contenti di ritrovarsi ancora vivi, quindi lo sguardo si posò sull’Orifiamma caduto a terra. Lì, circondato da pochi fedeli, tenuto in scacco dal contingente sassone, Giovanni II respirava affannosamente per lo sforzo sostenuto e fissava dal basso verso l’alto il vincitore. Suo figlio Carlo, il Delfino, era con lui.
Tutto intorno era solo morte e distruzione, lamenti dei feriti e preghiere dei preti che arrancavano in mezzo alle migliaia di cadaveri sparsi per terra.
Edoardo scese da cavallo e si avvicinò al re francese, dicendo:
-Maestà, siete mio prigioniero. L’Inghilterra ha vinto.-
-Sì, avete vinto una battaglia leale.-
-Permettete che vi scorti fino a una cavalcatura.-
In silenzio, tristemente, ciò che restava dell’esercito francese, il più vasto del XIV secolo, venne fatto prigioniero e seguì gli inglesi fino al loro rientro a Bordeaux. La temuta battaglia si era conclusa, alla stessa maniera di Crécy, con una schiacciante vittoria inglese, dove il Principe Nero, contravvenendo a ogni canone di strategia e tattica, aveva ancora una volta sottolineato che la cavalleria aveva ormai fatto il suo tempo.

domenica 22 maggio 2011

Stralcio da "L'ombra della ginestra"

La stanza era illuminata a giorno, con il sole del tardo mattino che allungava i suoi caldi raggi attraverso le bifore trilobate e riluceva sullo stendardo alle spalle della sedia e sulla panoplia attaccata a un muro, donando un briciolo di calore all’ambiente austero e gelido. Edoardo camminava avanti e indietro come un animale in gabbia, le mani dietro la schiena e l’aria irritata, pronto a sbranare chiunque gli si fosse parato davanti. Appena il suo segretario gli aveva annunciato l’arrivo di Lothar, aveva licenziato tutti coloro che si trovavano nella sua stanza, compresi i servi, ed era rimasto da solo con lui, nella speranza di fargli intendere ragione. Non aveva ancora ingoiato l’amaro boccone che aveva ricevuto dopo la battaglia e non voleva ci fossero testimoni a quel colloquio che presagiva poco facile. E Lothar aveva ribadito il secco no. Non era avvezzo a sentire rifiuti alle sue richieste e, se avesse potuto, avrebbe ammazzato l’amico che se ne stava rigido al centro della stanza, evidentemente dolorante per la sbornia della sera prima.
-Non puoi ostinarti nel rifiuto. Il mio è un ordine e tu ti stai macchiando di insubordinazione.- sibilò in tono minaccioso.
-No, assolutamente, non lo farei mai.- ribatté Lothar cercando di ignorare il mal di testa che lo attanagliava e che non lo faceva essere vigile a quel colloquio.
Il Principe Nero gli si avvicinò perigliosamente e sussurrò:
-Sei a un passo dal patibolo.-
Lothar sostenne lo sguardo, inspirando a fondo e maledicendo tutto ribatté:
-Mandamici, se lo ritieni necessario. Io ho chiuso con quella vita. Ho visto fin troppo sangue per desiderarne altro.-
-Non ti chiedo di andare in guerra, perdio! Ti chiedo solo di scortare Giovanni in Inghilterra insieme a me, da mio padre!-
-Mi avevi promesso, alla partenza, che non mi avresti chiesto altro se ti avessi seguito. Ti chiedo umilmente, ora, di onorare quella promessa.-
La calma di Lothar colpì Edoardo, che si allontanò di qualche passo, senza abbandonarlo con lo sguardo. Era vero, aveva promesso pur di averlo al suo fianco in quella battaglia e non poteva ora rimangiarsi la parola data; perlomeno, non era degno del rango che ricopriva.
Con un sospiro passò le mani tra i capelli e si avvicinò alla finestra, osservando il sole che lo abbracciava con i suoi raggi caldi. Cosa diavolo aspettava a farlo giustiziare? Aveva superato il limite consentito già da tempo, arrogandosi un diritto che ad altri suoi collaboratori più stretti era negato. Perché continuare a lasciarlo in vita? Solo perché continuava ad amarlo?
-Sono con le spalle al muro, a quanto pare.- commentò acido, riluttante a perdere il suo migliore e più devoto cavaliere.
Lothar gli lanciò un’occhiata incredula, consapevole di avere la vittoria a portata di mano.
-Starò sempre al tuo fianco, di questo puoi starne certo.-
-Ma intanto mi dici di no.-
-Prima o poi doveva accadere. Preferisco che accada adesso.-
Edoardo si girò e lentamente si avvicinò allo scanno, sormontato dalle insegne del principe di Galles, con le tre piume bianche intrecciate e con il motto Ich dien. Lothar lo studiò in silenzio, chiedendosi se fosse immaginazione, o se realmente vedeva il suo signore come un uomo stanco e disilluso. Sembrava che il suo rifiuto l’avesse in qualche modo stroncato. Era mai possibile?
Lo vide sedersi pesantemente e lasciarsi andare contro lo schienale a occhi chiusi, perdendosi in un mondo dove solo a lui era concesso entrare.
-Mi causi un gran dolore, Lothar.- ammise in tutta onestà. -Io riservavo grande fiducia in te e tu mi stai pugnalando a tradimento.-
-No, questo non puoi dirlo.-
-Lo dico e lo voglio dire!- tuonò aprendo di scatto gli occhi, i suoi magnifici occhi a mandorla. -È vero, ho promesso, ma ciò nonostante speravo tu cambiassi idea. Invece ti sei incaponito e continui testardo, imperterrito e recidivo nel tuo rifiuto.-
Lothar aprì la bocca per controbattere, quando ritenne più saggio stare zitto. Se era vero quello che gli suggeriva il cervello, ossia che la stava spuntando contro il suo signore, era meglio apparire sottomesso.
Edoardo sbuffò e con noncuranza annunciò:
-Sto sinceramente accarezzando l’idea di spedirti al patibolo. Mi solletica non poco il pensiero di vederti morire. Se non fosse per la malaugurata certezza che, una volta decapitato, non potresti più tornare in vita, ti farei uccidere in svariati modi, per godermi lo spettacolo e per punirti della tua insolenza. Ma, fortunatamente per te e sfortunatamente per me, moriresti una sola volta ed io mi godrei solo un misero spettacolo che mi ripagherebbe in maniera del tutto insufficiente di tutte le volte che mi hai fatto imbestialire. Quindi,- concluse con tono di sfida, alzandosi dalla sedia e mettendoglisi davanti, -verrai con me in Inghilterra e dopo, solo dopo, ti sarà pagata la condotta, così sarai libero di andartene.-
L’altro lo fissò sgranando gli occhi, non riuscendo a capire se stesse sognando oppure Edoardo l’avesse minacciato neppure tanto velatamente.
-Non mi lasci scelta, a quanto pare.- notò.
-Certo che puoi scegliere. Sei libero di scegliere.- replicò sprezzante, un sorriso beffardo sulle labbra e le braccia allargate.
Lothar inspirò furente e con sguardo omicida mormorò:
-Se vuoi punirmi per qualcosa fallo pure, ma non farlo solo perché non posso darti ciò che vuoi.-
Edoardo impallidì visibilmente, come se avesse ricevuto un pugno in pieno stomaco e senza riflettere gli assestò un manrovescio con una forza tale che l’altro barcollò sulle gambe, l’espressione stupefatta e la guancia dolorante. Per un secondo rimasero a fissarsi attoniti, entrambi impreparati a quella reazione; l’attimo successivo Lothar lo strattonò per la blusa e gli assestò a sua volta un manrovescio tale che lo stordì e lo lasciò a bocca aperta. In quell’istante il sassone si rese conto di cosa aveva fatto e deglutì, consapevole che stavolta sarebbe salito al patibolo senza nessuna scusante, neppure che fosse reduce da una sbornia. Vide lo sguardo furibondo di Edoardo e gemette, un attimo prima di sentire il pugno arrivargli in pieno volto. L’urto fu talmente forte che si ritrovò schienato sulla scrivania, mentre il candelabro rovinava a terra con un tonfo sordo e Myrddin balzava dal suo caldo giaciglio. Con la testa che gli scoppiava provò a rialzarsi e lentamente si riportò in piedi, il labbro gonfio e un rivolo di sangue che fuoriusciva dal lato della bocca. Per un lungo attimo rimase a fissare Edoardo, il fiato sospeso, pronto a udire la sentenza di morte e solo quando lo vide scuotere la testa osò pulirsi dal sangue.

giovedì 5 maggio 2011

Cesare Borgia, cardinale e duca Valentino

Cesare Borgia nasce nel 1475, a Rignano Flaminio, tra il 12 ed il 14 settembre, dall'allora cardinale Rodrigo Borgia, in seguito papa Alessandro VI e da Vannozza Cattanei. Avviato alla carriera ecclesiastica dal padre, Cesare viene elevato al galero a diciotto anni, dopo essersi laureato in diritto assieme a Giovanni de' Medici, futuro papa Leone X. Deve il suo nome Valentino alla diocesi di Valencia, della quale il padre lo nomina vescovo prima e cardinale dopo. Ragazzo solare e brioso, amante dell'esercizio fisico e della caccia, si circonda di amici potenti che, in seguito, diverranno suoi capitani di ventura. L'abito talare gli va stretto, non sopporta la vita clericale, tanto che dirà una sola volta messa in tutti gli anni della sua carriera ecclesiastica, nella sua diocesi romana, la basilica di Santa Francesca Romana. Alla morte di suo fratello Juan, di cui si mormora fosse stato lui il mandante senza mai avere prove a suffagio, depone l'abito e, con l'appoggio di Luigi XII di Francia, diviene duca Valentino, nome che gli viene dal Valentinois, ducato concessogli dal re. Il ragazzo allegro svanisce nell'ombra del condottiero, e l'uomo diviene taciturno, malinconico, solitario. Un solo amico gli è veramente vicino e del quale si fida: don Michele Corella, il quale sarà custode dei segreti del suo signore fino alla morte. Il sogno di un'Italia unita lo porta a conquistarsi un ducato che suscita i timori di Francia e Spagna, che vedono minacciare da vicino i loro possedimenti italiani e che tenteranno di tutto per fermalo. In questo periodo della sua vita, il Valentino si affida al genio di Vinci per progettare macchine belliche, per disegnare planimetrie dei territori conquistati e si incontra con il Machiavelli, che la repubblica di Firenze gli invia come ambasciatore. Questi rimarrà talmente affascinato dall'uomo, dal modo in cui fronteggiò i capitani rivoltosi nel "bellissimo inganno di Senigallia", che si ispirerà a lui nel suo "Principe", riconoscendo nel Valentino la pura virtù cinquecentesca che avrebbe dovuto avere un principe guerriero. Il suo cammino si blocca con la morte del padre e con la sua lunga malattia. Nonostante le avversità dell'ultimo periodo della sua vita intensa, dopo una rocambolesca fuga dal castello della Mota in Spagna, è pronto a risorgere ed a tornare in Italia, sorretto dalla devozione delle popolazioni da lui assoggettate. La morte in combattimento, il 12 marzo del 1507 a Viana, metterà fine a tutti i suoi sogni.

lunedì 2 maggio 2011

Libri a copertina rigida

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IL CONDOTTIERO

L'OMBRA DELLA GINESTRA

CRISTALLI

AGEMINA

con soli 2 euro di differenza dalla versione a copertina morbida.

venerdì 29 aprile 2011

Cesare Borgia, epitaffio

Aquì jaze en poca tierra
a quien toda le temìa;
en esto poco se encierra
el que la paz y la guerra
en el mundo todo hacìa.

O tu que vas a buscar
cosas dignas de loar,
si lo mejor es màs digno,
aquì acaba tu camino:
no cures de màs andar.

venerdì 15 aprile 2011

Sito

Un nuovo SITO, ancora in fase di costruzione. Se avete consigli, io sono tutta orecchie!

domenica 10 aprile 2011

CICERUACCHIO (Angelo Brunetti)

(Roma, settembre 1800 - Porto Tolle, 10 agosto 1849)


A Roma non piove molto, ma quando il cielo decide che è ora di piangere, ne manda giù talmente tanta che noi romani diventiamo scemi. No, non scherzo. Noi siamo avvezzi al sole, ci crogioliamo sotto la sua luce e non conosciamo nebbia, neve, bora né nubifragi. Siamo un po' come le lucertole, usciamo solo con il bel tempo e, visto che c'è sempre il sole, usciamo sempre. Ma quando piove… Quando piove e siamo costretti a mettere il muso fuori di casa causa lavoro, noi romani impazziamo. Se con il sole siamo soliti usare gli autobus e la metro, con la pioggia montiamo tutti in macchina, terrorizzati all'idea che una singola goccia d'acqua possa bagnarci. E allora vedi l'Urbe divenire un'immensa pozzanghera, straripare di autovetture incolonnate per ore per giungere a destinazione, con gli automobilisti che smadonnano e si insultano reciprocamente, dando la colpa al tempo se fanno tardi. È follia, ma è sempre così. Quando piove, Roma va in tilt. Figuriamoci se dovessero scendere due fiocchi di neve…
Osservo in silenzio le macchine incolonnate, imbottigliate nel caos cittadino, mentre me ne sto sotto l'ombrello in attesa che arrivi l'autobus che mi conduca al lavoro, stando bene attenta a non farmi schizzare dalle macchine che passano sulle buche piene d'acqua piovana. Alcuni vigili provano a sfidare l'ira degli automobilisti, ricevendo in cambio insulti e minacce sussurrati a fior di labbra. Solo un singolo essere sorride divertito, un uomo che mi sta vicino, senza alcun riparo e guarda con sommo disprezzo la follia che scivola dinanzi ai suoi occhi. Lo sbircio e mi accorgo che, a dispetto della pioggia, è asciutto e veste un po' dimesso. Lo osservo meglio e subito dopo sgrano gli occhi, esclamando:
-Ciceruacchio!-
Lui si volta a guardarmi e sorride, illuminandosi in quel volto rotondo che ispira fiducia e tranquillità
-Ma tu guarda 'sti romani di oggi!- esclama con il suo forte accento romanesco.
-Ai tuoi tempi era diverso.-
-Lo puoi dire forte, ragazza mia! E non c'era neppure questo rumore assordante al quale voi vi siete assuefatti. Tutt'al più si potevano udire gli strilloni in Campo Marzio, o a piazza Navona, o lo stridio delle ruote delle carrozze sul selciato oppure il calpestio degli zoccoli dei cavalli. Tutto questo…- e fa un gesto con la mano, -roboante rumore non c'era.-
-Si viveva meglio, eh?- commento divertita dalla sua aria schifata.
-Eccome!-
Esito un attimo, quindi abbasso il mio ombrello e mi accorgo che la pioggia devia, non mi tocca, come se fossi coperta da una invisibile campana di vetro. Come al solito la gente non ci vede neppure e torno a guardare lui, con quei suoi baffoni scuri e quel pizzetto che quasi fanno sparire la bocca.
-Perché il soprannome Ciceruacchio?- domando curiosa.
-È una corruzione di ciruacchiotto, ossia cicciottello. Ed io lo sono sempre stato, fin da piccolo.-
-Tu sei nato e vissuto a Roma in un periodo un po' turbolento.- ricordo.
Scuote la testa annuendo e si accarezza il ventre prominente.
-In effetti, dopo la rivoluzione francese, si annusava in giro aria di ribellione ovunque.-
-E tu ti sei dato da fare.-
Lo vedo corrucciarsi e scurirsi in volto, quel volto rubicondo che i romani avevano imparato ad amare e rispettare, nonostante fosse solo un semplice oste.
-Con il mondo che cambia, che riscatta la sua libertà, secondo te cosa avrei dovuto fare? Starmene con le mani in mano?-
Non rispondo, consapevole che ha ragione. È destino che alcuni uomini sentano maggiormente il richiamo della Storia, seppur inconsapevolmente, e lui è uno di questi. Non a caso, durante la Repubblica Romana, si diede da fare per far passare armi e vettovaglie ai combattenti e al popolo di Roma.
-So che i romani hanno sempre guardato a te come il portavoce dei loro sentimenti.-
-Ero il loro specchio, il riflesso di loro stessi!- esclama soddisfatto. -Essendo un oste, conoscevo più che bene il malumore dei miei concittadini, che si riunivano nel mio locale per parlare male o bene di taluna persona o di tale nobile o porporato. La gente si confidava con me ed io ascoltavo. Ed essendo sempre stato socievole e bontempone, ho preso le redini in mano quando si è trattato di eleggere il nuovo papa.-
Sgrano gli occhi e chino la testa di lato, incredula.
-Tu… hai eletto il nuovo papa?- esclamo.
-Ma no! Certo che no!- risponde quasi offeso. -Con l'avvento di Pio IX Mastai Ferretti, mi feci portavoce del malcontento popolare e riportai con la mia dialettica diretta, priva di retorica, tutta l'ansia dei romani che da tempo attendevano riforme.-
Espiro, inconsapevole di aver trattenuto l'aria e subito dopo sorrido. Be', capita di fraintendere…
-Addirittura,- riprende con il suo vocione, -ho ringraziato pubblicamente il nuovo papa per aver concesso la libertà ad alcuni prigionieri politici ed ho offerto da bere nella mia osteria. Ah, sì…- sospira e un velo di malinconia ricopre i suoi occhi attenti. -Che festa abbiamo fatto… Fino a sera tardi, al lume delle torce e delle fiaccole, tutti a bere e cantare e mangiare: sembravano tornati i bei tempi andati.-
Rimango in silenzio, domandandomi a quali bei tempi si riferisse e, a dispetto della mia ricerca nella memoria, non trovo nulla che possa definirsi tale. Forse è solo un suo sentimento personale. Di certo l'Italia non percorreva un buon periodo, vista la dominazione francese e austriaca.
-A Porta del Popolo, poi,- continua con aria estasiata, -abbiamo acceso un fuoco enorme, richiamando tanti di quei romani che tu non puoi immaginare.-
Sogghigno sotto i baffi, immaginando un concerto dei Queen, o dei Led Zeppelin, o dei Pink Floyd e neppure rispondo, lasciandolo crogiolare nel suo ricordo. E in quel lasso di tempo mi rendo conto di quanto possano essere cambiati i tempi nel volgere di un solo secolo, stravolgendo le abitudini e lo stesso pensiero.
-Ma poi qualcosa è cambiato.- noto.
China mestamente la testa al ricordo bruciante e si morde le labbra.
-Avevo riposto grande fiducia nel nuovo papa, tanto da sperare fino all'ultimo che avrebbe veramente cambiato le cose. Ma quando è fuggito, facendo crollare anche la Repubblica Romana, ho aperto gli occhi.-
-Non poteva essere il successore di Pietro il riformatore, vero?-
-No.- ammette controvoglia. -E l'ho capito a mie spese. È fuggito lasciando Roma nelle mani dei francesi. Ti lascio immaginare gli avventori della mia osteria: indignati, offesi e furiosi era a dir poco. Io con loro.-
Annuisco, eppure non so se riesco a capire pienamente il suo stato d'animo. Di certo non deve essere stato facile vivere in quel periodo di stravolgimenti emotivi. Da una parte la Francia che insegnava con la sua rivoluzione e con l'avvento di Napoleone, dall'altra l'Austria e la Prussia con le loro ancor solide radici nel medioevo, impermeabili a qualsiasi capovolgimento, insofferenti a ogni riforma e ognuna di loro con basi stabili, o semistabili, in Italia. In effetti, noi giovani di oggi, cosa possiamo saperne dell'occupazione, delle restrizioni, dell'impossibilità di esprimere le proprie opinioni, della morte che si annida dietro ogni angolo che si può svoltare? Salvatore Quasimodo ne sapeva qualcosa e la sua meravigliosa "Alle fronde dei salici" è lì a testimoniarlo.
-Anche tu sei fuggito.-
-Be', a dir la verità, visto come si mettevano le cose, ho preferito seguire Garibaldi… Hai presente Garibaldi?- domanda con aria da inquisitore.
-Eh, sì.- sospiro annuendo.
Mi fissa a lungo, come se la mia espressione non gli piacesse e provo a piegare le labbra in un sorriso amichevole.
-Aho, regazzì,- mi riprende alzando l'indice come un maestro e agitandomelo sotto il naso, -guai se ti vedo deridere il nostro Garibaldi. Non te lo permetto.-
-Non lo permetterei a me stessa.- ribatto. -So bene chi fosse Garibaldi e ne ho profondo rispetto, nonché stima.-
-Ah, be'.- commenta compiaciuto.
Lo vedo rilassarsi in volto e porta le mani dentro le tasche del panciotto, con aria soddisfatta.
Rimango a osservarlo, in attesa che continui il racconto e, quando si rende conto del mio prolungato silenzio, mi fissa e chiede brusco:
-Be'? Che hai da guardare?-
Esito, non sapendo bene cosa dire, quindi rispondo:
-Guardo un eroe romano.-
Quella risposta lo compiace e sorride beota.
-Be', forse hai ragione.- risponde. -In finale, ho dato la mia vita per Roma, per la sua libertà. E con me l'hanno data i miei due figli, il più grande e il più piccolo, poco più di un bambino.-
-Sì, ricordo. Gli austriaci non hanno avuto pietà di un ragazzino.-
-Già- ringhia con espressione furiosa. -Ci vuole coraggio a fucilare un tredicenne mingherlino.-
Avverto il sarcasmo e convengo con lui. Non deve essere facile affrontare la morte a viso aperto, figuriamoci poi se al fianco ti ritrovi con due figli che debbono fare la tua stessa fine. Me lo immagino, Ciceruacchio, provare a coprire con il suo corpo massiccio il figlio minore, nella speranza di salvarlo dal plotone di esecuzione.
-Sei morto lontano dalla tua Roma.- commento.
-Purtroppo. E pensare che quando ero partito, speravo di contribuire alla sua liberazione. Sai,- mormora sconsolato, -con Garibaldi volevo dare una mano a Venezia che resisteva agli austriaci, ma ci siamo dovuti fermare al Delta del Po, per sfuggire alle vedette nemiche. Abbiamo chiesto rifugio ai connazionali, ma quei bastardi di italiani, anziché aiutarci, ci hanno denunciato agli austriaci, i quali hanno provveduto a fucilarci senza perdere tempo. Comprendi? Noi, italiani che volevamo scacciare gli oppressori, denunciati dai nostri stessi concittadini! Roba da non credere.-
Scuoto la testa come lui, pensando che fosse normale per gli italiani dell'epoca, divisi per secoli, non provare un sentimento di unità nazionale. Troppo diversi. Troppi dialetti diversi. Troppe frontiere. Ma, chissà perché, questo solo pensiero non mi consola dinanzi alla vista di italiani che tradiscono gli stessi italiani. Quello che mi colpisce e mi ferisce, è che oggi, tutto sommato, la pensiamo ancora come quei contadini del Delta del Po.
-Oggi, però, riposi al Gianicolo.- lo consolo.
Sorride e in un gesto affettuoso mi dà un buffetto sulla guancia.
-Aho, regazzì, e mica è da tutti!-
Rido della sua romanità e in quel momento sento la pioggia bagnarmi la tesa. Alzo lo sguardo e mi bagno il volto, ricordando che avevo chiuso l'ombrello perché riparata dalla presenza di Ciceruacchio. Quando mi giro per salutarlo, non c'è più e la pioggia sul mio viso mi sembra all'improvviso come un pianto silenzioso per tutte quelle vite donate per un ideale che oggi nessuno sente più.

martedì 5 aprile 2011

Stralcio da "Principe delle tenebre"

Bari, 1251
Era la città più grande e importante delle Puglie e se fosse riuscita a svicolare al giogo imperiale, l'intero regno avrebbe innalzato il vessillo guelfo. Gli ambasciatori avevano sempre portato i loro omaggi al principe reggente, accompagnati sempre da vaghe promesse di fedeltà che nessuno si sognava di fare. I baresi speravano che, dovendo sedare altre insurrezioni, Manfredi si allontanasse con il suo esercito, così da potersi dichiarare apertamente a favore del papato senza incorrere nell’ira imperiale. La paura della dannazione eterna era più forte della fedeltà a un imperatore di cui non conoscevano neppure il volto, anche se questo imperatore era il figlio di Federico II.
Il giovane Staufen, che doveva ricevere il giuramento in vece del fratellastro, aveva subodorato qualcosa di poco chiaro. Gli erano state fatte promesse vacue sine die, quando avrebbe desiderato qualcosa di più sostanzioso dalla città più grande del regno, una sicurezza che gli avrebbe consentito di dormire sonni più tranquilli. Fintanto che non avesse ricevuto tutti i giuramenti di fedeltà a Corrado IV, la sua opera era incompleta e non poteva permettersi recriminazioni da parte del fratello.
Giordano e Teobaldo erano inquieti e Manfredi non aveva mancato di notarlo. Anche loro, da uomini d'arme quali erano, avevano fiutato il pericolo, e tuttavia non sapevano come affrontarlo, perché, apparentemente, Bari non si era ribellata e, pertanto, rimaneva intoccabile.
Senza porre tempo prezioso in mezzo, il principe aveva dato ordine di marciare sulla città, in modo da mettere i nicchiosi dinanzi al fatto compiuto e indurli a pronunciare il giuramento di fedeltà direttamente a lui. Non era certo di cosa si sarebbe dovuto attendere da quella città; le parole vaghe dei delegati lo avevano messo sul chi va là ed era meglio porre la potenziale ribelle alle strette prima che fosse troppo tardi.
Ora, accampato a pochi chilometri da Bari, ricevette nuovamente gli ambasciatori che, con la loro magniloquenza, continuarono a offrirgli solo parole e lui li lasciò parlare, ripensando ai colloqui ai quali aveva assistito all’ombra del padre, imparando a gestire la sottile arte della diplomazia e i gesti che sottolineavano il potere.
-Noi siamo certi,- li interruppe dolcemente ma con fermezza, -che la vostra città possa più delle promesse. Questo temporeggiare ci porta a pensare che nascondiate mire diverse dal giuramento di fedeltà. Pertanto, considerato il nostro dovere di reggente, ci vediamo costretti a chiedervi maggiori sicurezze per poter rassicurare il re sulla vostra fedeltà. In caso contrario, non ci lasciate altra scelta se non quella di marciare contro di voi.-
-Eccellentissimo signor principe, la nostra città vi ha sempre portato le sue simpatie e le...-
-E le vacue promesse.- concluse con tono sferzante. -Vi concediamo un giorno di tempo per venirci a porgere il vostro giuramento. In caso contrario, ci vedremo costretti a venire a farvi visita.-
Il tono affettato non lasciò dubbi negli ambasciatori, che si guardarono ammutoliti, incapaci di prendere tempo.
Con ostentata superiorità, Manfredi si alzò dalla sedia da campo e scortato dai saraceni uscì dalla tenda, ritenendo chiuso il discorso.

~

Teobaldo entrò nella tenda da campo di Manfredi e lo vide steso sui cuscini, alla maniera orientale, intento ad accarezzare distrattamente il leopardo che sonnecchiava accanto a lui. Con lo sguardo percorse il perimetro della tenda e ad un angolo vide un paggio che provvedeva a tenere acceso un piccolo fuoco per scaldare l‘ambiente altrimenti gelido e inospitale, e il calore delle fiamme aveva reso rubiconde le sue gote paffute. All’altro angolo lo scudiero del principe si affannava nell’oliare e lucidare la cotta in maglia del suo signore, mentre distesi a terra dinanzi a sé aveva il pugnale e la spada di Manfredi che attendevano di essere arrotati.
-Bertoldo è riuscito a ridurre all'obbedienza Avellino e fino a quella città il regno è fedele.- annunciò Teobaldo tornando a concentrarsi sul principe.
Manfredi annuì soddisfatto, senza smettere di accarezzare il leopardo e l’Annibaldi rimase suo malgrado immobile a fissarlo, così dannatamente bello e così seducente in quella posa rilassata, con il farsetto blu ricamato con fili argentati e agemine che riproducevano l'aquila imperiale, con le calze nere che gli modellavano le gambe lunghe e muscolose, e dovette deglutire per continuare il suo resoconto.
-Napoli, Capua e Nola hanno innalzato il vessillo guelfo, mentre ad Aversa è in corso una guerra civile tra fazioni guelfe e ghibelline.-
-Quale delle due fazioni è in grado di sopraffare l'altra?-
Il ragazzo fece una smorfia accompagnata da un gesto vago della mano e rispose:
-Si equivalgono.-
Manfredi sorrise all'aria sorniona del felide e Teobaldo si avvicinò, curioso e timoroso all'unisono.
-Vorrei accarezzarlo.-
-Fallo.- lo invitò il principe.
Il ragazzo esitò, spostando lo sguardo da uno all'altro. Sebbene fossero anni che viveva accanto al principe, non era mai riuscito ad abituarsi al serraglio di cui amava circondarsi, soprattutto ai grossi felini.
-Mi lacera ammetterlo, ma ho paura.- bofonchiò contrito.
-Non ti farà niente. È stato bene addestrato e con me vicino non si ribellerà.-
-Vorrei avere la tua sicurezza.-
Manfredi rise e con un sospiro Teobaldo si inginocchiò sopra un cuscino di velluto blu, facendo tintinnare la lorica. Trattenne il respiro e allungò la mano tremante verso il leopardo, steso accanto al suo padrone. Esitò ancora e alla sua titubanza il principe gli prese il polso con delicatezza, facendogli posare la mano sulla testa del felino. Questi sbatté la coda, lo guardò sornione con i suoi occhioni color dell’ambra e il ragazzo ritirò di scatto la mano, terrorizzato. Manfredi riprese a ridere e Teobaldo borbottò stizzito:
-Non so come fai a fidarti così.-
-È mansueto e ha pure la pancia piena.-
Il ragazzo esitò, quindi si mise seduto sui talloni e senza staccare lo sguardo dal felide mormorò:
-Prima o poi ti sbranerà.-
-Non è lui che mi sbranerà,- corresse, -bensì questi ribelli che ascoltano incantati i frati predicatori. È Innocenzo che vuole dilaniarmi con i suoi artigli, non il mio leopardo.-
Teobaldo chinò appena la testa annuendo, accettando il suo punto di vista e, tornando in piedi per mettere maggior distanza tra sé e il felino, chiese:
-Cosa intendi fare con Bari?-
Manfredi si alzò agilmente e con aria meditabonda si avvicinò allo scudiero che aveva terminato di arrotare le lame e legò in vita il pugnale e la spada, prima di dire con tono grave:
-Questa situazione è insostenibile. Innocenzo, che non ha mai riconosciuto il testamento di mio padre, ha investito del principato di Taranto, il mio principato, un altro nobile, così da rendermelo nemico. Questo Frangipane farà di tutto per entrare in possesso delle mie terre e cercherà appoggi in suo favore, anche tra gente devota all'impero, pur di sbalzarmi da ciò che mi appartiene. E intanto Innocenzo non fa altro che predicare contro tutta la casata degli Hohenstaufen e ogni giorno fa sempre più proseliti. Corrado è ancora in Germania e non ho idea di quando verrà a prendere possesso del regno.- ammise in un sussurro. -Le ribellioni sono giornaliere e non so per quanto tempo ancora riuscirò a mantenere intatto il territorio.-
Quindi, con gesto sconsolato della testa, concluse passando una mano sulla fronte:
-La gente non mi ama, questo è un dato di fatto.-
-Ma cosa dici?- esclamò Teobaldo attonito, prendendolo per un braccio e costringendolo a guardarlo negli occhi. -La gente non può non amarti. Sei un principe buono, colto, giusto, illuminato, munifico… Solo guardandoti si è pronti a dare la vita per te…- aggiunse deglutendo.
Manfredi allungò improvvisamente la mano per accarezzargli una guancia e lo guardò con condiscendenza, mormorando:
-Anch’io ti amo, Teo.-
Il ragazzo esitò e gli lasciò il braccio, abbassando gli occhi e il principe continuò mormorando:
-Devo riuscire a raggiungere un accordo con il papa. Solo in questo modo porrò fine alle predicazioni contro gli svevi e alle rivolte.-
A quelle parole, Teobaldo tornò con i piedi per terra e con aria grave ripeté:
-Un accordo con il… papa?-
-Già.-
-Stai attento: scendere a patti con il Vaticano può essere frainteso da orecchie che non vogliono ascoltare.-
Manfredi comprese cosa intendesse dire e abbozzò un pallido sorriso, girando per la tenda.
-È l'unica via che ho per mantenere intatto il territorio. Non ho un esercito, le casse sono quasi vuote e la gente non vuole più vivere scomunicata. Le tasse che sono costretto a pretendere servono solo per continuare questa rovinosa lotta contro il papato. Devo accordarmi con il papa per riuscire a consegnare il regno nella sua integrità e nella sua prosperità a mio fratello.-
-Corrado lo capirà? Lui è lontano e non ha idea di quello che sta accadendo qui.-
Manfredi fece qualche altro passo, meditabondo, quindi si fermò e posò lo sguardo glauco sul suo amico.
-Deve capirlo. Questo stato di cose non può durare, tanto più che non ho mai desiderato questa responsabilità.-
Teobaldo rimase in silenzio, provando a immaginare quello che passava nell'animo del figlio di Federico II e con un sospiro gli mise una mano sulla spalla.
-Pensiamo a Bari.- propose.
Manfredi si erse in tutta la sua statura e annuì, girandosi verso la sua cotta in maglia posata su un forziere dallo scudiero.
-Sì, è scoccata l'ora di Bari.-

~

Giordano digrignò i denti e alzando un braccio grugnì:
-Avevi ragione, guarda.-
Manfredi restrinse gli occhi alla vista delle mura della città fatte fortificare negli ultimi giorni e dalle porte chiuse: il suo intuito non aveva sbagliato. A quanto pareva, i messi erano serviti solo per prendere tempo: Bari aveva deciso di ribellarsi e di combattere aspramente.
Fece cenno ai suoi uomini di porre l'assedio e nel frattempo mandò alcuni rappresentanti latori dell'ordine di aprire le porte per lasciare entrare pacificamente il reggente, nell'ultima speranza di evitare uno scontro.
-Sei certo sia la mossa migliore?- bofonchiò Giordano seguendo con occhio critico il manipolo di soldati che si avviava vero le mura.
-Siamo cavalieri e come tali dobbiamo comportarci.- rispose Manfredi con tono deciso. -Sempre, anche se dinanzi ci si presentano bifolchi.-
-Tu ti fidi troppo. Le intenzioni dei baresi mi sembrano sufficientemente ovvie.-
-Anche quelle dei foggiani e poi si sono pacificamente arresi. Non intendo uccidere i sudditi di mio fratello, se Dio mi aiuterà.-
Giordano digrignò i denti, tirò le redini per far girare la cavalcatura e gli si affiancò per guardarlo dritto negli occhi, prima di sussurrare:
-E sia. Sai bene che asseconderò ogni tuo capriccio, ma se devi rischiare la vita per…-
Urla improvvise costrinsero tutti a girarsi verso la porta della città, dove i messi furono ricevuti da una fitta coltre di frecce proveniente dalle bertesche. I soldati che li accompagnavano indietreggiarono, impreparati a quell'attacco che per i baresi rappresentava l'estrema difesa e il loro capitano, Hegano, spronò il cavallo, gridando:
-Dobbiamo ritirarci!-
-Che diavolo sta succedendo?- borbottò Giordano serrando le redini del cavallo, vedendo i soldati arretrare disordinatamente accompagnati da urla concitate.
Per un attimo nel campo regnò sovrano il caos, i soldati tedeschi che si preparavano alla fuga, i saraceni che circondavano Manfredi per proteggerlo, mentre i delegati cadevano ai piedi delle mura della città, trafitti dalle frecce. Manfredi fece in tempo ad alzare lo scudo per proteggersi da un dardo e in un solo istante vide il pericolo nitidamente: se fossero fuggiti, lasciando la vittoria ai baresi, le altre città, che guardavano a Bari come a un faro, si sarebbero sollevate nuovamente e l'opera di suo padre sarebbe andata persa.
-No, non ci pensare neppure!- esclamò Giordano immaginando cosa gli passasse per la testa.
Non lo ascoltò: in un baleno scese da cavallo, eludendo la sorveglianza dei saraceni, urlando con tutto il fiato che aveva in corpo agli uomini di non indietreggiare, sottrasse l'ascia a un soldato e, sotto le frecce che venivano scoccate dalle mura, si diresse impavido verso una porta. Con la forza della disperazione iniziò a colpire il legno massiccio che lo divideva dalla città, senza pensare al pericolo di morte che correva, mentre rimbombavano nelle sue orecchie le grida eccitate degli uomini sui bastioni che incitavano gli arcieri a ucciderlo. Corso al suo fianco, Teobaldo cercava in qualche modo di proteggerlo con lo scudo, mentre con la spada provava a deviare il corso dei dardi, urlando a Manfredi di ritirarsi. Anche Giordano li raggiunse, addossandosi con la schiena al portone per poter coprire Manfredi con il palvese, mentre si univa alle urla disperate di Teobaldo.
Vedere il loro giovane principe ergersi a campione contro i nemici, impavido e sprezzante del pericolo, scortato solo da Teobaldo e da Giordano, rianimò i cavalieri e i soldati che si erano già dati per vinti e urlando il loro grido di vittoria si precipitarono al suo fianco per aiutarlo a scardinare le porte.
Sotto nugoli di frecce, sdegnosi della morte, i suoi uomini gli fecero scudo con i loro corpi e in breve la porta cedette, sotto le urla di acclamazione dei ghibellini e quelle di rabbia dei guelfi.
Con occhi adamantini, corroborato dall’incredibile quanto inaspettata vittoria, Manfredi scambiò un’occhiata con Teobaldo e Giordano, quindi si avvicinò all'alfiere e, preso il gonfalone con le insegne imperiali, entrò nella città seguito dai suoi uomini. I ribelli si diedero alla fuga, mentre il resto della popolazione si arrese, temendo una rappresaglia.
Teobaldo si fece largo tra la folla e riportò il cavallo a Manfredi, che vi montò soddisfatto ma con l'usbergo macchiato di sangue.
-Mio Dio, cosa ti hanno fatto? Sei ferito?- chiese preoccupato Giordano, arrivando al suo fianco.
-Non è il mio sangue, bensì quello dei miei valorosi cavalieri che giacciono privi di vita dinanzi a questa porta. Da’ ordine di demolire le difese della città e fa' che tutti sappiano della nostra vittoria. Bari deve essere da esempio.-
-Sarà fatto!- esclamò e si allontanò di corsa, sparendo tra la folla.
Teobaldo comprese il monito insito in quelle parole: se Bari, la più forte città, era stata conquistata, le altre, se mai si fossero ribellate, non avrebbero avuto nessuna possibilità di successo. Con un sorriso di trionfo esclamò:
-Che vittoria!-
Manfredi abbassò lo sguardo per guardarlo, in piedi accanto al suo cavallo, quindi ordinò:
-Dai disposizioni affinché nessuno importuni la popolazione. Poi fai condurre una delegazione da me.-
Il ragazzo ubbidì e Manfredi, preso il mantello imperiale che gli porgeva un paggio, lo indossò e si avviò verso la rocca, circondato dalla sua coorte di saraceni.

martedì 29 marzo 2011

Il condottiero

Subito dopo la presa di Urbino, Cesare Borgia si ritrova a colloquio con gli ambasciatori fiorentini; io ho semplicemente messo in forma romanzata l'incontro avvenuto secoli fa nel palazzo ducale.
"Altero nel suo indumento nero, il corpo sottile e ben modellato che nascondeva una forza erculea, fissò i due uomini dall'alto in basso, consapevole di incutere soggezione. Il vescovo di Volterra sembrava tranquillo, pronto a intraprendere la discussione notturna, ma Cesare non mancò di notare lo sforzo che faceva per celare l'apprensione. Il suo segretario, un omino smilzo, dagli occhietti tondi e perspicaci in un volto magro e spigoloso, non mostrava segni di inquietudine. Tutt'altro. I suoi occhi scuri brillavano di una luce ammirata, pieni di curiosità e Cesare lo studiò a lungo. Sapeva che entrambi erano lì non solo per discutere ma anche per sondarlo, per capire cosa aveva per la testa e percepì una sottile sagacia nel segretario del vescovo. Doveva stare attento o quell'uomo sarebbe riuscito a entrare nel suo pensiero.
Portò la fialetta di profumo alle narici e iniziò con tono sprezzante:
-La vostra Signoria non ha mantenuto i patti stipulati il maggio scorso e non è mia consuetudine sorvolare su simili ed esecrandi voltafaccia. Se ho chiesto la ripresa delle trattative è solo perché sarà un ultimo esperimento: Firenze deve decidere se mi sarà amica o nemica.-
-Eccellenza,- iniziò Soderini col tono più ragionevole del mondo, -la Signoria vi ha già mostrato la sua...-
-Amica o nemica!- l'interruppe fissando con biasimo la veste episcopale. -Nel primo caso sarà meglio per tutti; nel secondo mi vedrò costretto a declinare ogni responsabilità dinanzi a Dio e agli uomini per i provvedimenti che sarò costretto a prendere. Comprenderete bene che, dato che il mio stato confina con la Toscana, dovrò assicurarmi tali confini. In ogni modo.- aggiunse mellifluo, un sorriso sarcastico sulle labbra.
Soderini sbiancò, deglutì, congiunse le mani e mormorò:
-Firenze non è mai venuta meno agli obblighi presi, anzi: sono qui per ribadire che la Signoria vi tiene in alta considerazione e che gradirebbe mantenere con voi rapporti cordiali.-
Con tono spazientito Cesare rispose:
-Da voi mi aspetto sicurezza, non parole. Se Firenze non vuole patteggiare, sia: continuerò la mia strada senza esitazioni, onde evitare di trovarmi in pericolo. Perché so fin troppo bene che la vostra città non ha buon animo verso di me, anzi: mi lacera come un assassino.-
Il vescovo spalancò la bocca, consapevole di dover difendere la propria città da quelle accuse che sapeva fin troppo lecite e stava per ribattere, quando Cesare riprese con tono più aspro:
-So che siete prudenti e mi comprendete, però ve lo dirò in parole brevi: il vostro governo non mi piace e di lui non posso fidarmi. Dovete cambiarlo...-
Soderini si voltò verso il suo segretario e scambiò con lui un'occhiata attonita. Come si permetteva costui di dire simili frasi? Forse... Forse avevano fatto male a lasciargli l'iniziativa della parola: ora non potevano far altro che cercare di scagionare Firenze e difendersi.
-Dovete cambiarlo,- riprese con tono sferzante, -e una volta mutato, dovrete mantenere fede all'impegno preso con me un anno fa. In caso contrario vedrete molto presto che non intendo continuare a vivere così: se non mi volete per amico, mi avrete per nemico.-
-Ma monsignore... Il nostro governo è degno della massima fiducia e vi ha sempre mostrato amicizia e lealtà.- ribatté Soderini, continuando poi a elogiare la Signoria, dimostrando di saper usare la retorica a menadito.
Cesare ascoltò con distacco, giocherellando con la fialetta di profumo e incurvò le sopracciglia quando il vescovo concluse dicendo:
-Forse si potrebbe fare qualcosa se voleste dare prova della vostra amicizia alla città, magari richiamando da Arezzo il vostro uomo Vitellozzo: egli è una spina conficcata nel cuore di Firenze. Sarebbe un segno della vostra buona volontà.-
-Non aspettate,- scattò Cesare furioso, -che inizi a farvi tali benefici! Perché non solo non li avete meritati, ma li avete demeritati! E comunque,- continuò più pacatamente, -dei fatti di Toscana sono completamente estraneo. Vero è che Vitellozzo è un mio capitano, ma del trattato di Arezzo non ho mai saputo niente.-
Piegò la bocca in un sorriso sardonico e continuò:
-Non sono stato malcontento di ciò che avete perduto, anzi: ne ho avuto piacere.-
I due uomini si guardarono allibiti, intrappolati dal fascino di quell'uomo che trattava Firenze con sommo disprezzo, rallegrandosi dei guai in cui era venuta a trovarsi perché ribellatasi a lui, potente sovrano che dominava la terra. Quelle parole terribili, pronunciate all'interno del palazzo ducale conquistato senza batter ciglio, in un’atmosfera pregna di suggestione, lasciarono i due fiorentini di stucco, impreparati a una simile arringa.
-Comunque,- riprese, -non ho intenzione di carpire chissà che a Firenze. Io,- mormorò più a se stesso che ai due ambasciatori, -non sono per tiranneggiare, ma per spegnere i tiranni.-
Alzò di scatto la testa, lasciando volare i capelli e col tono di chi pensa di essere stato fin troppo esauriente e che non ha altro tempo da perdere, concluse:
-La vostra Signoria deve decidersi senza indugi che non sono più disposto a tollerare.-
I due uomini provarono ad alzare voci di protesta per indurlo a non precipitare le cose e Cesare con gesto secco della mano, disse:
-Tra voi e me non devono esistere mezzi termini: o mi siete amici, o nemici.-
Il tono di congedo non ammetteva repliche e gli ambasciatori si ritirarono scornati.

~

Francesco Soderini camminava nervosamente per la stanza, ripensando al colloquio avuto con il Valentino, incapace di prender sonno. Il suo segretario era seduto al tavolo e stava scrivendo a Firenze tutto quello che era avvenuto, terminando con osservazioni sull'uomo:
"Questo signore è splendido e magnifico, e nelle armi è così animoso che non c'è cosa che gli paia piccola. E per la gloria e per acquistare uno stato mai si riposa, né conosce fatica o pericolo: giunge prima in un luogo, che se ne possa sapere la partenza da dove si leva; si fa benvolere dai soldati ed ha alle proprie dipendenze i migliori uomini d'Italia. E queste cose lo rendono vittorioso e formidabile, aggiunte a una perfetta fortuna."
La firma in calce alla missiva era quella di Niccolò Machiavelli."

giovedì 24 marzo 2011

Condominio o non condominio?

Non so se cento o più anni fa, quando hanno iniziato a fiorire le metropoli, i costruttori si siano mai posti il problema: ma questi poveri disgraziati che saranno costretti a vivere gomito a gomito con altri poveri disgraziati, separati solo da un velo di muro, riusciranno a coesistere pacificamente? Secondo il mio modestissimo avviso, no, il problema non se lo sono minimamente posto. E oggi, che ci riteniamo sviluppati rispetto ai nostri bisnonni, ci consideriamo tolleranti e civili, in realtà viviamo peggio che nel medioevo. Perché? Semplice: abitiamo in condomini.
Già la parola, di per sé, mette paura: casermoni di cemento con abitazioni in linea di massima poco più grandi di una capanna, ma con tutti gli spazi sfruttati al limite dell’immaginabile per poter dare l’illusione di un grande benessere. In realtà, con tutta la nostra tecnologia, con tutta la nostra boria di essere moderni, stiamo messi peggio dei nostri avi. Ma andiamo per ordine.
Per prima cosa analizziamo i punti di forza di abitare in un condominio.
Ehm… Non mettete fretta, ci sto riflettendo… Ah, sì, ecco: non ce ne sono.
Per seconda cosa analizziamo i punti carenti.
Chi è costretto a vivere in un condominio prima o poi (più prima che poi) deve imparare a fare i conti con chi gli abita intorno a trecentosessanta gradi. E badate che anche chi abita al primo e all’ultimo piano sta nelle medesime condizioni. L’unico vantaggio di chi ha la fortuna di occupare un attico, è che non ti senti camminare sulla testa.
Dicevamo: il condominio è una convivenza coatta con gente che magari avresti preferito non conoscere mai, soprattutto se sopra di te viene a vivere il classico ragazzo di campagna, abituato alla mega villa senza nessuno nei paraggi. Chiaramente si sentirà in dovere di fare i comodi suoi a tutte le ore del giorno e della notte e, del resto, come dargli torto? Lui al paesello lo faceva! E nessuno gli rimproverava nulla, perché nessuno gli viveva a fianco. Ma qui, nella progredita città, non si può. O meglio: esiste il regolamento di condominio che disciplina il giusto comportamento e le regole da rispettare. Come? Non sapevate che ogni condominio ha le sue regole? Già, a pensarci bene, chi l’ha mai visto o letto? Eppure il fantomatico regolamento esiste, parola di amministratore. Sarebbe già una conquista se venisse rispettato, ma noi siamo progrediti… ci sentiamo in dovere di espatriare nella libertà altrui senza porci problemi… e ci arrabbiamo se l’invaso osa farci notare che abbiamo esagerato!
Tempi moderni.
Adunque, nel condominio trovi un coacervo di etnie peggio della Torre di Babele. In teoria si dovrebbero conoscere gli occupanti degli altri appartamenti, ma quando gli appartamenti raggiungono il numero di settanta, novanta, cento e passa, è naturale che qualcuno sfugga. E ti ritrovi a salutare il cinese che nel frattempo ha acquistato la casa sopra la tua testa dall’oggi al domani, magari in contanti. Contanti? Sì, avete letto bene: contanti. Personalmente non so neppure come siano fatti quattrocentomila euro in contanti, ma a quanto pare i cinesi lo sanno bene. Oppure un bel giorno decidi che tuo figlio di tre anni deve dare un taglio ai lunghi capelli biondi e quando rientri con lui e la sua testa rapata, trovi la signora che abbassa lo sguardo per osservarlo, sgrana gli occhi allibita e dice: “Ma gli hai tagliato i capelli!”. E tu fissi la signora e ti domandi chi diamine possa essere, perché non l’hai mai vista prima! Però lei conosce bene tuo figlio!
Se poi il condominio è dotato di portierato, allora esiste la mitica figura del portiere. Mitico portiere, che quando occorre qualcosa è sempre presente! Sì, anche quando ti ritrovi in casa un ragno di mezzo chilo e corri a chiamare il portiere perché lo uccida! O quando ti sfreccia un pipistrello in piena serata estiva dietro la nuca e non sai come prenderlo e corri dal portiere! E quando si rompe il termosifone? Niente paura, il portiere risolve sempre tutto. A pensarci bene somiglia a Figaro…
Però esistono anche gli inquilini che odiano il portiere. E allora si innesca una vera e propria guerra psicologica ai danni del poveretto che ogni giorno si ritrova a dover ripulire le schifezze dei civilizzati… Per non parlare dei modi sgarbati e veramente poco civili con cui si rivolgono a quel cristiano che sta lì per nove ore al giorno a pulire e ascoltare le lamentele di centinaia di persone per pochi euro al mese. Quanti, oggi come oggi, farebbero il portiere? Pochi, credetemi, e alla fine li vedi che soffrono tutti di gastrite o di ulcera.
Per non parlare di quei casermoni dove, se ti permetti il lusso di andare una settimana in vacanza, torni e scopri che il tuo vicino ha sfondato una parete e si è appropriato di una delle tue camere! Come? Non è possibile? Oh, sì, che è possibile, potrei citarvi il luogo dove ciò avviene con una certa naturalezza di costume, ma preferisco tacere per mia incolumità.
Per farla breve, in tutto questo contesto, il portiere, lo sconosciuto, i rumori molesti, la sporcizia, l’appropriazione indebita, esiste la ciliegina sulla torta: l’assemblea condominiale!
In teoria ci si riunisce per cercare, insieme all’amministratore, di portare migliorie al condominio e per approvare consuntivi e bilanci o acconsentire taluni lavori. In realtà ci si riunisce per scagliarsi gli uni contro gli altri, in un’arena improvvisata dove vengono sfogate tutte le repressioni psico-sociali di cui noi progrediti soffriamo. Ognuno è arroccato sulle proprie convinzioni e ben pochi accettano idee e risoluzioni provenienti da altri cervelli.
Si comincia con la solita matta (ce n’è sempre una o più di una in un condominio, come una volta c’era il matto del villaggio) che, neppure tutti sono seduti, si scaglia contro l’amministratore vomitandogli addosso ogni ben di Dio, senza un senso logico, senza un perché, ma solo per il gusto di alzare la voce e destabilizzare, istigata da altri cervelli fini che ascoltano soddisfatti in silenzio. E una volta terminata la violenta invettiva, si gira e se ne va, impettita e tronfia come un pavone, lasciando gli astanti allibiti e trasecolati, tranne i due cervelli fini di cui sopra che non si aspettavano altro. Che poi la matta sia la medesima persona che volutamente sporca per far dispetto al portiere è un mero cavillo.
E che dire delle due galline che fanno sempre comunella, pronte a dare sempre e comunque contro l’amministratore e contro ogni buona idea? Le vedi che siedono fianco a fianco e se c’è da votare andando contro gli interessi generali, sono sempre le prime a farlo, appoggiandosi “per solidarietà”, anche quando non sono concordi neppure tra loro. Bellissimo esempio di magistrale stupidità.
E che dire del fermo tentativo di tutti i cervelli fini di revocare l’indennità di cassa al portiere, preferendo “risparmiare” andando a pagare alla posta e versare l’euro contro i pochi centesimi rimborsati al portiere? Ma nessuno ha mai spiegato a queste persone che cosa sia l’economia? Perché a casa mia, se anziché pagare un euro e dieci centesimi di bollettino postale pago cinquanta centesimi al portiere… caspita! Ho risparmiato! Invece no, i cervelli fini pensano l’esatto contrario. Anche questa è una magistrale prova di stupidità e ignoranza.
E che dire del capannello di condomini che ce l’hanno a morte con il segretario che, poveretto, è chiamato solo a trascrivere la seduta? Le accuse, le insinuazioni volano e alla fine, dopo anni che il disgraziato si offre per mancanza di volontari a quel lavoro, si stanca e se ne va, invitando i cervelli fini a prendere il suo posto. E qui scatta la sorpresa: nessun cervello fino si fa avanti. Bene, ora siamo senza segretario e l’amministratore ha un bel da fare a chiedere che uno dei condomini si offra di ricoprire quel ruolo. Ma come? Hanno fatto di tutto per sbalzare il segretario e ora nessuno ha il coraggio di farsi avanti?
Insomma, a guardare bene, il fatto di vivere in un condominio a mio avviso non è una grande conquista sociale, ma un regredire allo stato di australopitechi. Con tutto il rispetto per gli australopitechi.

martedì 15 marzo 2011

Rflessione

"In un certo senso è bello scoprire che alcune civitltà non hanno bisogno di Roberto Benigni per (ri)scoprirsi patriottici, coltivano questo sentimento da quando nascono fino a quando un evento naturale prova ad annientarli ed a spazzarli via. Adesso, pur vivendo il momento peggiore della loro storia recente, rimangono compatti, fermi, uniti e pronti a ripartire più forti di prima. Li vedi fare la fila per l'acqua, per il cibo, per avere notizie di parenti completamente scomparsi dalla loro vista come polvere esposta ad un colpo di vento, li vedi attendere il responso del contatore Geiger come se aspettassero di sapere se hanno vinto ad un gratta vinci, consci però che dal risoltato potrebbe dipendere il futuro dei propri figli e peggio ancora, il futuro!Poi, come se si passasse dalle notizie di cronaca nera a qulle di cronaca rosa, si passa alla tua nazione... ed è proprio in quel preciso istante che ti guardi allo specchio sperando di avere gli occhi a mandorla."
Questo è quanto postato da M.L. Fabi e che io condivido appieno.

sabato 26 febbraio 2011

Un capodanno... insolito

Un capodanno è pur sempre un capodanno e va festeggiato come si deve. Per questo motivo avevamo deciso di trascorrerlo lontano dal caos cittadino, in una ridente tenuta in mezzo al verde, immersi nella pace nel polmone d’Italia. I nostri amici ne sono stati oltremodo felici, perché era un ritrovarsi al di fuori dell’estate, in un clima totalmente diverso, con un’atmosfera da Vecchia Romagna Etichetta Nera, con tanto di camino e silenzio a dir poco innaturale. Decisamente diverso dal caldo dell’estate, con le risate cristalline dei bambini in piscina e il continuo frinire delle cicale.
Così, fatte le valigie in quattro e quattr’otto, abbiamo abbandonato l’Urbe e ci siamo diretti in Umbria, la nostra seconda casa, per modo di dire. La prima preoccupazione è stata: chi ci sarà oltre noi all’agriturismo a festeggiare il capodanno? Speriamo ci siano giovani come noi, in modo da poter tirare fuori i giochi di società e attendere con trepidazione il nuovo anno in maniera diversa da come si è avvezzi a festeggiarlo oggi. Un gusto un po’ retrò, ma tanto salutare! Il desco al centro del salone, imbandito con tanti gadget natalizi, l’atmosfera familiare e calda, le risa, gli scherzi… proprio come una volta. E poi i fuochi d’artificio a bordo piscina, il bicchiere con lo champagne per buon augurio…
Be’, a quanto pare quest’anno ci è andata male: con noi ci sono due coppie di ultra settantenni provenienti dalla città partenopea , che sicuramente limiteranno i festeggiamenti perché andranno a dormire presto e non potremo fare troppo rumore. Pazienza, speriamo almeno che giungano alla mezzanotte per poter brindare e dare fuoco alle ceneri dei fuochi d’artificio. Ma sì, ti pare che non attenderanno lo scoccare del nuovo anno per scambiarci gli auguri?
Certo è strano: noi coppie di quarantenni, praticamente nel fiore della vitalità, dover trascorrere il capodanno con queste persone che hanno il doppio della nostra età… praticamente nostri nonni… Del resto, sono gli inconvenienti di chi gestisce un agriturismo e noi avremmo dovuto immaginarlo.
La cena, tutto sommato, è andata bene: i quattro vegliardi hanno mangiato tutto, mentre noi, con i nostri problemi di stomaco, qualcosa abbiamo tralasciato. E che vuoi farci? Conduciamo una vita frenetica e il minimo che può capitarti è la gastrite. Però il brindisi è stato bellissimo, con tanto di fuochi d’artificio che il nostro amico ha fatto partire allo scoccare della mezzanotte. Un’emozione bellissima , se pensi che tutto intorno era buio pesto e silenzio inusuale.
Timidamente, poi, abbiamo tirato fuori i giochi a tavola, in primis il Trivial Pursuit, giusto per affermare la nostra ignoranza e scherzarci sopra. Ovvio che abbiamo invitiamo i vegliardi, non puoi esimerti, pare brutto. E loro hanno accettato, con nostra immensa sorpresa. Abbiamo giocato a squadre: uomini contro donne e, inutile dirlo, noi donne abbiamo vinto. Non so per quale motivo, ma con il Trivial riusciamo sistematicamente a vincere i nostri uomini, senza per questo essere più dotte. Mentre loro, al contrario, vincono sempre al Tabù, capendosi anche solo con un’occhiata. Ma qui c’è la sorpresa: le due “giovincelle” posseggono l’intero scibile umano! E altrettanto i due “giovinastri”, che ci fanno impallidire al confronto. Caspita, ci siamo imbattuti in una squadra di ottuagenari che mettono paura! Bene, molto bene! Il confronto è il sale della vita e via con altri giochi impegnativi. E nel frattempo mandi giù un goccetto di vino, di grappa, di cognac… di tutto quello che capita e i partenopei che tengono spaventosamente il passo! E poi lenticchie e cotechino, di nuovo panettone e ancora alcool da bastare per un mese intero se non di più. Ma è capodanno, uno strappo alla regola è concesso.
Alla fine, giunti alle tre e passa di mattina, noi quarantenni abbiamo iniziato a ciondolare le teste, stanchi morti, e lo stesso gli ottantenni nostri compagni di avventura. Così, di comune accordo, ognuno si è diretto nelle rispettive camere a riposare, per affrontare un primo dell’anno in maniera più fresca. Che dire: appena messo la testa sul cuscino, mio marito ha iniziato a ronfare, io ho faticato, forse perché era passata la mia solita ora. Fatto sta che, nella stanza accanto, ho iniziato a sentire la signora anziana dolersi e ho drizzato le orecchie, temendo di dover intervenire per portarla al pronto soccorso. In effetti quella sera avevamo tutti esagerato e non mi sono stupita nel sentire la donna lamentarsi. Questo è quello che succede ad una certa età, quando gli stravizi non sono più all’ordine del giorno. Ho provato a scuotere mio marito, ma lui era letteralmente svenuto e così mi sono messa l’anima in pace e già stavo per scendere dal letto e rivestirmi per portare aiuto, quando un gemito di dolore diverso dagli altri mi ha insospettito. Gemito di dolore? Oddio, tutto era fuorché un gemito di dolore!
Insomma, con mio basito stupore, sono rimasta trasecolata nel rendermi conto che noi, baldi quarantenni, non riuscivamo a tenere il ritmo degli ottantenni! E quando l’ho raccontato la mattina dopo, si sono stupiti tutti, dicendo che avevo bevuto troppo e mi ero immaginata tutto, perché nessuno, dopo la serata trascorsa, era riuscito a rimanere sveglio per fare l’amore come io sostenevo avessero fatto i vegliardi. Era impossibile anche solo pensarlo. Ma alla mia insistenza, perché ero certa di quanto udito, visto che mi aveva tolto il sonno, i giovani si sono messi d’accordo per informarsi nel modi più discreto possibile sulla nottata trascorsa dai partenopei.
All’arrivo nel salone dei vegliardi, il nostro amico ha candidamente chiesto al signore:
-Trascorsa bene la nottata?-
Al che, l’ottuagenario che si era divertito a mangiare, bere, giocare e fare l’amore alla faccia nostra, ha risposto con un sorriso malizioso:
-Divinamente.-
Per poco non mi strozzavo con il mio cappuccino, mentre i nostri amici si lanciavano occhiate allibite e, neppure a dirlo, da quel giorno il ricordo di come i nonni ci avessero surclassato in tutto ci fa sorridere e sperare nell’emulazione negli anni a seguire.