mercoledì 28 gennaio 2009

Come convivere con uno sport sconosciuto - 5

Arriva il giorno in cui vostro figlio vi chiede un guantone tutto suo, che non sia quello che passa la Nuova Roma Baseball ed allora uscite di casa baldanzosi e vi recate al negozio di sport sotto casa.
La vetrina è stupenda: tutta giallorossa. E voi lì a rifarvi gli occhi, fissando incantati le magliette con sopra un enorme numero 10, le sciarpe, i calzini, le tute, gli accappatoi, i biberon ed i bavaglini… Sì, perché un romanista si vede da quando apre per la prima volta gli occhi sul mondo.
Poco più in là la vetrina diventa biancoceleste…
A quel punto sei tentato di fare dietrofront, ma poi pensi al tuo cucciolo che vuole il guantone e con un sospiro entri nel negozio.
C’è di tutto, perfino la tenda da campeggio e la mazza per fare hockey sul ghiaccio. Con un negozio così fornito, ti pare che non trovi un guantone?
Non lo trovi.
Anzi, la commessa non sa neppure di cosa parli. Proprio come parenti ed amici ed il chirurgo di cui sopra.
Provi a spiegare di cosa si tratta e lei continua a fissarti come se fossi un alieno appena sbarcato sulla Terra.
A quel punto ti rivolgi all’allenatore e lui ti spiega che a Roma esiste un solo negozio che vende articoli da baseball. E tu ci vai. E trovi di tutto, persino i portachiavi con un minuscolo guantone che agguanta una palla. Ottimo. Siamo nel luogo giusto.
Ma c’è un ma. I prezzi sono alle stelle e tu, se vuoi continuare a sfamare il tuo cucciolo, devi rinunciare al guantone.
Cosa fare?
Nettuno.
Orbene, questa ridente cittadina sul litorale tirrenico, meta di romani che vanno in villeggiatura e di sporadici turisti in visita a S. Maria Goretti, ti accoglie con un cartello dove campeggia la scritta BENVENUTI A NETTUNO, CITTA’ DEL BASEBALL.
Caspita! E’ proprio così. In un paese di mille anime (se ci arriva), esistono decine di campi di baseball, più lo stadio comunale dove gioca la serie A del baseball. In pratica, a Nettuno i bambini, anziché nascere con il pallone, nascono già con la mazza.
Un momento…
Ma Bruno Conti…
Eh, già, Bruno Conti, il grande. Proprio lui, che è nato a Nettuno e che da piccolo ha giocato a baseball prima di diventare uno dei più famosi giocatori della Roma. Il mitico Conti, che segue la primavera della Roma, che ha fatto emergere i vari Aquilani, De Rossi, Ferrari, Rosi, Okaka Chuka… e tu ricominci a sognare e ritorni indietro nel tempo, al 1983, quando la tua squadra ha vinto il secondo scudetto e tu, che andavi a fare gli esami di maturità, vedevi la città ricoperta di giallo e rosso…
Gesù benedetto, ma sono passati così tanti anni?
Ok, sorvoliamo anche qui.
Adunque, anche a Nettuno scopri che i prezzi sono astronomici. Allora che fare? C’è zio Marco.
Zio Marco?
Già, il mio fratellino che ha deciso di fare l’assistente di volo e spesso si trova a New York, capitale degli Yankees e dei Mets. E scatta la domanda:
-Quando capiti nella grande mela, mi riporti un guantone per Axel?-
-Che guantone?-
Ovvio. Pure lui rientra tra la schiera dei parenti di cui sopra. E allora ti metti a spiegare con santa pazienza e lui, quando si trova dall’altro capo del mondo, ti manda un messaggio, chiedendo:
-La commessa mi domanda se il guantone è per fare il ricevitore.-
E tu rispondi di no. E che non è neppure un guantone da prima base (perché ci sono grosse differenze a seconda dei ruoli), ma un normale guantone.
-Ma è destro o sinistro?-
E tu lì ti chiedi: ma che zio sei se non sai neppure se tuo nipote è destro o mancino? Ovvio che il guantone è sinistro, visto che Axel è destro.
-E che misura deve essere?-
A quel punto, a forza di messaggi, il guantone ti è già costato come quello di Nettuno.
Però il guantone arriva, ad un prezzo esiguo ed il migliore che esiste. E noi tutti contenti. Vedi? Riesci a vedere quanto siamo contenti?



Contenti?
Provate ad immaginare il periodo più caldo dell’anno, quando il Sahara è più fresco dell’asfalto di Roma, quando al posto del Colosseo intravedi il miraggio di una palma a ridosso di una pozza d’acqua, quando la metropolitana porta direttamente i passeggeri al pronto soccorso prima che svengano a migliaia, prova a sentirti contento quando tuo figlio se ne esce dicendo:
-Voglio andare al Camp di Rimini.-
Ora, raggiungere Rimini da Roma è come provare a fare la Parigi Dakar in un solo giorno. La temperatura è quella, circa 40° all’ombra, la strada è la E 45. E solo chi non l’ha mai fatta non può capire l’avventura. 400 chilometri ad andare, 400 a tornare, tutti in un giorno, per portare il cucciolo al camp del baseball che si tiene ogni benedetto anno.
Pertanto, ennesima alzataccia per poter arrivare all’ora stabilita, fare la trafila con i responsabili, accertarti che il cucciolo starà in buona compagnia, quindi rimontare in macchina e rientrare a Roma che è ormai notte. E ripeti il tutto, con somma gioia e magno gaudio, a distanza di una settimana, con la sola differenza che, al secondo rientro, tuo figlio puzza peggio di un gregge di pecore.
Ma non si è lavato?
Lavare? Che verbo è?
Ci ha provato, ma è assai più facile e sbrigativo svenire sul letto la sera anziché farsi la doccia e dormire sotto il getto d’acqua.
Ragazzi moderni.



Cosa posso dirvi se non che noi, romani amanti della Roma, abbiamo imparato ad amare anche il baseball e ad apprezzare lo sport per quello che è?
Avete mai fatto la scampagnata del primo maggio insieme ai genitori della squadra avversaria, ridendo e mangiando tutti insieme, anche se durante la partita ci guardavamo in cagnesco? E, dopo aver bevuto e mangiato la fava con il pecorino, mettersi a giocare al pallone ragazzi contro genitori? Sono belle esperienze, ve lo posso assicurare.
Pertanto, se un giorno vostro figlio/a vi dovesse dire:
-Mamma, papà, voglio giocare a baseball.- non prendetevela a male, ma accontentatelo.
L’importante, è che continui ad indossare una maglia ocra ed amaranto!

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lunedì 26 gennaio 2009

Come convivere con uno sport sconosciuto - 4

E poi giunge il momento in cui siamo noi a dover attaccare ed allora scende in campo la squadra avversaria per difendersi. Sì, sempre il solito discorso di prima: ora sono loro in nove e stavolta, a turno, c’è uno solo dei nostri figli sul piatto con la clava in mano.
E allora ti rifai di coraggio e pensi: ora gli rifiliamo cinque punti.
E invece no.
Come no?
No. Semplicemente no. A te pare facile scendere in campo da solo contro nove? Provaci.
Quello che gli avversari riescono a fare con semplicità, a noi pare insormontabile. Soprattutto se appena pronto il primo battitore della Nuova Roma Baseball, il lanciatore avversario ti rifila tre strike consecutivi, facendo strike out ed il nostro battitore si ritira scornato.
Fuori uno. Ne devono fare fuori tre per cambiare il turno.
Sì, ma ne abbiamo altri due.
E allora sotto a chi tocca: il secondo battitore. Stavolta ce la fa, raggiunge sicuramente la prima base…
E invece no.
La palla carambola, rimbalza sulla mazza e schizza come un missile sul naso del nostro battitore.
Sangue.
In un attimo vedi il cucciolo che macchia di sangue la divisa, il genitore che quasi sviene, il pronto soccorso che porta subito il ghiaccio e tampona la ferita. Niente panico: il naso non è rotto. Va tutto bene.
Tutto bene?
Provate a dirlo ai cuccioli che devono scendere in campo ed affrontare il killer che sta sul monte pronto a lanciare un’altra staffilata. Sono terrorizzati.
Onestamente: voi cosa fareste?
Vi risponde una che è finita al pronto soccorso per una di quelle micidiali palle che le è giunta in pieno stomaco. Sì, proprio così.
Il bello è stato al pronto soccorso. Ricordate la faccia di parenti ed amici quando ho menzionato il baseball? Orbene, quando il chirurgo mi ha visto, mi ha giustamente chiesto cosa fosse accaduto. Ed io, dolorante, piegata in due dal dolore, senza fiato per la botta ricevuta, bianca come una mozzarella, gli ho risposto candidamente, esanime:
-Una palla da baseball in pieno stomaco.-
-Una palla da baseball? E come è fatta?-
Ora, provate ad immaginarvi chinati in due dal dolore, il fiato che non c’è e lui, il chirurgo con tanto di laurea in medicina, pronto ad aprire in due una persona senza farla morire, che vuole che gli spieghi com’è fatta una palla da baseball!
Ma benedetto Iddio, oltre alle facce attonite di amici e parenti, mi toccava pure il chirurgo che non aveva idea di come fosse una palla da baseball!
Lì, in quei momenti in cui intravedi un barlume che potrebbe essere un angelo del paradiso che ti viene a prendere, torni a ripeterti: non era meglio il calcio? Una pallonata non ha mai spedito nessuno al pronto soccorso e nessun chirurgo al mondo ti avrebbe chiesto com’è fatto un pallone.
E sia. Per i nostri cuccioli questo ed altro. Tanto altro.
Come quando si avvicina il campionato.
Chi segue il calcio, sa che il campionato inizia a fine estate e termina in primavera, abbracciando l’intero autunno e tutto l’inverno. Pertanto, quando vai allo stadio sai come vestirti e soprattutto ti copri bene quando si è sotto zero.
Il baseball inizia il campionato ad aprile, per terminarlo a settembre, alle due di pomeriggio.
Sì, avete letto bene: quando il caldo è mite, ossia 40° all’ombra, tu stai lì e boccheggi. E, se per una malaugurata sorte soffri di ipotensione, inizi a credere che prima o poi ci lasci le penne e ti senti morire lentamente. E strofini gli occhi per vedere questi cuccioli che sgambettano, grondanti sudore come fontane, soprattutto il ricevitore, bardato come un cavaliere medievale per evitare brutte e traumatiche collisioni con la palla.
E per tutto il pomeriggio stai lì, ad arrostire come un gambero, perché le partite durano nove inning.
Sapete quanto dura un inning? Ne avete la più pallida idea? Allora vi basti sapere che le partite degli adulti durano quattro ore e passa.



E tu stai lì, ad arrostire. E torni a ripeterti per l’ennesima volta; ma non era meglio il calcio? E ti volti ed invidi i genitori di quei bambini che hanno deciso di praticare lo sport nazionale, dove tutti sanno di cosa parli, tutti conoscono le regole, tutti sanno fatti e misfatti di ogni singolo giocatore ed a nessun chirurgo al mondo verrebbe in mente di chiederti com’è fatto un pallone.
Non sarebbe stato tutto più semplice?
Prova a spiegare cos’è il dogout, cos’è lo scorer (io l’ho fatto!), prova solo a dire baseball e la gente ti guarda come se avessi appena bestemmiato in inglese.



Poi arriva il giorno della trasferta.
Tu che non vivi a Roma, sai cosa vuol dire il rientro la domenica sera? No? Ok, proverò a spiegare.
Adunque, oltre l’alzataccia ed il viaggio in macchina che ti porta in un mondo sconosciuto, che non ti sarebbe mai venuto in mente di visitare perché ne ignoravi perfino l’esistenza, ti ritrovi a vedere non meno di tre partite. Perché? Presto detto: si giunge al campo sconosciuto dopo aver litigato con il navigatore, ti sorbisci la prima partita che stanno giocando le due squadre del luogo mentre la Nuova Roma Baseball si riscalda; quindi giochiamo noi. Dopodichè si pranza, quindi nuovamente in campo per subire l’ennesima sconfitta.
E intanto, come per magia, rispunta fuori la mitica radiolina che si tiene incollata all’orecchio e provi, attraverso le urla dei genitori più scatenati, a sentire cosa fa la Roma e ti esalti od imprechi a seconda dell’azione che ti spiega lo speaker e tutti i genitori lì vicini pensano che ti stai esaltando per la partita di baseball. Magari la Roma quella domenica perde pure e tu ti arrabbi, ma devi far finta di nulla perché magari vince la Nuova Roma Baseball!
Però i nostri cuccioli si sono divertiti ed è questo che conta. Infine si rimonta in macchina, abbrutiti da una domenica trascorsa interamente fuori casa, fermi nello stesso posto a grondare sudore e non vedi l’ora di farti la doccia e metterti a letto.
E invece no.
Invece te ne stai incolonnato in mezzo a tutti coloro che hanno deciso di fare il famoso pic nic fuori porta e smadonni perché per fare cento chilometri ci impieghi tre ore! Fai prima a piedi, credimi.
Allora inizi a pensare che forse è il caso di cambiare casa, di andarsene via da Roma, di mollare tutto e trovare un ambiente più a misura d’uomo.
Ma poi ti ritrovi davanti il Colosseo, S. Pietro, i Fori Imperiali, l’Altare della Patria e ti si stringe lo stomaco e ti convinci che non potresti mai lasciare la città eterna.



Ci siete ancora? Proviamo a ricapitolare?
Ad ogni inning le due squadre scendono in campo, una volta in attacco, una volta in difesa ed il cambio squadra si fa quando vengono eliminati tre battitori della squadra che sta in attacco. E’ quindi, il battitore, o batter, che fa i punti e che, al momento della corsa diventa corridore o runner. Può venire bloccato in una delle tre basi dalla difesa e può essere eliminato anche se si trova in terza base, basta che uno dei giocatori in difesa lo tocchi con la palla mentre sta con i piedi fuori della base.
Bene. E’ tutto qui. O quasi.
In realtà sarebbe solo l’inizio, ma già vedo che iniziate a sbadigliare e quindi ritengo più saggio sorvolare.

giovedì 22 gennaio 2009

Come convivere con uno sport sconosciuto - 3

Il bello è che quando vedi entrare in campo la tua squadra, ti chiedi dove sia l’altra: che non c’è.
Ora, la domanda è d’obbligo: se sul diamante entra solo una squadra, contro chi diavolo giochiamo? Ce la cantiamo e ce la suoniamo tutta da soli? Sembrerebbe di sì.
E invece no.
Tu non lo sai, ma sta per scatenarsi l’inferno.
Come? Semplice, come E=mc².
Adunque, uno, uno solo degli avversari entra baldanzoso in campo, brandendo la mazza coma la clava di cui sopra. E tu lo vedi e ridi.
Ridi, sì, perché pensi: costui vien da solo a battersi contro i nostri nove? Lo faremo a pezzettini.
E invece no.
Quello che mi sono sempre chiesta quando vedevo i film americani, era come si potesse pensare di poter prendere una palla da tennis con una mazza sottile.
Impossibile.
Se poi provi a pensare che la palla in questione ti arriva addosso con una velocità da fare invidia ad una macchina in corsa, ti ripeti che è matematicamente impossibile.
E invece no.
Questo sport sembra andare contro tutte le leggi della fisica, con buona pace di Einstein.
E invece no.
E te ne accorgi quando l’unico, il solo giocatore avversario si posiziona sul piatto, la cosiddetta area di strike e riesce a battere la palla ed a correre in direzione della prima base.
L’avversario corre. E i nostri che fanno?
Gli esterni! Finalmente è giunta la palla ad uno degli esterni che stava beatamente raccogliendo la cicoria. Ed è allora che vedi il nostro eroe correre a capo fitto per cercare di prendere al volo la palla, in modo tale da eliminare il battitore che, nel frattempo continua a correre verso la prima base e, per questo, ora si chiama corridore.
Buttarsi a capo fitto? Ma figuriamoci!
Il cicorione sta lì, sperando che la palla abbia il buon senso di entrare da sola nel guantone. E non entra. Allora si china per prenderla, ma pare che il guantone sia bucato ed allora la palla gli ruzzola tra le gambe. E quando, infine, riesce a prenderla in mano e, riconosciuto l’oggetto misterioso, la solleva a mo’ di trofeo, alza lo sguardo e si accorge che il corridore continua la sua corsa, alcuni suoi compagni si sbracciano per mettersi in mostra, altri si girano per timore di ricevere la palla e lui non sa a chi darla. La lancia al più vicino, che prova a prenderla con l’entusiasmo di un condannato a morte, ma non ci riesce, anche il suo guantone è bucato e la palla ruzzola di nuovo ed il corridore corre e tocca la prima base e noi genitori urliamo:
-Fermate quella palla!-
E l’allenatore urla a sua volta di lanciare in seconda base per bloccare la corsa vittoriosa del corridore.
Ora, tu genitore, pensi sgomento che l’avversario abbia fatto il punto, perché è giunto in prima base e ti disperi: se arriva in seconda base fa il secondo punto e così via.
E invece no.
Come no? Non si fanno punti in questo gioco? Ma allora perché il tizio corre e gli altri si sgolano?
Ebbene, il punto, il misero punto, in questo gioco si fa quando il corridore tocca di nuovo casa base. Pertanto, lui può anche affannarsi a correre da una base all’altra, ma fintanto che non torna sul piatto dove ha battuto, non fa punto.
Be’, allora c’è speranza.
In fondo, tornando a calcoli matematici che variano a seconda della velocità del battitore/lanciatore, i nostri piccoli cicoriosi bambini hanno circa 5 secondi per: vedere la palla, lasciare la cicoria, cercare la pallina che nel frattempo continua a rotolare, prenderla, riconoscerla, salutarla, sollevarla, sentire le urla dell’allenatore, lanciarla nel posto sbagliato, riprenderla e lanciarla al compagno sbagliato, il quale, sorpreso, dovrà rielaborare i dati e decidere in base agli insulti ricevuti dal suo allenatore ormai in preda al delirio, dove mandarla.
Nel frattempo vedi l’avversario involarsi verso casa base, mentre i nostri giovani leoni continuano nella ricerca della strategia mirata a contenere quella cavalcata delle Walkirie. Ma Brunilde torna a casa base e porta a casa il misero punto.
Caspita. Uno solo contro nove è riuscito a fare punto. Una simile cavalcata in gergo, se la palla colpita non fosse ricaduta in campo ma fosse andata oltre, si chiama home run. E di questi home run il Joe di Maggio di cui sopra ne ha fatti tanti, ma tanti, ma tanti, spedendo ogni volta la palla in mezzo al pubblico. E la bella Marilyn Monroe ci ha visto lungo a sposarselo.
Ordunque: prima mazzata tra capo e collo.
Ma ora ci rifaremo. Abbiamo nove inning.
Inning?
Sì, inning. Nove tempi, praticamente.
Ora, voi capirete bene che noi romani, abituati all’unica parola inglese che è goal, ci siamo trovati spiazzati da tutto un gergo americano che all’improvviso ci è caduto sulle spalle e tu, per non fare la figura dell’ignorante, la sera a casa ti sei andato a rispolverare il tuo inglese scolastico fatto di semplici frasi tipo: buongiorno, mi chiamo Tizio, abito a Roma, come stai, e altre banalità del genere.
Finché c’è da rimorchiare la turista alta, bionda, con gli occhi cerulei, una svedese che pure in pieno inverno se ne va in giro per le vie di Roma con i pantaloncini e le mezze maniche, va bene, è più che sufficiente, sebbene per certe cose si usi un linguaggio universale. Ma per altre cose…
Come? Come dite? Non è necessario neppure quel poco? Devo essere proprio attempata se sono rimasta così indietro con i tempi. Va bene, concesso.
Ora, torniamo alla svedese coscia lunga di due metri, vi chiederete: come fa a non congelarsi? Ok, ok, non è questa la sede.
Dunque, a noi romani basta veramente poco di inglese, perché siamo molto attaccati alle nostre origini ed amiamo oltremodo la nostra lingua, tanto da non volerne imparare altre. Del resto, come poter fare a meno dei vari:
-L’anima de li mortacci tua!-
-Ancefalitico!-
-Sto fio de ‘na mignotta!-
-Annamo lì, annamo là, famo qui, famo là…-
Volete mettere? Noi romani adoriamo l’italiano… Magari troviamo un po’ di problemi con internet, quando ci torna indietro una e-mail con un messaggio in inglese dove ci avvertono che l’indirizzo è errato e la lettera è tornata indietro. Rimaniamo ore in contemplazione di quel messaggio, sbattendo gli occhi e chiedendoci cosa diavolo significa.
Però internet è bello. Ci trovi di tutto. E tutto in inglese.
Un momento… A pensarci bene, ci trovi pure il baseball! Allora, sempre per non fare la figura del troglodita, inizi a digitare sulla tastiera tutto ciò che concerne questo sport e trovi pagine e pagine tutte in inglese e allora strabuzzi gli occhi, ti munisci finalmente di vocabolario e cominci a sfogliare le pagine: strike, ball, out, faul, pick off, bunt, home run, batter, pitcher, catcher, runner, inning…
Caspita, ma non finisce più? Non era più semplice goal? No, perché se non ci complichiamo la vita non siamo contenti.
Ma torniamo al diamante.
Se qualcuno vi dicesse:
-Come stai a casa?-
-Bene, grazie.- è la risposta ovvia.
E invece no.
A quella risposta vedi il coach che si arrabbia come un bufalo e ti ripete la domanda. E tu, che ti trovi sul piatto di battuta, con la clava sulla spalla, ti chiedi dove hai sbagliato. Perché sicuramente hai sbagliato, altrimenti il coach non si sarebbe imbufalito. Allora ci pensi un po’, fai mentalmente l’elenco di tutte le malattie di cui soffrono i tuoi parenti e giungi alla conclusione che, sicuramente, il tuo allenatore sa che qualcuno a casa sta male.
-Be’, in effetti, mia nonna soffre di emicranie…-
Bontà divina!
Il coach sbatte il berretto per terra e tu, per contrasto con l’amaranto della divisa, diventi cinereo.
L’allenatore altro non vuole sapere che punteggio hai. Ossia: quanti strike e quanti ball . Ovvio.
Che vuol dire? Mi porto a casa gli strike ed i ball?
No, semplicemente a tre strike il battitore è eliminato ed a quattro ball guadagna la prima base.
Ah, ora è chiaro. Non c’entravano nulla le malattie in famiglia. No, decisamente no.

martedì 20 gennaio 2009

Come convivere con uno sport sconosciuto - 2

A questo punto, dopo aver stupito amici e parenti con effetti speciali, vi mettete lì di impegno a cercare di capire cosa ha spinto il vostro cucciolo ad optare per questo sport.
Prima mossa: gli allenamenti.
E fin qui mi pare che siate tutti concordi: non si può non andare a vedere gli allenamenti del bambino.
E l’impatto è notevole: il campo da baseball è almeno tre volte un campo di calcio.
Ora mi domando: se su un campo di calcio riescono a stare belli comodi ventidue giocatori tutti insieme, muovendosi tutti insieme, bestemmiando tutti insieme, litigando tutti insieme, perché diavolo un campo di baseball deve essere tre volte tanto per farci stare solo nove giocatori?
Sì, nove, avete letto bene: meno di una squadra di calcio.
E ti ritrovi a strizzare gli occhi per cercare di individuare gli esterni, perché ti ci vogliono dodici decimi per riconoscere se quel puntino che gioca laggiù, nell’altra nazione, è tuo figlio o no. E se è lui, ti ringalluzzisci, gonfi il petto come un pavone e ti metti a guardarlo mentre sta… praticamente fermo, senza far nulla. Se ne sta laggiù, lupo solitario, con un guantone in una mano, in attesa che gli giunga una pallina.
Sì, una pallina.
Ora, mi sembra giusto che, un campo tre volte tanto uno di calcio, anziché avere una mongolfiera (perché lo spazio ci sarebbe, eccome!) abbia una pallina che è della grandezza di una palla da tennis.
A questo punto cadono tutte le certezze che finora ti hanno retto per un’intera esistenza. Non sai neppure chi sei! Ti viene il dubbio e ti guardi allo specchio e ti sbirci e dici che forse non sei tu, perché ci sono parecchie rughe che prima non avevi notato. E per una donna questa è una mazzata non indifferente.
A quel punto ti chiedi per l’ennesima volta: come fai ad individuare una palla così piccola in un campo così grande? E poi scopri che tutti i giocatori di baseball alla fine mettono gli occhiali! Be’, forse ho esagerato, ma era per rendere l’idea.
Comunque il dubbio ti rimane (anche su chi sei!) e tu, spettatore, se per disgrazia soffri di miopia, riesci solo a vedere nove persone che si muovono senza un filo logico.
Ci siete ancora? Riuscite a seguirmi? Non è facile, lo so. Se vi svelassi che la sottoscritta si è imparata le regole da un manuale tutto scritto in inglese ci credereste? Ebbene sì, ho ancora le fotocopie nel cassetto. Ma questa è un’altra storia.
Torniamo al cucciolo che si sta allenando con i suoi compagni.
Mentre loro giocano e si divertono (sembra incredibile, ma vi assicuro che è così), tu stai lì, insieme ad altri genitori che sbirciano il campo in religioso silenzio. Sì, perché all’inizio il silenzio è d’obbligo: di che cavolo vuoi parlare se non sai cosa stai guardando? Allora azzardi furtivo un’occhiata al genitore che ti sta accanto e provi a decifrare la sua espressione assorta. A quel punto ti rianimi, ricordi chi sei, ti rincuori non poco, perché capisci che anche lui/lei non ci capisce nulla. E’ già qualcosa che ti unisce.
-Salve, io sono Nica.- mi presento.
-Salve, io sono…-
Ed in questo modo impari a conoscere i vari genitori che saranno tuoi compagni in questa bellissima avventura.
Il “bellissima” è eccessivo? Ok, ridimensioniamo: in questa avventura.
E mentre provi a capire con loro il perché il destino abbia infierito così duramente sulle nostre povere teste… pardon, volevo dire, mentre provi con loro a capire il perché di tante mosse da parte dei giocatori, ti arrivano alle orecchie parole tipo:
-Batti! Alza il gomito! Ruba! La trappola!-
Mio Dio! Mio figlio si deve prostituire! Deve bere! Deve diventare un ladro! E’ caduto in trappola!
Il panico!
Ma non era uno sport? E lì ti prende la sindrome dei sensi di colpa. E’ colpa mia se l’ho segnato qui. Doveva fare calcio.
Buoni, buoni, nulla di tutto questo.
Con il tempo, dopo che sei stato per due ore e passa (tanto dura un allenamento) a tenere d’occhio tuo figlio, ti accorgi che questi termini hanno tutto un altro significato e quasi ti piglia un colpo apoplettico per il sollievo.
Batti sta per battere (anche se alle bambine sarebbe più carino dire “cerca di colpirla amore!”), ovviamente quando ti trovi sul piatto di battuta e te ne stai lì come un cavernicolo, con la clava… pardon, la mazza in mano, pronto ad aggredire la pallina.
Alza il gomito non sta a significare che, per giocare, ti devi per forza ubriacare, ma tenere il braccio alzato quando brandisci la clava di cui sopra.
La trappola è un gioco tra due basi, quando il giocatore avversario si trova stretto tra i due giocatori delle due basi e non sa come fare a salvarsi.
Ruba sta per… rubare, nel vero senso della parola, ma non quello che pensate voi, bensì le basi, quelle che formano il diamante. No, non vuol dire che devi rubare un diamante! E’ così che si chiama il campo di baseball: diamante.
Perché? Semplice: le tre basi più casa base sono disposte a forma di rombo, per cui il nome di diamante. E gli esterni? Quelli sono sempre là in fondo, in attesa che giunga una pallina da prendere e rilanciare.
Tutto qui?
Già, tutto qui.
Non a caso nelle prime partite i nostri esterni, Axel compreso, si divagavano raccogliendo fiori e facendo cicoria, mentre gli altri sul diamante cercavano di fare la partita.
Probabilmente gli esterni non sapevano nemmeno il risultato finale della partita.
Ma che razza di gioco è? Raccogliere fiori?
E’ un po’ il concetto del nostro Doni quando se ne sta tra i pali ed attende che giunga un pallone e, visto e considerato il muro che si trova davanti (leggi: Panucci, Mexes, Chivu e Tonetto) quando cavolo gli giunge mai un pallone? Allora passeggia tra i pali e attende. Forse, tutto sommato, anche Doni avrà tempo di raccogliere fiori e cicoria.
Ma torniamo a noi.
I nostri giovani leoni ci mettono tutto l’impegno e la gagliardia della gioventù in questo loro sport che imparano a conoscere sul diamante.
Sì, perché neppure loro sanno molto bene cosa stanno facendo. Anzi, secondo me non lo sanno proprio.
Avete capito bene. E ve ne accorgete durante una partita di campionato, quando vedete la squadra avversaria padrona del diamante, consapevole di come muoversi, mentre i nostri impazziscono, si guardano perplessi e, se disgraziatamente giunge la palla, pare che si scottano al contatto (detta anche sindrome della granata Fantozziana) e non sanno a chi tirarla. E lì senti l’allenatore urlare:
-Al lanciatore!-
Quale lanciatore? In campo lanciano tutti, vedi tutti che tirano questa benedetta palla dalla prima base alla terza, oppure a casa base dove si trova il ricevitore; oppure ancora in seconda, dove ne trovi due di giocatori… Sì, perché, a complicare maggiormente le cose, esiste l’interbase.
L’interbase? Stiamo su Star Trek?
No, stiamo precisamente tra la seconda e la terza base, latitudine e longitudine ve li dirò poi, quando ci avrò capito qualcosa.
Ok, vedo che vi siete persi. E avete ragione e tutta la mia comprensione. Forza Roma!
Come posso spiegarvi una cosa complicata con parole semplici?
Se solo ci fosse Einstein… Lui aveva semplificato tutto con quel semplice E=mc². Tutta la teoria sulla relatività, formule su formule lunghe un intero libro, semplificate con E=mc².
Banale. Ovvio.
Ma che cavolo vuol dire E=mc²? Sono sicura che almeno una volta nella vita ce lo siamo chiesto tutti. E poi scopri che E sta per energia, che si ricava dal prodotto di m che è la massa e c che è la velocità della luce elevata al quadrato.
Bello. Bellissimo.
Ma noi comuni mortali cosa ce ne facciamo? Noi, proprio io e te, nulla.
Pertanto, torniamo al diamante e vediamo come scendono in campo i nostri nove lupacchiotti. Sul monte il lanciatore; a casa base il ricevitore, poi il prima base, il seconda base, il terza base, l’interbase, l’esterno sinistro, l’esterno centro e, nono, l’esterno destro. Proverò a fare un disegno (che Dio me la mandi buona!).

Ecco: avete scoperto che non sono brava a disegnare. Passiamo oltre.

lunedì 19 gennaio 2009

Come convivere con uno sport sconosciuto - 1

A tutti quei ragazzi che con passione hanno indossato e continuano ad indossare la divisa della
NUOVA ROMA BASEBALL

Come convivere con uno sport sconosciuto

Peripezie di una normale famiglia romana



Roma.
Sì, Roma. Avete presente la maestosa, bellissima, imponente, imperiale e papalina città eterna?
Proprio lei.
Certo, ora ha solo un vago ricordo della sua imperiale grandezza, ma continua ad incipriarsi il muso come una vecchia ed attempata signora ed a mostrar quello che le rimane dei maestosi monumenti sopravvissuti a tremila anni di storia.
Chi non sogna, almeno una volta nella vita, di vedere Roma ed il suo pesante carico di storia? Chi non ha mai sognato di vedere il biondo Tevere (che di biondo non ha nulla), la grandezza del Colosseo, lo splendore di S. Pietro, la mole di Castel S. Angelo, i Fori Imperiali, la lupa che allatta Romolo e Remo? Tutti sognano di vedere Roma. Anche noi romani ci sogniamo di vederla.
Ab Urbe condita.
Per chi ci vive le cose vanno in maniera diversa. Le macchine hanno preso il posto dei cavalli e le famose strade consolari ora sono solo un pallido riflesso delle grandi vie di comunicazione intasate e caotiche. Sì, perché a Roma si muore di smog. Non si muore più di daga o di pugnale: si crepa di smog e non puoi prendertela con nessuno, perché, se prima potevi rendere l’anima al Creatore con la magra consolazione di vedere in faccia il tuo assassino, oggi è lo smog assassino che urla la sua innocenza, lasciando credere a tutti che ti sei lasciato assassinare.
Ma Roma è Roma ed io ci vivo da una vita. Mio marito, poi, non potrebbe essere più romano di così: Marco Licio. E neanche a farlo apposta, il cognome, visto e considerato il nome, ha una risonanza imperiale: Fabi.
Direte: e allora?
Un po’ di pazienza, solo un po’ di quella pazienza che noi, civilizzati e progrediti, non abbiamo più.
Adunque, credo che fin qui sia chiaro a tutti che siamo una famigliola di Roma del ventunesimo secolo.
Ora, come in tutte le famiglie del mondo, vige il consueto quanto religioso momento della domenica.
La messa?
Veramente la messa c’entra ben poco, se non vogliamo elevare (rischiando una scomunica) agli onori degli altari Totti e Co.
Perché è la Roma, la Magica, a monopolizzare le nostre domeniche e non le gesta del Cristo (che Iddio mi perdoni!).
Sì, lo so, so bene cosa state pensando: non si gioca più solo la domenica pomeriggio, ma esistono un anticipo ed un posticipo. Ma io vorrei poter credere che esiste ancora quell’unico momento che era la domenica pomeriggio di glorioso ricordo, quando si andava a fare il famoso pic nic fuori porta con le radioline incollate all’orecchio. Sì, perché all’epoca non esistevano le partite in TV e per vedere un goal dovevi per forza di cose andare allo stadio, o attendere pazientemente 90° minuto, quando il caro vecchio Valenti ti metteva al corrente di tutto. Di tutto poi non si sa, visto che i risultati si sapevano già. Ma i miliardi del calcio fanno di questi miracoli di cui tu non sapevi di aver bisogno.
Ma torniamo a noi.
Anche questo mi sembra chiaro come il sole: la nostra famigliola, ragazzo compreso, ha un cuore giallorosso, sebbene su questo io abbia una certa reticenza, visto e considerato che i colori di Roma sono ocra ed amaranto. E allora, perché diavolo ci si ostina a chiamarli giallorossi? E pensare che pure il mio grande amore, Cesare Borgia, aveva rivestito il suo esercito con una cotta d’arme oro ed amaranto, i colori della città eterna. Oggi sembriamo più leccesi che romani!
Colori a parte, quando gioca la Magica, in casa scende un religioso silenzio, la pressione schizza alle stelle peggio di un salto di Doni tra i pali, gli occhi si spalancano come due palloni ed il cervello si sveglia dal letargo lavorativo e si mette in moto per cercare di capire la tattica del grande Spalletti. Ci manca solo l’odore della cera sciolta e dell’incenso e poi è come stare a messa… che Iddio non me ne voglia neppure stavolta!
Orbene, in una casa romana, con un marito che più nome romano di così non poteva avere, dove si palpita per un rigore di Totti andato a male o per il bel codinzolo biondo del francesino Mexes (che a me pare più un panzer che un delicato francese), orbene, in questa casa dove sventola la bandiera della Roma e dove tuo marito scrive su un giornale romanista, c’è qualcosa che stona.
Axel.
Chi è Axel?
E’ il cucciolo di casa, nostro figlio. Ma badate bene, non è il suo nome celtico, che di romano non ha proprio nulla, a stonare, un nome che riporta alle menti orde barbariche ed incursioni vichinghe, bensì la scelta di praticare uno sport.
Perché è giusto ed indispensabile, quanto mai salutare, che i nostri figli facciano movimento, considerata l’era in cui viviamo.
E allora, sull’onda di gioia che ci procura la Roma, con i suoi vari Mancini, Taddei, De Rossi, Montella, Aquilani, Perrotta e Co, Axel ha scelto bene di praticare il baseball.
Ma no, il calcio.
No, no, avete letto bene: il baseball.



Baseball.
Che diavolo vuol dire? Che cos’è?
Non c’è il pallone. E questo ha insospettito Marco Licio. Non ci sono le porte; e questo ha fatto drizzare i capelli a Marco Licio. Ma allora, se non c’è un pallone, se non ci sono le porte, come diavolo si fa a segnare?
Con calma. Con molta calma.



Ricapitolando: noi genitori, così come gli altri genitori che abbiamo avuto il piacere di conoscere sul campo, ci siamo ritrovati con dei figli che hanno pensato bene di tifare Roma ma di giocare a baseball.
Il problema è: come diavolo fa a venire in mente ai bambini romani, infarciti di calcio, bombardati di calcio, con amici che giocano a calcio, con genitori che vanno a vedere le partite di calcio, di decidere di giocare a baseball?
Bella domanda. E la risposta è ovvia: colpo di fulmine.
Non avrei mai creduto, il primo giorno di allenamento, sentire accogliere mio figlio con queste parole dal suo allenatore:
-Vuoi diventare anche tu un malato per il baseball?-
Malato per il baseball? Ma figuriamoci! Ero pronta a giurare che, visti i precedenti tentativi in altri sport, non sarebbe durato un mese o poco più.
Sette anni…
Sette lunghi anni di baseball.
E non accenna a voler smettere. Qualcosa mi sta suggerendo all’orecchio che forse non gli piace il calcio.
Suppongo che, se a mio marito non è venuto un infarto all’epoca, non verrà più.
Ebbene sì, da sette anni trascorriamo le domeniche non più a vedere la Roma di Spalletti, ma a vedere la Nuova Roma Baseball.
Be’, dove poteva finire un figlio di romanisti se non nella squadra capitolina con i colori ocra ed amaranto? Se non altro questo è consolante, perché se avesse optato per la Lazio del baseball…
Sorvoliamo.
Quindi, le domeniche ora sono riservate alle partite di baseball e quelle della Roma ce le sogniamo. Così come ci sogniamo la città.
Ma voi, dico voi, avete un’idea, una pallida idea di cosa sia e di come si svolge una partita di baseball? Noooo???!!! Ma in che mondo vivete? Non avete mai visto Walter Matthau ed i suoi Orsi? Nooo???!!! Suvvia, i film americani sono spesso infarciti di baseball, ne ha fatto uno pure Madonna.
No, non la Madonna (e che non si legga come imprecazione, per amor di Dio!), ma Madonna, la pop star. Sì, proprio lei. Ancora nulla? Be', come noi, del resto.
Ebbene sì, pure noi, a nostro tempo, quando ci capitava di vedere un film dove c’era una scena di baseball e tutti si accaloravano, dove i giocatori correvano all’improvviso, tornavano indietro, o venivano eliminati, ci siamo sempre chiesti: che diavolo vuol dire?
E poi, il bellissimo Rain Man, chi di voi non l’ha visto? Dustin Hoffman continuava a ripetere come una litania:
-Chi è in prima base?-
Chi è in prima base? Ma che cavolo voleva dire? Prima base? Che diavolo era?
E poi la risposta illuminante, grazie alla decisione di Axel di giocare a baseball.
Io, comunque, non saprei da dove iniziare a spiegare questo gioco che, imparate le regole, ti fa innamorare.
E poi, siamo sinceri, alle recenti olimpiadi di Torino, quanti di voi, di fronte ad un giurassico ferro da stiro lanciato alla velocità di un bradipo, dove omini coscienziosi spazzolavano energicamente per farlo scivolare su un pavimento extralucido, quanti di voi, mi domando, non si sono chiesti se quello sport non fosse stato inventato da casalinghe disperate? No, non il telefilm, non fraintendete! Eppure il curling è diventato di dominio pubblico, perché le regole erano semplici e noi tutti lì, con la bocca aperta a guardare i ferri da stiro scivolare placidi per andare a fare il punto.
Ma il curling è facile.
Il guaio è che non esiste al mondo sport più complesso ed articolato del baseball. Lo ha ammesso lo stesso Einstein, che pure era un cervellone. E noi, miseri mortali, se non ci ha capito nulla lui, come possiamo solo osare pensare di riuscire dove lui ha fallito?
Ma io dico, benedetto il Signore, noi romani di sette generazioni, attaccati alla nostra città come una cozza allo scoglio, attaccati alla nostra squadra come un naufrago alla zattera… ritrovarci a fare i conti con il baseball, che di romano non sa neppure se è un aggettivo od un nome. Come si fa?
Ed a questo punto bisognerebbe stilare un manuale per la sopravvivenza. Sì, perché proprio di questo si tratta: sopravvivenza. Altrimenti, come spiegare la faccia ridente di parenti ed amici quando, con estremo candore, ti chiedono:
-Che sport pratica Axel?-
E tu rispondi soave, come se fosse la cosa più naturale del mondo:
-Baseball.-
E loro, entrambi i sessi nessuno escluso, ti fissano sgranando gli occhi e rispondono attoniti:
-Baseball?- come se fosse un serpente velenoso.
-Sì, baseball.-
E lì, certi di aver udito bene, nascondono la sorpresa e l’ignoranza dicendo:
-Che sport particolare!-
E tu lì, che li spii da sotto le ciglia e vorresti gridare:
-Lo so che non sapete neppure di cosa sto parlando! Non fate i sapientoni!-
E poi c’è il solito parente od amico che ti dice:
-Ma il calcio no?-
A quel punto, se ci fosse stato Walt Disney al tuo fianco, sopra la tua testa avrebbe disegnato fulmini e saette.
Infine c’è il sapientone che quando ti rincontra, per far bella figura ti domanda:
-Allora, come va Axel con il basket?-
Eh, sì, basket. E ti chiedi: che diavolo c’entra il basket con il baseball? Forse perché entrambi iniziano per B? Ma esiste anche il bowling che inizia per B, la boxe, il bob, le bocce… Allora che fai? Ti metti a spiegare al sapientone le differenze tra i due sport? Ti conviene spararti, fai prima.
A quel punto ti convinci che sicuramente dietro a tutto ciò esiste un disegno superiore, un disegno divino, il karma. Perché solo una volontà divina può aver deciso di far praticare uno sport simile a tuo figlio. E allora ti sorge spontanea l’altra domanda: se così deve essere, per quale recondito motivo? Forse perché deve diventare un novello Joe di Maggio? O un secondo Mike Piazza?
Sì, sì, buoni lì, lo so che non conoscete i nomi, ma vi assicuro che sono due grandi della Major League americana.
Major che?
Non avete capito? Perdonate la sbadataggine: sarebbe come la serie A del nostro campionato. Ricordate? Totti e Co.
Vi siete persi? Ok, un attimo di riflessione.