lunedì 25 maggio 2009

Roma vista da me

CICERUACCHIO (Angelo Brunetti)
(Roma, settembre 1800 - Porto Tolle, 10 agosto 1849)


A Roma non piove molto, ma quando il cielo decide che è ora di piangere, ne manda giù talmente tanta che noi romani diventiamo scemi. No, non scherzo. Noi siamo avvezzi al sole, ci crogioliamo sotto la sua luce e non conosciamo nebbia, neve, bora né nubifragi. Siamo un po' come le lucertole, usciamo solo con il bel tempo e, visto che c'è sempre il sole, usciamo sempre. Ma quando piove… Quando piove e siamo costretti a mettere il muso fuori di casa causa lavoro, noi romani impazziamo. Se con il sole siamo soliti usare gli autobus e la metro, con la pioggia montiamo tutti in macchina, terrorizzati all'idea che una singola goccia d'acqua possa bagnarci. E allora vedi l'Urbe divenire un'immensa pozzanghera, straripare di autovetture incolonnate per ore per giungere a destinazione, con gli automobilisti che smadonnano e si insultano reciprocamente, dando la colpa al tempo se fanno tardi. E' follia, ma è sempre così. Quando piove, Roma va in tilt. Figuriamoci se dovessero scendere due fiocchi di neve…
Osservo in silenzio le macchine incolonnate, imbottigliate nel caos cittadino, mentre me ne sto sotto l'ombrello in attesa che arrivi l'autobus che mi conduca al lavoro, stando bene attenta a non farmi schizzare dalle macchine che passano sulle buche piene d'acqua piovana. Alcuni vigili provano a sfidare l'ira degli automobilisti, ricevendo in cambio insulti e minacce sussurrati a fior di labbra. Solo un singolo essere sorride divertito, un uomo che mi sta vicino, senza alcun riparo e guarda con sommo disprezzo la follia che scivola dinanzi ai suoi occhi. Lo sbircio e mi accorgo che, a dispetto della pioggia, è asciutto e veste un po' dimesso. Lo osservo meglio e subito dopo sgrano gli occhi, esclamando:
-Ciceruacchio!-
Lui si volta a guardarmi e sorride, illuminandosi in quel volto rotondo che ispira fiducia e tranquillità
-Ma tu guarda 'sti romani di oggi!- esclama con il suo forte accento romanesco.
-Ai tuoi tempi era diverso.-
-Lo puoi dire forte, ragazza mia! E non c'era neppure questo rumore assordante al quale voi vi siete assuefatti. Tutt'al più si potevano udire gli strilloni in Campo Marzio, o a piazza Navona, o lo stridio delle ruote delle carrozze sul selciato oppure il calpestio degli zoccoli dei cavalli. Tutto questo…- e fa un gesto con la mano, -roboante rumore non c'era.-
-Si viveva meglio, eh?- commento divertita dalla sua aria schifata.
-Eccome!-
Esito un attimo, quindi abbasso il mio ombrello e mi accorgo che la pioggia devia, non mi tocca, come se fossi coperta da una invisibile campana di vetro. Come al solito la gente non ci vede neppure e torno a guardare lui, con quei suoi baffoni scuri e quel pizzetto che quasi fanno sparire la bocca.
-Perché il soprannome Ciceruacchio?- domando curiosa.
-E' una corruzione di ciruacchiotto, ossia cicciottello. Ed io lo sono sempre stato, fin da piccolo.-
-Tu sei nato e vissuto a Roma in un periodo un po' turbolento.- ricordo.
Scuote la testa annuendo e si accarezza il ventre prominente.
-In effetti, dopo la rivoluzione francese, si annusava in giro aria di ribellione ovunque.-
-E tu ti sei dato da fare.-
Lo vedo corrucciarsi e scurirsi in volto, quel volto rubicondo che i romani avevano imparato ad amare e rispettare, nonostante fosse solo un semplice oste.
-Con il mondo che cambia, che riscatta la sua libertà, secondo te cosa avrei dovuto fare? Starmene con le mani in mano?-
Non rispondo, consapevole che ha ragione. E' destino che alcuni uomini sentano maggiormente il richiamo della Storia, seppur inconsapevolmente, e lui è uno di questi. Non a caso, durante la Repubblica Romana, si diede da fare per far passare armi e vettovaglie ai combattenti ed al popolo di Roma.
-So che i romani hanno sempre guardato a te come il portavoce dei loro sentimenti.-
-Ero il loro specchio, il riflesso di loro stessi!- esclama soddisfatto. -Essendo un oste, conoscevo più che bene il malumore dei miei concittadini, che si riunivano nel mio locale per parlare male o bene di taluna persona o di tale nobile o porporato. La gente si confidava con me ed io ascoltavo. Ed essendo sempre stato socievole e bontempone, ho preso le redini in mano quando si è trattato di eleggere il nuovo papa.-
Sgrano gli occhi e chino la testa di lato, incredula.
-Tu… hai eletto il nuovo papa?- esclamo.
-Ma no! Certo che no!- risponde quasi offeso. -Con l'avvento di Pio IX Mastai Ferretti, mi feci portavoce del malcontento popolare e riportai con la mia dialettica diretta, priva di retorica, tutta l'ansia dei romani che da tempo attendevano riforme.-
Espiro, inconsapevole di aver trattenuto l'aria e subito dopo sorrido. Be', capita di fraintendere…
-Addirittura,- riprende con il suo vocione, -ho ringraziato pubblicamente il nuovo papa per aver concesso la libertà ad alcuni prigionieri politici ed ho offerto da bere nella mia osteria. Ah, sì…- sospira ed un velo di malinconia ricopre i suoi occhi attenti. -Che festa abbiamo fatto… Fino a sera tardi, al lume delle torce e delle fiaccole, tutti a bere e cantare e mangiare: sembravano tornati i bei tempi andati.-
Rimango in silenzio, domandandomi a quali bei tempi si riferisse e, a dispetto della mia ricerca nella memoria, non trovo nulla che possa definirsi tale. Forse è solo un suo sentimento personale. Di certo l'Italia non percorreva un buon periodo, viste le dominazioni francesi ed austriache.
-A Porta del Popolo, poi,- continua con aria estasiata, -abbiamo acceso un fuoco enorme, richiamando tanti di quei romani che tu non puoi immaginare.-
Sogghigno sotto i baffi, immaginando un concerto dei Queen, o dei Led Zeppelin, o dei Pink Floyd e neppure rispondo, lasciandolo crogiolare nel suo ricordo. Ed in quel lasso di tempo mi rendo conto di quanto possano essere cambiati i tempi nel volgere di un solo secolo, stravolgendo le abitudini e lo stesso pensiero.
-Ma poi qualcosa è cambiato.- noto.
China mestamente la testa al ricordo bruciante e si morde le labbra.
-Avevo riposto grande fiducia nel nuovo papa, tanto da sperare fino all'ultimo che avrebbe veramente cambiato le cose. Ma quando è fuggito, facendo crollare anche la Repubblica Romana, ho aperto gli occhi.-
-Non poteva essere il successore di Pietro il riformatore, vero?-
-No.- ammette controvoglia. -E l'ho capito a mie spese. E' fuggito lasciando Roma nelle mani dei francesi. Ti lascio immaginare gli avventori della mia osteria: indignati, offesi e furiosi era a dir poco. Io con loro.-
Annuisco, ma non so se riesco a capire pienamente il suo stato d'animo. Di certo non deve essere stato facile vivere in quel periodo di stravolgimenti emotivi. Da una parte la Francia che insegnava con la sua rivoluzione e con l'avvento di Napoleone, dall'altra l'Austria e la Prussia con le loro ancor solide radici nel medioevo, impermeabili a qualsiasi capovolgimento, insofferenti ad ogni riforma ed ognuna di loro con basi stabili, o semi stabili, in Italia. In effetti, noi giovani di oggi, cosa possiamo saperne dell'occupazione, delle restrizioni, dell'impossibilità di esprimere le proprie opinioni, della morte che si annida dietro ogni angolo che si può svoltare? Salvatore Quasimodo ne sapeva qualcosa e la sua meravigliosa "Alle fronde dei salici" è lì a testimoniarlo.
-Anche tu sei fuggito.-
-Be', a dir la verità, visto come si mettevano le cose, ho preferito seguire Garibaldi… Hai presente Garibaldi?- domanda con aria da inquisitore.
-Eh, sì.- sospiro annuendo.
Mi fissa a lungo, come se la mia espressione non gli piacesse e provo a piegare le labbra in un sorriso amichevole.
-Aho, regazzì,- mi riprende alzando l'indice come un maestro ed agitandomelo sotto il naso, -guai se ti vedo deridere il nostro Garibaldi. Non te lo permetto.-
-Non lo permetterei a me stessa.- ribatto. -So bene chi fosse Garibaldi e ne ho profondo rispetto, nonché stima.-
-Ah, be'.- commenta compiaciuto.
Lo vedo rilassarsi in volto e porta le mani dentro le tasche del panciotto, con aria soddisfatta.
Rimango ad osservarlo, in attesa che continui il racconto e, quando si rende conto del mio prolungato silenzio, mi fissa e chiede brusco:
-Be'? Che hai da guardare?-
Esito, non sapendo bene cosa dire, quindi rispondo:
-Guardo un eroe romano.-
Quella risposta lo compiace e sorride beota.
-Be', forse hai ragione.- risponde. -In finale, ho dato la mia vita per Roma, per la sua libertà. E con me l'hanno data i miei due figli, il più grande ed il più piccolo, poco più di un bambino.-
-Sì, ricordo. Gli austriaci non hanno avuto pietà di un ragazzino.-
-Già- ringhia con espressione furiosa. -Ci vuole coraggio a fucilare un tredicenne mingherlino.-
Avverto il sarcasmo e convengo con lui. Non deve essere facile affrontare la morte a viso aperto, figuriamoci poi se al fianco ti ritrovi con due figli che debbono fare la tua stessa fine. Me lo immagino, Ciceruacchio, provare a coprire con il suo corpo massiccio il figlio minore, nella speranza di salvarlo dal plotone di esecuzione.
-Sei morto lontano dalla tua Roma.- commento.
-Purtroppo. E pensare che quando ero partito, speravo di contribuire alla sua liberazione. Sai,- mormora sconsolato, -con Garibaldi volevo dare una mano a Venezia che resisteva agli austriaci, ma ci siamo dovuti fermare al Delta del Po, per sfuggire alle vedette nemiche. Abbiamo chiesto rifugio ai connazionali, ma quei bastardi di italiani, anziché aiutarci, ci hanno denunciato agli austriaci, i quali hanno provveduto a fucilarci senza perdere tempo. Comprendi? Noi, italiani che volevamo scacciare gli oppressori, denunciati dai nostri stessi concittadini! Roba da non credere.-
Scuoto la testa come lui, pensando che fosse normale per gli italiani dell'epoca, divisi per secoli, non provare un sentimento di unità nazionale. Troppo diversi. Troppi dialetti diversi. Troppe frontiere. Ma, chissà perché, questo solo pensiero non mi consola dinanzi alla vista di italiani che tradiscono gli stessi italiani. Quello che mi colpisce e mi ferisce, è che oggi, tutto sommato, la pensiamo ancora come quei contadini del Delta del Po.
-Oggi, però, riposi al Gianicolo.- lo consolo.
Sorride ed in un gesto affettuoso mi dà un buffetto sulla guancia.
-Aho, regazzì, e mica è da tutti!-
Rido della sua romanità ed in quel momento sento la pioggia bagnarmi la tesa. Alzo lo sguardo e mi bagno il volto, ricordando che avevo chiuso l'ombrello perché riparata dalla presenza di Ciceruacchio. Quando mi giro per salutarlo, non c'è più e la pioggia sul mio viso mi sembra all'improvviso come un pianto silenzioso per tutte quelle vite donate per un ideale che oggi nessuno sente più.

lunedì 18 maggio 2009

Roma vista da me

PASQUINO


Il giorno di ferragosto è una manna dal cielo per i superstiti romani rimasti a casa e che non si sono dati alla villeggiatura: l'Urbe è finalmente a portata di mano. Niente traffico, niente studenti, niente lavoratori, niente caos; solo turisti e strade deserte che puoi permetterti di percorrere a piedi. Mi sento la signora di Roma, padrona di tremila anni di storia e me li godo tutti mentre passeggio sotto il solleone, avida di sole come una lucertola, scaldandomi il fisico ed il cuore quando scorgo il Pincio, quando raggiungo il Gianicolo, quando intravedo Porta Pia, quando approdo al Pantheon o al Colosseo. La mia amata Roma dovrebbe essere sempre così, libera da rumori assordanti, libera da gente impazzita, libera dallo smog delle migliaia di macchine e di motorini. Dovrebbe essere solo Roma. Ma qui pure le mosche sono stressate.
E mentre cammino assorta, gli occhi ricolmi delle meraviglie che mi si spiegano dinanzi, giungo dirimpetto a palazzo Braschi, un tempo palazzo Orsini, e lo sguardo mi cade sulla statua di Pasquino. Sorrido e sto per tirare dritto, quando all'improvviso non vedo più i palazzi moderni, non vedo più le strade asfaltate, non scorgo più nulla della civiltà del ventesimo secolo che ci ostiniamo ad appellare "civile" non si sa per quale recondito motivo. All'improvviso, come per magia, mi ritrovo nella Roma barocca, con i suoi abitanti che sfoggiano abiti sfarzosi, carrozze ridondanti di ghirigori, prelati altezzosi protetti dal baldacchino, venditori ambulanti, postulanti vestiti di stracci, bambini luridi che si rincorrono insieme ad animali da cortile, cavalli e cavalieri e sento sogghignare alle mie spalle. Mi giro e vedo la statua di Pasquino che prende vita, con i suoi arti mutilati e sicuramente impallidisco, perché la sento dire:
-Aho, bella mia, ma che hai visto un fantasma?-
-Tu… Tu parli?- balbetto.
-Parlare…- ripete con aria ispirata. -Sì, mi piacerebbe parlare, dato che sono la più famosa statua parlante di Roma, ma, ahimè, in genere parlo attraverso i fogli che la gente mi attacca addosso.-
-Fogli?-
-Sì. Libelli. Chiamali come vuoi.-
Annuisco e le labbra mi si piegano in un sorriso divertito. Anche lui sogghigna ed ammette:
-In questi secoli mi sono divertito da matti.-
-Non stento a crederlo. La satira è di moda tuttora.-
Scuote la testa e ribatte:
-Non è la stessa cosa.-
-Sì che lo è.-
-No che non lo è! Vuoi mettere l'atmosfera, dove era vietato parlare male dei potentati e trovare comunque qualcuno disposto a sfidare gli strali del potere pur di attaccare e denunciare e vedere la faccia del bersaglio la mattina dopo? Ah, bella mia, queste sì che sono soddisfazioni!-
Mi guardo intorno e noto la gente che prosegue nelle faccende quotidiane, ignorando sia me che Pasquino e quando una dama mi passa accanto con la scorta, provo a toccarla, ma la mia mano afferra solo l'aria. Sospiro e mi godo lo spettacolo della Roma barocca, così calmo, così luminoso, così pieno di vita. Be', sì, noi, al confronto, non viviamo: sopravviviamo.
-Sai,- riprende con tono allegro, -ci sono stati papi che avrebbero voluto distruggermi per far cessare le pasquinate, ma uomini dello stampo dell'Aretino, del Marino e del Belli, non hanno avuto timore ed hanno continuato imperterriti a scrivere le loro pasquinate. Sono orgoglioso di questo. Io faccio parte del popolo di Roma e nulla e nessuno lo può negare.-
-Raccontami.- lo esorto con aria rapita.
Esita, china appena la testa, quindi annuisce e sospira.
-Hai presente papa Clemente VII de' Medici?-
Faccio mente locale, quindi rispondo:
-Certo, il papa del sacco di Roma.-
-Brava. Adunque, quando è morto, dopo lunga malattia seguita dal suo medico personale, qualcuno, forse proprio l'Aretino, considerato il governo disastroso e sospettando il medico di aver abbreviato la sofferenza, scrisse: "Ecco colui che toglie i peccati del mondo", chiaramente riferendosi al medico.-
Mi metto a ridere di gusto e lui sorride a sua volta, felice della mia reazione.
-Orbene, hai presente papa Paolo IV Carafa?-
-Papa rigido oltremodo, forse un po' bigotto.-
-Sì, costretto da lui medesimo al digiuno per espiare colpe sue fino alla morte. Orbene, io dissi: "Accidenti, che vino forte c'è in questa Carafa!" e Marforio, mio grande alleato, rispose: "Ti sbagli, è aceto".-
Mio Dio, quale meraviglia! Sto dialogando con Pasquino e quasi stento a crederci! E via, una pasquinata dietro l'altra, le braccia che stringo intorno all'addome per le risate, la gente che continua a non vederci e mi sento stranamente viva.
-E di papa Sisto V?- esorto eccitata.
-Oh, lui, papa Peretti, nome rimasto oscuro e sconosciuto. Che dire, se non che fosse già vecchio e rigido da non riuscire a definire? Basti dire che di lui si dice: "Papa Sisto non la perdonò neppure a Cristo"!-
Rimango allibita e la mia espressione deve essere così comica che Pasquino ride e spiega:
-Si dice così perché, dinanzi ad un crocifisso in legno che pareva versasse sangue, lui lo spaccò in due, mostrando che dentro vi erano state messe delle spugne imbevute di sangue.-
Spettacolare! Un papa veramente tosto. Uno di quelli che non si piega.
-Quando morì, lasciando Roma sul lastrico e carica di gabelle, Marforio mi chiese: "Come si potrà vivere, Pasquino, con le vettovaglie tanto rincarate per le gabelle imposte da Sisto?". Ed io risposi: "E chi ti ha detto che si debba vivere sotto Sisto? Un po' per volta non si deve morire tutti impiccati?".
Scoppio a ridere e per un attimo chiudo gli occhi, assaporando la Roma barocca e sperando di poterci rimanere in eterno.
-E di papa Clemente VIII Aldobrandini cosa mi dici?- domando.
-Ah, lui! Che tipo! Hai presente Enrico IV di Francia, che abiurò la sua fede pur di farsi incoronare re dal papa? Ebbene, io risposi: "Enrico era acattolico/e per amor del regno eccolo pronto/a diventar cattolico apostolico./Se gliene torna il conto,/Clemente, ch'è pontefice romano/domani si fa turco o luterano".-
Rido di nuovo, le lacrime che sgorgano dagli occhi e mi trattengo lo stomaco, immaginando Enrico IV che abiura mormorando: "Roma val bene una messa". Oh, sì, due tipi proprio simili e si sono capiti subito!
-Ma lui è anche il papa che ha spedito al patibolo Beatrice Cenci, perché imballata di soldi.- riprende Pasquino. -E Marforio mi chiese: "Quali delitti avea la casa Cenci,/secondo il santo padre Aldobrandini?". Ed io di rimando: "Avea troppi quattrini."-
E' incredibile quanto le pasquinate facciano bene alla salute: aiutano nel riso e solo il riso lenisce tutte le preoccupazioni e mostra il lato migliore della vita.
-Però,- ammonisce Pasquino, -è stato anche il papa che ha bruciato Giordano Bruno, unico esempio di Inquisizione a Roma in quel periodo.-
-Già.- mormoro scuotendo la testa e tornando seria.
Rimango a fissarlo, tuttora incredula che una statua possa rivolgermi la parola ed il mio pensiero vola a Marforio, l'altra statua meglio conservata che poggia languida su un triclinio e che osserva i romani con aria di superiorità. Posso solo immaginare la gente che si accalcava intorno a queste due opere d'arte per leggere la satira che uomini illustri e meno illustri si sono presi la briga di divulgare per non farla passare liscia ai potentati. E posso altresì immaginare la faccia di prelati e papi e re ed imperatori illividire di furore e prendersela contro le parole portate dal vento.
-E con Napoleone?- domando.
-Eh… Ne sono volate di pasquinate… Quando si presentò al cospetto di papa Pio VII Chiaramonti per fare ammenda e questi fece intonare il Te Deum, su di me si trovarono queste parole: "Te deum laudamus/e in te speriamo,/ma a Bonaparte/non ci crediamo".-
-Già! Ma poi, con la caduta del potere papale, nessuno più ha scritto libelli.-
Rimane in silenzio e mi accorgo che sta osservando alcuni bambini che giocano vicino a noi senza vederci. Sbircio il loro gioco e rabbrividisco: stanno simulando una impiccagione! Sbalordita, alzo lo sguardo su Pasquino e lui sospira.
-Che vuoi… Ai nostri giorni gli spettacoli che il popolino poteva permettersi erano le condanne capitali.-
Deglutisco e chiudo un attimo gli occhi, mentre le risate cristalline dei bambini mi riempiono le orecchie come campane a morto.
-Tranquilla, ragazza: questi giovani qui sono più svegli ed arguti di quelli attuali.-
-Non lo metto in dubbio.-
-Comunque,- riprende con tono birichino, -ci sono stati altri libelli. Uno in particolare…-
-Quale?- domando incuriosita.
Sogghigna divertito e spiega:
-Quando a Roma giunse in visita Hitler. Qualche bontempone ha deciso di farmi risorgere e la mattina su di me c'era scritto: "Povera Roma mia de' travertino!/T'hanno vestita tutta de cartone/pe' fatte rimirà da 'n'bianchino…"-
Scoppio a ridere e porto una mano alla fronte, immaginando le facce austere e dure di Hitler e Mussolini dinanzi alla pasquinata e comincio a capire la diversità di satira. Quella di Pasquino è sottile, irriverente, lapidaria, spiritosa, ma, soprattutto, è discreta e per questo più efficace. Oggi non si fa più satira simile…
Annuisco, prendendo nota della lezione offertami da Pasquino e quando alzo lo sguardo, noto la statua di nuovo rigida, quel che rimane del volto intagliato nel marmo un marmo stesso ed apro la bocca per dire qualcosa, ma ci ripenso e mi accorgo che sono tornati a circondarmi i palazzi moderni, i turisti e, soprattutto, lo smog.

lunedì 11 maggio 2009

Roma vista da me

ENRICO TOTI
(Roma, 20 agosto 1882 - Monfalcone, 6 agosto 1916)


Le Alpi, questo maestoso spettacolo della natura, questo baluardo che ci ripara dai freddi venti del nord e che, in teoria, ci avrebbe dovuto salvare dalle invasioni… L'abbagliante candore del Bianco è così forte che sono costretta a socchiudere gli occhi, mentre la gente intorno a me si affretta verso la funivia, imbacuccata nelle tute a vento, simili a variopinti pinguini ed abbasso lo sguardo per sbirciarmi: anch'io sembro un pinguino e la cosa mi fa sorridere divertita.
Un rapace, che non riconosco a causa del riverbero provocato dalla neve, sfreccia nel cielo terso, emettendo un acuto che rimbomba nella vallata e che richiama la mia totale attenzione. E' spettacolare.
Alcuni turisti di lingua tedesca scherzano, con le gote rosse che spiccano sulla pelle candida, i capelli chiari come oro e gli occhi azzurri come il cielo e sto per unirmi a loro, quando qualcuno mi afferra saldamente per un braccio trattenendomi. Inghiottisco l'urlo di spavento che mi è salito in gola e mi giro di scatto, rimanendo a fissarlo con occhi sgranati. Una rapidissima occhiata alla sua sola gamba destra mi fa deglutire e rimango a fissarlo incantata.
-Ora non fanno più paura, vero?- esordisce con forte accento romano.
Ammicca ai ragazzi teutonici ed io scuoto la testa, rendendomi conto che sono emozionatissima. Il mio respiro è corto, il cuore mi galoppa indemoniato dinanzi a questo giovane minuto, dai baffoni spioventi e dal naso pronunciato.
-Enrico Toti…- sussurro, ancora incredula.
Accenna un impercettibile inchino e sbircio la sua famosissima gruccia che lo sorregge.
-Ma tu ti fidi di loro?-
Capisco che si sta riferendo nuovamente ai turisti e con condiscendenza rispondo:
-Sì, mi fido. Non è più come una volta, credimi.-
Esita, poco convinto, e continua:
-Eccellenti soldati. Veri guerrieri. E' stato duro combatterli. Ma, lasciatelo dire da chi li ha visti in opera con i propri occhi, vere macchine belligeranti.-
-Oh, ma loro non sono più…-
-Le hai viste le loro trincee? Le loro, non le nostre o quelle francesi.- ribadisce. -Erano in grado di scavare trincee corredate di tutto, persino di brande comode, in metà del tempo che occorreva a noi od ai nostri alleati. Non ho mai visto trincee simili. Veri e propri baluardi invalicabili.-
Annuisce mentre parla, gli occhi al cielo, persi in un ricordo lontano nel tempo che noi, sebbene vicini all'epoca, non riusciamo a percepire nella sua piena crudezza. Posso solo provare ad immaginare i nuovi italiani, coloro che dal 1870 facevano parte dell'Italia unificata, questi giovani che, di punto in bianco, si sono visti crollare i confini tra una regione e l'altra, i sardi venuti a stretto contatto con i pugliesi, con i toscani, con i veneziani, con i romani e non più pugliesi, romani o sardi, ma italiani con tanto di patria, di inno nazionale, in tutto e per tutto uguali agli inglesi, ai francesi, agli austriaci, ai russi…
-Mio Dio… quale periodo di sublime abnegazione per il raggiungimento di un alto ideale…- sussurro mio malgrado incantata.
-Puoi dirlo forte, ragazza!- esclama con gagliardo orgoglio.
Un secondo dopo lo vedo rabbuiarsi e si china un po' in avanti, per sussurrare:
-E pensare che oggi qualcuno vorrebbe che l'Italia si dividesse nuovamente! Ma ti rendi conto?-
Posso capire benissimo lo sdegno di chi, come lui, ha donato la vita per l'Italia e mi domando cosa ne pensa dell'Italia attuale. Meglio sorvolare.
-Tu sei di Roma, vero?-
-Roma, sì, l'ultima ad essere annessa al regno, grazie ai valorosi bersaglieri.-
Gli brillano gli occhi e ne approfitto per chiedere:
-E' per questo che ti sei arruolato nei bersaglieri, nonostante la menomazione?-
-Certo! Bersaglieri in bicicletta. Be',- ammette con una certa riluttanza, -ho dovuto insistere un po'…-
Sorrido, ripensando alla sua vita, al suo incidente sul lavoro che, nel 1908 come oggi, gli ha portato via la gamba, alla sua ferrea volontà di essere in tutto e per tutto uguale agli altri, la bicicletta che lo ha portato in giro per il mondo, fino allo scoppio della guerra, la Grande Guerra.
-Il mio ardore di patriota non poteva tollerare che Trento e Trieste fossero ancora in mano agli austriaci, per questo ho fatto di tutto per arruolarmi. Ho interceduto presso il duca d'Aosta, pur di partire per il fronte.-
-Ed una volta lì?-
Lo vedo esitare un attimo, si gratta la nuca e sorride, con quel suo sfavillante ottimismo che lo ha sempre contraddistinto.
-Be', il fronte non era certo rose e fiori… Facevo la spola tra i feriti, portando conforto, posta e tutto l'aiuto possibile. Ma ero comunque un infiltrato.- ammette.
-Un infiltrato?- ripeto sconcertata.
-Che vuoi… La mia unica gamba non mi permetteva di venire arruolato; tuttavia io sono partito lo stesso, con una divisa senza mostrine né stellette, ma con tanta voglia di dimostrare il mio orgoglio di essere italiano.-
-Sei stato a lungo a Cervignano, vero?-
-Sì. Mi trovavo bene, anche se a volte incappavo nei soldati che provenivano dal fronte e non comprendevano il mio entusiasmo. Certo,- aggiunge alzando le spalle, -immaginavo gli orrori delle trincee, ma per me partecipare alla guerra significava coronare il sogno dei nostri padri che erano riusciti ad unificare l'Italia, significava legittimare Porta Pia e dimostrare che gli sforzi dei padri non erano stati vani.-
Tutto il suo volto, dagli occhi alla bocca, splende di luce propria mentre parla ed un groppo mi chiude la gola all'improvviso. Quest'uomo era animato da ideali puri, scevri di politica e di retorica, spinto solo dall'entusiasmo e dall'orgoglio di essere italiano e domando:
-Quanto ha contato per te essere romano?-
-Tantissimo. Ero il figlio dell'ultima roccaforte papalina, quella che si ostinava a mantenersi indipendente e che non ci pensava minimamente a riconoscere i Savoia come sovrani legittimi. A Roma si respirava aria strana quando sono nato, appena dodici anni dopo la presa di Porta Pia: da una parte l'atavico attaccamento al papa, dall'altro il nuovo legame al re. Ma noi romani siamo gente strana, ci adattiamo a tutto. Sono fiero ed orgoglioso di essere romano ed è stata questa consapevolezza a spingermi fino alle trincee: dimostrare il valore di un trasteverino.-
-Alla fine sei riuscito a farti arruolare.-
-Sì! Finalmente, nel 1916, mi presero nel Terzo Ciclisti Bersaglieri, la Brigata Pinerolo. Da quel momento in poi potei stare con i miei compagni in trincea e, sebbene non mi fosse stato concesso di partecipare attivamente agli scontri, rimanevo sempre con i miei compagni, e spesso leggevo loro il giornale, le lettere, perché… Be', coloro che studiavano all'epoca erano pochissimi, io sono stato fortunato a fare le elementari e non ero ignorante. Ho persino scritto su un giornale. E loro mi chiedevano di leggergli le lettere, di scriverle ed io facevo quanto possibile per mantenere alto il morale. Spesso mi avventuravo nella terra di nessuno e loro mi rimproveravano, dicendomi che era pericoloso, ma io non temevo la morte.-
-Eri un po' spericolato, ammettilo.- sorrido.
Annuisce ed inspira a fondo l'aria fredda.
Provo ad immaginarlo quando, deciso l'attacco di quel 6 agosto a quota 85, si getta con i suoi compagni contro le trincee nemiche, sorretto dalla gruccia che lo accompagnava sempre, mentre incita i compagni a squarciagola. Provo ad immaginarlo mentre si siede sul muretto della trincea e spara con il fucile a ridosso degli austriaci, animato dall'entusiasmo e sorretto da un ideale più grande di lui, mentre dalla sua bocca escono continuamente esortazioni ai suoi commilitoni.
Come per magia, sento gli spari nemici che lo colpiscono, li sento come se mi rimbombassero nelle orecchie e per un attimo il cuore mi si ferma, come colpito a morte. Sgrano gli occhi e davanti a me non c'è più la neve, non c'è più la funivia, ma solo buche enormi, fili spinati, trincee, feriti, morti ed apro la bocca per urlare, ma il grido mi muore in gola, alla stessa maniera in cui i soldati vengono falciati dalle mitragliatrici. Non so dove questi uomini prendono il coraggio a due mani e si gettano a capofitto verso la morte sicura: io questo coraggio non l'avrò mai.
Poi lo vedo, lui, irritato per essere stato colpito, afferrare la sua gruccia in un ultimo disperato tentativo e scagliarla contro il nemico, in un gesto che più eloquente non potrebbe essere. Lo vedo accasciarsi, sussurrare le sue famose parole: "Tanto nun moro io", baciare il piumetto del suo cappello e restituire la sua dolce anima a Dio.
Mi rendo conto che i miei occhi sono pieni di lacrime e deglutisco più volte per non scoppiare a piangere.
-Aho, ma che ti metti a piangere?- esclama incredulo.
Scuoto la testa ma non riesco ancora a parlare. Mi accorgo che la neve è tornata a dominare con il suo candore, manto purificatore sulle follie umane ed inspiro a fondo.
-La medaglia d'oro te la sei più che meritata.-
-Avrà consolato mia madre e mia sorella. A me è sufficiente sapere e sperare che gli italiani di oggi amino ancora l'Italia come l'abbiamo amata noi.-
-Questo… Questo non lo so.- ammetto e mi vergogno come una ladra.
Lo vedo sorridere dolcemente e sposta la gruccia per posizionarla meglio.
-Io credo… Io sono sicuro che i miei romani, quando passano davanti al mio monumento al Pincio, non possano far altro che condividere i miei stessi ideali. Se così non fosse,- aggiunge mestamente, -allora il sacrificio di tante generazioni è stato vano.-
-Non il tuo.- mi appresto ad affermare. -Noi romani non potremmo mai dimenticare. Mai.-
Mi fissa a lungo, quindi volge lo sguardo ai turisti austriaci, il pensiero perso in un ricordo lontano ed un attimo dopo lo vedo annuire, prima di svanire confondendosi con la neve.
Rimango immobile, infagottata come un pinguino ed istintivamente porto la mano al cuore, mentre nella mente mi torna un ritornello che oggi non dice più nulla, ma che era caro ai nostri soldati: "Il Piave mormorò: non passa lo straniero!".

giovedì 7 maggio 2009

Roma vista da me

MICHELANGELO BUONARROTI
(Caprese, 6 marzo 1475 - Roma, 18 febbraio 1564)


Viaggiare in aereo per me è sempre un'emozione incredibile, un avvicinarsi un po' di più a Dio così come lo era per i cristiani nel medioevo quando costruivano le cattedrali che svettavano verso il cielo. Lassù, in mezzo alle nuvole come un uccello con le ali spiegate, provi a sbirciare attraverso l'oblò e quello che si apre ai tuoi occhi è un mondo fantastico, una diversa prospettiva da quella usuale, più suggestiva e divina. Perché la Terra, il sistema solare, l'intero universo sembrano realmente usciti dalle mani magiche di un essere superiore. Un evidente spettacolo della natura!
Sospiro, scorgendo le dolci ondulazioni del Sahara che sembrano flutti dorati ed il mio pensiero vola ai giorni mai dimenticati della guerra e scuoto mestamente la testa.
-Se solo avessi potuto osservare il mondo da quassù…-
Sussulto e mi giro di scatto, rimanendo a fissare quel volto bruttino, dai lineamenti duri, il naso rotto, la bocca piegata perennemente all'ingiù e sbatto gli occhi più volte, incredula ed intimamente atterrita da ciò che quell'uomo rappresenta.
-Mi… Michelangelo.- balbetto in un sussurro.
-Sì, decisamente se avessi potuto avere questa visuale… Avrei per certo fatto morire di bile quell'effeminato di Leonardo!- sbotta irato.
Mi guardo timorosa in giro, ma i passeggeri continuano a godersi il viaggio come se nulla fosse e porto una mano al cuore, sollevata ed indispettita al contempo.
-Leonardo non era effeminato!- ribatto.
A quelle parole mi degna infine di attenzione e socchiude gli occhi soppesandomi, alzando lentamente il mento.
-Osi negare l'evidenza?- borbotta.
-Lui era dolce, bello, elegante…-
-Oddio, eccone un'altra!- esclama inorridito.
Lo fisso attonita e lascio cadere l'argomento, consapevole che l'astio esistito tra i due maggiori uomini che il mondo abbia partorito non si è sanato neppure dopo tanti secoli.
-E' vero che a tredici anni sei andato a bottega dal Ghirlandaio?-
-Verissimo. Mio padre avrebbe voluto che divenissi un avvocato, ma con il greco e con il latino non sono mai andato d'accordo. D'accordo andavo con il disegno e fin da piccolo preferivo tratteggiare le chiese che vedevo nella città.-
-Hai attirato l'interesse del Magnifico.-
-Sì, si stupì nel vedermi maneggiare lo scalpello con maestria e mi tenne con sé. Era un grand'uomo messer Lorenzo.- aggiunge e la voce gli si incrina lievemente, tradendo l'emozione.
Provo ad immaginarmi alla corte del Magnifico ma la testa mi gira e turbina in un ambiente frequentato dai più grandi uomini del tempo e subito torno con i piedi per terra. Se penso che Michelangelo l'ha frequentata all'età di quindici anni…
-Sbaglio o ammiravi Savonarola?- domando.
-I suoi sermoni erano sferzate contro tutti i potentati e contro la loro opulenza e richiamavano sempre all'amore del Cristo ed alla Sua umiltà.-
-Ma tu mangiavi al desco del Magnifico!- esclamo sbigottita.
Lo vedo alzare le spalle larghe e possenti, come se la cosa non lo turbasse e mi domando se io sarei mai riuscita a sopravvivere in un simile periodo, dove la morale era un'utopia.
-Dopo la morte del Magnifico ti sei trasferito a Roma, chiamato dal cardinale Riario.-
-Quel taccagno…- e sembra che sputi le parole. -Per fortuna il Galli e poi il cardinale de Villiers mi hanno notato ed ho potuto lavorare, altrimenti sarei rimasto con le mani in mano.-
-La famosa Pietà…- mormoro rapita.
Nota il mio sguardo sognante e commenta aspro:
-Anche i miei contemporanei rimasero a bocca aperta.-
Inizio a capire per quale motivo Leonardo non ci andava d'accordo e per quale motivo in una rissa un tipo gli spaccò il naso: è arrogante, attaccabrighe ed irascibile, ma tutti questi suoi difetti svaniscono dinanzi alle sue opere ed io non posso che inchinarmi al suo genio.
-La fama a soli ventiré anni… Da allora sei stato richiestissimo.-
-Me ne sono tornato a Firenze, dove il Duomo mi commissionò una statua ed io tirai fuori il David.-
-Lo dici come se fosse… come se fosse la cosa più facile del mondo!-
Emette un grugnito con quella sua voce dura come il carattere e ribatte:
-Per me lo era. Il David era già lì, nel blocco di marmo; io ho solo tolto il superfluo per farlo venire alla luce.-
Rimango esterrefatta e scuoto lievemente la testa, come a sottolineare la mia incredulità.
-E per affrescare una delle pareti di Palazzo Vecchio?- domando.
Fa un gesto stizzito con la mano e si agita sul sedile ed a me incute un po' di timore.
-Io e lui…-
-Lui Leonardo?-
-Sì, l'effeminato, il damerino. Ci vedi a lavorare schiena contro schiena per affrescare le due pareti? Se solo Giulio non mi avesse voluto a Roma alle sue dipendenze…-
-Giulio II, il papa battagliero?-
-Proprio lui.-
Sogghigno e provo ad immaginare Michelangelo e Giuliano della Rovere, papa Giulio II, faccia a faccia: entrambi collerici, iracondi ed insopportabili. Le scintille si sarebbero sprecate e si maltrattarono per tutto il tempo che lavorarono insieme. Cosa avrei dato per vederli…
-Quindi niente più affresco a Palazzo Vecchio.-
-No. Il destino aveva deciso che né io né l'effeminato avremmo affrescato le pareti: io per un motivo, lui per un altro.-
Immagino che se continua ad appellare così Leonardo tra un po' lo strozzo.
-Papa Della Rovere voleva un mausoleo da te.-
-Sì, enorme, degno dei tempi antichi. Hai presente il Mosè?-
-Certo, nella basilica di S. Francesca Romana.-
-Quello. La tomba del papa. Quella che lui, dietro insistenza di Bramante che doveva progettare la cupola di S. Pietro, mi costrinse a rimandare. Ovvio che me ne tornai a Firenze.-
-E il papa?-
Lo vedo sogghignare prima di rispondere:
-Mi mandava lettere ogni giorno intimandomi di rientrare nell'Urbe, ma io ho sempre fatto orecchie da mercante.-
Sì, ma alla fine l'ha spuntata il "grande collerico".-
-Avrebbe messo a ferro e fuoco Firenze, quel pazzo! Sono sì rientrato a Roma, ma mi sono visto incaricato non del mausoleo, bensì dell'affresco della Sistina. A te pare normale?- borbotta incrociando le braccia al petto.
Al solo nominare la Cappella Sistina vado in brodo di giuggiole e chiudo gli occhi sospirando rapita.
-Hai idea, hai una pur solo vaga idea di quanto mi sia costato quel lavoro massacrante?- sbraita irritato. -Da solo, ho dovuto fare tutto da solo, io che di affreschi non m'intendevo, mentre nelle sale affianco c'era Raffaello, che avrebbe potuto benissimo farlo al posto mio. Invece no, quel testardo di Giulio si era incaponito ed alla fine l'ha spuntata. Per quattro lunghi anni ho lavorato come una bestia, con i suggerimenti del Sangallo per non rovinare l'affresco, con Giulio che ogni giorno veniva a sbirciare senza commentare e poi, una volta terminata ed aperta al pubblico, il testardo mi lascia, muore!-
Nel suo sfogo sento il sincero rammarico di colui che perde un padre, un protettore e la cosa mi lascia alquanto stupita. Che, tutto sommato, il misantropo Michelangelo Buonarroti avesse un cuore? Fatto sta che, una volta morto il papa, lui tornò a Firenze, fino a quando, nel 1536, papa Paolo III Farnese gli commissionò il Giudizio Universale.
-Nel frattempo avevo portato a termine il mausoleo e le due tombe dei fratelli Medici,- racconta, -e solo Dio sa quanto non avrei voluto mettermi a dipingere di nuovo. Ma alla fine l'ho fatto.-
-E quale mirabile meraviglia!-
Lo vedo digrignare i denti, scontroso come sempre e mi passa una mano davanti agli occhi, come per svegliarmi.
-Li hanno coperti.- commenta lapidario.
Lo fisso attonita, quindi capisco e ripenso a quanto tutte quelle nudità avessero scandalizzato i meno scandalizzabili uomini del tempo, con il risultato che furono disegnate foglie di fico dinanzi ad ogni membro.
-Sì, ma noi progrediti le abbiamo rimosse, così il dipinto risplende in tutta la sua magnificenza.- rispondo con soddisfazione.
-Voi… progrediti?- ripete inarcando un sopracciglio.
Devo aver fatto un'espressione simpatica perché scoppia a ridere ed io non comprendo la sua ilarità.
-Quale assurda pretesa…- mormora scuotendo il capo.
Rimango a guardarlo, lui, Michelangelo, un genio tra i geni del rinascimento che ci esalta noi italiani al confronto con gli altri stati e mi chiedo come sarebbe ora Roma senza il tocco delle sue mani. La Sistina sarebbe ancora dipinta di azzurro con miriadi di stelle bianche, insulse e prive di qualsiasi significato dinanzi al capolavoro michelangiolesco, e la navata destra di S. Pietro non vanterebbe la sua Pietà, bella oltre ogni dire.
-Hai praticamente diviso la tua vita tra due delle più grandi città del rinascimento, Roma e Firenze.-
-A Roma ci sono pure morto, novant'enne, ma i toscani non mi hanno lasciato in pace neppure dopo morto: mi hanno traslato a Firenze e qui sepolto. A Roma ci sono stato bene gli ultimi anni della mia vita, ho conosciuto Vittoria Colonna e siamo diventati molto amici.-
-Anche Tommaso Cavalieri.- insinuo dolcemente, fissandolo dritto negli occhi.
Lo vedo agitarsi alquanto e serra le labbra in una linea dura e sottile.
-Dai dell'effeminato a Leonardo, ma tu non eri migliore.- lo sfido alzando il mento.
Se il suo sguardo avesse potuto incenerirmi, ora sarei solo un mucchietto di polvere sul sedile dell'aereo e dentro di me sogghigno soddisfatta: il genio di Vinci è vendicato!
All'improvviso si sporge verso di me ed indica oltre l'oblò. Mi giro e rimango esterrefatta, dinanzi alla maestosità della Cappella Sistina, priva di mura che la racchiudono, ma aperta come un foglio in mezzo all'azzurro delle nuvole e mi rendo conto che sono letteralmente rimasta a bocca ed occhi spalancati. La visione rimane quel tanto da farmi capire quanto l'uomo possa andare a braccetto con la natura e quando mi volto per ringraziare il genio, il suo posto è vuoto ed una hostess mi fissa sorridendo amabilmente, offrendomi dell'acqua.
Sospiro dispiaciuta e mi mordo le labbra.

sabato 2 maggio 2009

Roma vista da me

CRISTINA DI SVEZIA
(Stoccolma, 18 dicembre 1626 - Roma, 19 aprile 1689)


Il freddo a Roma, quando decide di farlo sul serio, è insopportabile. Ma non a causa delle basse temperature, bensì per l'umidità che ti si insinua nell'epidermide, supera lo strato di grasso, trapassa i muscoli e si impianta nelle ossa provocandoti perenni brividi. Il freddo che si percepisce è di gran lunga superiore a quello indicato dal termometro, così come, in estate, la calura è maggiore di quanto stabilito dal mercurio dentro la colonnina.
Noi romani siamo vessati dal clima umido e solo chi è avvezzo a rigidità maggiori può ridere dei nostri brividi. Proprio come il sorriso beffardo che vedo spuntare su questa creatura apparsa all'improvviso, annunciata da un lieve tintinnare di campanellini attaccati ad una slitta trainata da magnifici cavalli bardati. Una slitta in piena Roma? Rabbrividisco involontariamente e mi stringo nel cappotto, fissando questa figura esile, ancora giovane, un tantino bruttina, con i capelli acconciati in lunghi boccoli che fuoriescono da una cuffia ingemmata. Mio Dio, penso attonita, ma costei è la famosa regina Cristina di Svezia, la quale abdicò a favore di suo cugino per venire a stabilirsi in pianta stabile a Roma! Una regina testarda, avida di sapere, munifica; in realtà intenta a ricercare se stessa come donna, perché tale non si sentiva e per tutta la vita tentò inutilmente di apparire la donna che la natura le aveva negato di essere.
-Tu…- balbetto e non per il freddo, -sei la figlia di Gustavo Adolfo, il re guerriero protestante che ha dominato durante la guerra dei trent'anni.-
Sogghigna come un maschiaccio ed appare ancor più bruttina di quello che è.
-Sì, ed aggiungerei che mi ha lasciato orfana all'età di sei anni pensando che era dovere di re morire su un campo di battaglia piuttosto che pensare alla figlia.- risponde con malcelato sarcasmo.
-Ma ti ha lasciato con tua madre, una principessa Hohenzollern di Prussia.-
Fa uno scatto con la testa, risoluta, e la slitta da dove è scesa svanisce così come era apparsa, in un tintinnare dolce di campanellini.
-Faresti meglio a dire che mi ha lasciato nelle mani del solerte e devoto cancelliere Axel Oxenstierna. E' stato lui il mio reggente fino al compimento dei miei diciotto anni. Mia madre, da ferrea prussiana, mi rinfacciava sempre di essere nata donna ed io, per non deluderla, mi comportavo da quel maschio che tutti avevano sperato che io fossi quando sono venuta alla luce.-
Percepisco nuovamente un sottile sarcasmo nel suo tono e domando:
-Per questo ti sei rivolta all'ambasciatore inglese dicendo che la tua damigella era la tua compagna di letto?-
-E lo era!- ribatte alzando fieramente il mento. -Ho sempre odiato gli uomini, benché ne cercassi la compagnia. Ma il rapporto intimo con loro mi ha sempre disgustato. Come si può solo pensare di rotolarsi in un letto con questi esseri rozzi e privi di attrattive?-
Rimango attonita, in silenzio, impreparata a quell'ammissione senza peli sulla lingua e deduco in un sussurro:
-Amavi le donne…-
-Ovvio.- risponde come se fosse la cosa più naturale del mondo. -Mi si è sempre chiesto e comandato di comportarmi da uomo ed io così ho fatto, in tutto e per tutto. Ti dirò,- aggiunge insinuante, -la cosa mi allettava non poco.-
La osservo di sottecchi e, tutto sommato, un po' mascolina lo è. Le mancano la grazia di una donna, l'eleganza, il portamento e la dizione, mentre abbondano e trasudano la sfrontatezza, l'aggressività e la risolutezza tipica degli uomini. Tutto sommato, questa giovane regina mi fa tenerezza.
-Tu eri figlia di protestante, nata in un paese luterano e, alla fine, ti sei convertita al cattolicesimo.-
Alza le spalle esili, non ancora pingue come lo era diventata durante la seconda metà della sua vita e con un gesto secco tira indietro un boccolo.
-E allora? In realtà, non me ne importava nulla della religione, intenta com'ero a studiare i grandi del rinascimento italiano. Le guerre di religione non le ho mai condivise, le ritenevo e ritengo puerili, una facciata per nascondere problemi più gravi.-
-Ma tuo padre morì sul campo di battaglia per difendere il protestantesimo!- esclamo scandalizzata.
-La sua vita era sua, poteva farne ciò che voleva.- risponde con fredda indifferenza. -Io ho sempre di gran lunga preferito lo studio dei classici alle continue amarezze che ci propinava la religione.-
Mi fissa con alterigia, restringendo gli occhi per sondarmi e continua sibilando:
-Vuoi mettere la bellezza di tutto lo scibile umano dinanzi ai futili battibecchi di vecchi prelati che si credono portatori della voce di Dio e che scatenano rancori che sfociano in guerre fratricide? Io ho preferito dilapidare il mio patrimonio aprendo la mia corte a tutti gli uomini di cultura, dai filosofi ai pittori, dagli scultori ai professori e ne sono stata ben ripagata.-
Sentirla parlare così mi fa venire i brividi e mi domando come sia sfuggita alle maglie dell'Inquisizione. Ma, probabilmente, si teneva per sé queste osservazioni, facendo bene, aggiungo.
-So che sei stata una grande mecenate e la Svezia, sotto il tuo regno, è diventata la più grande potenza europea, al pari dell'Inghilterra sotto la regina Elisabetta. Ma ciò è andato inevitabilmente a cozzare con la supervisione di Oxenstierna.- le rammento.
Scoppia a ridere e si porta una mano alla fronte, scuotendo la testa.
-Sì, è vero. Il devoto Axel si preoccupava delle casse dello stato, io mi preoccupavo delle casse intellettuali. E questo mi ha inevitabilmente indotto ad abdicare, alla veneranda età di ventotto anni. Sai,- aggiunge avvicinandosi e facendo l'occhiolino, -ho sempre odiato le convenzioni.-
-Lungi da me simile dubbio.- ribatto ed il pensiero mi vola in un'epoca remota, dove una giovane ed irrequieta regina scorrazzava insieme ai gentiluomini della sua corte, in abiti maschili, cacciando come una indemoniata in mezzo alle lande ghiacciate della Svezia.
Una cosa è certa: questa donna tutto era tranne che una donna. Per lei gli uomini erano il mezzo per imparare qualcosa e come tali li considerava. L'idea di sposarsi non le aveva mai sfiorato la mente ed il pensiero di avvizzire su un trono gelido come quello svedese le faceva accapponare la pelle. La sua salute gracile e le continui bronchiti non si adattavano al rigido clima nordico e lei smaniava e scalpitava per liberarsi da quel compito al quale era stata chiamata dalla tenera età di sei anni. Il solo pensiero di dover dare un erede alla corona la faceva stare male. Ed a sue spese dovette capirlo anche suo cugino Carlo Gustavo, il quale vanamente le aveva ripetuto di sposarlo, ricevendo in cambio sempre secchi rifiuti. All'ennesimo tentativo, Cristina altro non fece che abdicare in suo favore, senza prestare orecchio al suo cancelliere, e voltargli le spalle per partire alla volta dell'assolata Roma.
-Il giorno dell'abdicazione, nessuno ha avuto il coraggio di toglierti la corona dalla testa.-
-No, infatti. Ho dovuto dare un ordine, il mio ultimo ordine come sovrana. Ma quale soddisfazione!- aggiunge esultante. -Lo stolto di mio cugino era talmente innamorato che mi ha rincorsa per propormi nuovamente di sposarlo e dividere il torno con lui. Povero idiota.- commenta scuotendo il capo.
Rimango di ghiaccio, pensando che si sta rivolgendo niente di meno che a Carlo X!
-Di Roma mi attraeva tutto, a partire dalle sue opere.- mormora con tono nostalgico, dimentica della fredda Svezia.
Scorgo i suoi occhi prendere vita all'improvviso, come se stesse parlando di un amante e continua con voce vibrante:
-L'Urbe era, per me, un ricettacolo di bellezza e di cultura come nessun altro luogo al mondo ed il solo poter mirare le opere di Raffaello e Michelangelo mi riempiva il cuore e fortificava l'anima.-
-Sì, posso capirlo.- convengo trattenendo l'emozione.
-Le basiliche per me erano solo meravigliosi musei, altro che luoghi di culto!-
Sgrano gli occhi e rabbrividisco: se solo l'avesse urlato ai quattro venti, l'avrebbero processata e condannata per eresia. E la cosa strana, è che condivido la sua visione. Ma questa donna, toccata dall'arte, dalla bellezza della natura e dai classici greci e latini, sapeva essere crudele e spietata come un uomo. Così come avvenne per una rivolta in Svezia, prima della sua abdicazione: la soffocò con un massacro, non risparmiando né provando pietà per nessuno. Come non risparmiò uno dei gentiluomini della sua corte allorché le giunse all'orecchio che potesse essere un sicofante.
-A Roma hai gettato le basi per un'accademia che, in avvenire, sarebbe diventata la famosa Arcadia.-
-Già. Ho sempre amato circondarmi di uomini eccelsi. Sai, andavo a veder lavorare il Bernini e tutte le volte mi dispiaceva di non poterlo avere al mio servizio: le sue mani erano un dono di Dio. Così come le belle donne romane.- aggiunge ammiccante.
Rimango immobile e provo a fare un sorriso, mentre la vedo avvicinarsi con passo misurato e quando è a pochi centimetri da me mi posa una mano sugli occhi ed in quell'istante mi appare Roma in età barocca, così diversa dalla Roma imperiale e medievale. Sembra un ribollire di attività frenetiche, dedite a ridare lustro e belletto ad una città che, per secoli, è stata la capitale del mondo prima e della cristianità dopo. Vedo scalpellini intorno alle fontane ed alle scalinate, sommersi di polvere di marmo, felici di arricchire l'Urbe con ridondanti tocchi che sfiorano la tracotanza ed il popolino che neppure li vede, avvezzo a scene simili.
-Allora?- mi chiede ritraendo la mano. -Non era magnifica?-
Sbatto le palpebre e rispondo:
-Sì, come sempre. Anche in momenti di declino la nostra amata Roma ha sempre brillato come un faro. Ma tu, nonostante l'abdicazione, hai brigato per divenire regina di Napoli e dei Polacchi.-
Reprime un gesto di stizza e fa un gesto vago, come a sottolineare che non voleva neppure sentirne parlare.
-Dovevo pur fare qualcosa, no? Regina sono nata e regina mi sono sempre sentita. Sono solo nata nel posto sbagliato. Per questo sono voluta venire qui a morire. Non si potrebbe scegliere città migliore per lasciare un segno nella Storia.-
-Ho veduto il tuo catafalco in S. Pietro.-
La vedo fare una smorfia e commenta acida, con tono quasi isterico:
-Il mio testamento parlava chiaro: volevo essere sepolta nel Pantheon, accanto al mio amato Raffaello.-
Sorrido condiscendente ed inarcando le sopracciglia le faccio notare:
-Vedila così: S. Pietro non è certo un luogo comune dove venire inumati.-
Sbuffa e porta le mani sui fianchi, mi fissa a lungo, borbotta qualcosa di inintelligibile in svedese, quindi inspira a fondo ed annuisce.
-E sia. Sono pur sempre una regina.- commenta con vana superbia.
-Di spessore notevole.-
La vedo chinare la testa in segno di accettazione ed un attimo dopo batte le mani e di fianco a lei si materializza un cocchio trainato da quattro magnifici cavalli bianchi, un lacché a cassetta e due dietro la carrozza. Rimango incantata dalla sontuosità della scena e vedo un cardinale, probabilmente il suo fedele amico Decio Azzolino, che le porge la mano per aiutarla a salire. Lei mi manda un bacio a distanza e subito dopo svanisce insieme al codazzo ed io rimango impietrita nel freddo umido di Roma, incredula dinanzi a ciò che ho visto e volgo lo sguardo al cupolone che svetta dinanzi a me in tutto il suo splendore.