giovedì 23 dicembre 2010

Auguri

Un sincero augurio di buon Natale a tutti e... non mangiate troppo! :-))))

giovedì 16 dicembre 2010

Per gli amanti del fantasy - Secondo capitolo de "La spada bianca"

Misi la pentola sul fuoco per cucinare il pugno di legumi che erano rimasti e vidi Zephyr con la spada in mano. La guardava con adorazione e rispetto, quasi fosse stata una sacra reliquia e la cosa mi divertì. Non era la prima volta che si interessava a quell'arma: già in precedenza l'avevo sorpreso mentre la prendeva in mano per studiarne le rifiniture ed il filo, ma non gli avevo mai detto niente, perché sapevo fin troppo bene cosa lo attraesse di quell'esemplare unico. Rimproverarlo non sarebbe valso a nulla, poiché tutte le volte era stato così: inconsciamente amava e venerava quell'arma.
-Sensei,- chiese all'improvviso, continuando ad esaminare l’arma, -un giorno mi insegnerete ad usarla?-
-A cosa ti servirebbe?-
Distolse lo sguardo e mi fissò a lungo con quegli occhi penetranti e misteriosi e rispose:
-Non so. C'è molta gente cattiva e mi piacerebbe sapermi difendere.-
Annuii vagamente e risposi:
-Vedremo. Sei ancora troppo giovane e prima del braccio, occorre sviluppare la mente.-
Parve riflettere a lungo sulla mia risposta elusiva e questo mi lasciò libero di studiarlo con attenzione. Aveva nove anni e ne era già trascorso uno da quando l'avevo preso con me salvandogli la vita, ma sembrava più adulto, indubbiamente più maturo di un suo coetaneo.
Il volto efebico era dolce ed attraente, atto a dissimulare il suo carattere coriaceo ed inflessibile; i suoi occhi dal taglio grande e dalle lunghe ciglia erano di un verde chiaro che rasentava l'azzurro ed a volte la loro espressione risultava ineffabile. Aveva bellissimi capelli voluminosi e lunghi che, di tanto in tanto, mi prendevo la briga di tagliuzzare, di colore tra il candido e l'azzurro.
Nonostante l'aspetto infantile, ero sicuro che da grande sarebbe diventato più attraente, se non altro per confermare la sua provenienza.
-Sensei, voi quanti anni avete?-
Sorrisi divertito a quella domanda, consapevole di apparirgli come una reliquia.
-Imparerai, caro Zephyr, che non è il passare delle stagioni a far invecchiare un uomo. Posso avere cento, duecento anni e nello spirito conservarmi fanciullo. A volte l'apparenza può trarre in inganno, non dimenticarlo.-
Mi scrutò attentamente con quei suoi taglienti occhi verdi ed io mi sentii sezionare centimetro per centimetro. Era un buon inizio: doveva assolutamente imparare a valutare la persona che aveva davanti, in modo da non ricevere in futuro sorprese letali.
-Avrò molte cose da imparare prima di essere pronto, vero?-
Annuii e mi dedicai nuovamente ai legumi. Non gli chiesi cosa intendesse con essere pronto; era il suo Karma andare alla ricerca del fratello, una ricerca che sarebbe durata negli anni a seguire, una ricerca che lui neppure sapeva di effettuare.
-Parlatemi di voi, sensei.- mi invitò posando la spada e sedendosi a terra anziché sulla sedia.
Stavo per rimproverarlo, ma mi fermai in tempo: a cosa sarebbe valso? La maggior parte degli uomini, i meno abbienti, non aveva più sedie e tutti sedevano tranquillamente per terra; solo io avevo ricercato quella comodità per non far soffrire le mie ossa.
-Hai qualche domanda in particolare?-
-Be’ ... Perché vivete solo e lontano da qualsiasi villaggio?-
-Per risponderti dovrei narrarti la storia della mia vita e so già a priori che non gradiresti ascoltare un racconto lungo e tedioso. Ti dirò semplicemente che se ho scelto di isolarmi è stato esclusivamente per poter meglio sviluppare l'arte tramandatami dal maestro.-
-Arte? Anche voi avete avuto un sensei?- domandò senza riuscire a mascherare la sorpresa.
-E lui, a sua volta, ne ebbe uno, e così via fino a risalire ai primordi della vita. Maestri che si sono scelti un allievo per istruirlo alla sacra Via Divina, affinché potesse egli stesso, un giorno, diventare maestro e tramandare la Via Divina ad un nuovo allievo.-
-Voi siete l'ultimo.- constatò con semplicità.
-Per il momento.-
Mi fissò un secondo, quindi chinò appena la testa ed annuì con gravità, come un uomo maturo.
-Io sono il vostro allievo, vero?-
Non risposi perché anche questa, sebbene posta sotto forma di domanda, era una pura e semplice constatazione. Mi limitai a guardarlo di sfuggita negli occhi, quindi riposi nuovamente attenzione alla cena.
Mi divertiva la foga che metteva quel cucciolo nel voler imparare e capire e ripensai a quando anch’io ero stato giovane, inesperto, insicuro, ma con tanta voglia di arricchirmi moralmente e fisicamente.
-Cos’è l’arte della Via Divina?-
-Attendi una risposta precisa, suppongo; non posso dartela. E capirai da solo perché. Per ora sappi che secoli fa mi chiamarono stregone, mago, druido, ma la Via Divina non è niente di tutto questo: è lo studio delle potenzialità del corpo.-
Sapevo che mi stava scrutando, anche se gli davo le spalle e sapevo che, inconsciamente, non avrebbe fatto caso ai secoli ai quali avevo volutamente alluso.
-Allora non avete niente da insegnarmi: conosco già il mio corpo.-
Sorrisi condiscendente alla sua albagia e gli feci notare:
-Del tuo corpo conosci solo i limiti.-
Mi voltai per captare la sua occhiata fulminante e sentii il suo giovane orgoglio sanguinare di rabbia, come pugnalato a tradimento.
-Indubbiamente hai ancora molte cose da imparare,- continuai, -e di sicuro non ti basterà una sola vita. Ma farò in modo da colmare il vuoto che c’è in te.-

~

So che il momento del mio passaggio sta degradando all’orizzonte come il sole al tramonto e so anche cosa mi aspetta prima che mi sia concesso di unirmi al Vento Divino; ma non ho timore.
Da quando sono nato ho sempre avuto in mano il corso della mia vita e la conoscenza non ha mai bloccato le mie azioni. Eppure, come capita tutte le volte che giungo al termine, se ripenso a Zephyr ho nostalgia. Non dovrei, perché a causa sua io terminerò, così come io misi fine al mio maestro, ma quel legame che per anni ci ha tenuti uniti non si può cancellare facilmente.
All’inizio ero solo io a vivere la sua vita; col passare del tempo, imparando, lui stesso entrò nella mia e diventammo una persona sola, come io lo divenni con il mio maestro e lo diventerò di nuovo. Ma questo accadde molti anni dopo: per il momento Zephyr era ancora piccolo e vivevamo isolati dal resto del mondo, in quella catapecchia di due stanze che pomposamente chiamavo casa. Intorno a noi imperversavano crudeltà e barbarie, sentimenti che, nonostante la distruzione, l’uomo non era stato ancora in grado di estirpare dal suo essere. Sapevo che prima o poi ci saremmo imbattuti in quel mondo sanguinario e privo di scrupoli, ma facevo di tutto per ritardare quell’inevitabile giorno, cercando di insegnare a Zephyr parte della forza di Kamido.
-Perché devo imparare ad essere paziente?-
-È una conditio sine qua non. È il primo passo da compiere per guadagnare la perfezione.-
-State perdendo tempo, sensei: non diventerò mai paziente. Il sangue che scorre nelle mie vene mi spinge a vendicare la mia famiglia distrutta, il villaggio raso al suolo e la gente trucidata senza nessuna pietà. No,- concluse con una smorfia, -non imparerò mai ad avere pazienza se la mia mente ricorda quel giorno.-
Sebbene gelide parole gli uscivano dalla bocca, il tono era pacato, quasi sereno e questo non mi colse di sorpresa. Il suo autocontrollo era sempre stato notevole rispetto al mio quando avevo la sua stessa età e sapevo che quel pregio gli sarebbe stato utile per apprendere più alacremente.
-So cosa provi; posso sentirlo insieme a te. Ma ti assicuro che non è con l’istinto, con l’irrazionalità che risolverai qualcosa. Solo la pazienza ti renderà forte ed invulnerabile.-
-Siete un uomo saggio, sensei ed indubbiamente avete acquisito molta esperienza nella vita; ma non credo possiate comprendere il mio stato d’animo.- mi liquidò con un vago gesto della mano.
-Ecco il primo limite del tuo corpo: non credere. Il secondo è non avere pazienza.-
-Credere in cosa?-
Sorrisi appena rispondendo:
-Nel potere della mente.-
Ricordo ancora che l’espressione attonita dipinta sul suo bel volto mi diede fastidio. Il suo pensiero non era ancora in sintonia con il mio ed avrei dovuto lottare molto affinché esso si aprisse alla verità.
Ma col trascorrere degli anni l’allievo avrebbe superato il maestro, l’avrebbe annientato per poi, un giorno, essere distrutto a sua volta dal proprio allievo. Zephyr ancora non lo sapeva eppure io vivevo già il futuro, vivevo già la mia morte e tuttavia continuavo a vedere il futuro del mio allievo diventato maestro.

~

Passava la maggior parte del tempo meditando, concentrandosi per acquisire quella pazienza che gli mancava ed io, in segreto, ammiravo la sua tenacia. Era questa una delle cose che lo distingueva da me: voleva imparare tutto e subito ed io l'assecondavo entro i limiti concessi; in fondo, anche quello era un comportamento che palesava la sua impazienza. Nonostante questo piccolo neo, che col tempo sarebbe sparito completamente, non potevo desiderare allievo migliore.
Un giorno lo raggiunsi sulle rocce che costeggiavano il rigagnolo dal quale prelevavamo l'acqua e che scorreva placido accanto alla catapecchia e rimasi ad osservarlo a lungo, mentre i caldi raggi del sole davano maggior risalto alle sue lunghe ciocche cerulee.
Stava meditando e non lo disturbai. Mi sedetti sopra una roccia ed attesi, contemplando il desolato scenario che si stendeva a perdita d'occhio. Tutto l'intero pianeta ormai era deserto e rovine, macerie e polvere già da più di trent'anni, sotto il sole che bruciava tutto e tutti con il suo calore inesauribile. Ma avrebbe continuato ad esserlo ancora per poco e quando tornerò so già che non sarà più così, grazie a Zephyr ed al suo amico.
-Perché proprio io?- chiese all'improvviso.
Stava ancora in profonda concentrazione, eppure aveva avvertito la mia silente e discreta presenza.
-Ci sono persone,- risposi sommessamente, -a cui è dato odiare, altre amare. Ci sono persone a cui è dato intuire, altre capire. Vi sono persone, tu ed io, a cui è dato capire e conoscere.-
-Siete certo che sia proprio io quella persona?- domandò scettico.
-Lo so, il Karma pure. Tu me lo dimostri giorno dopo giorno.-
Rimase in silenzio e con la mente penetrai nella sua, condividendone le sensazioni e le emozioni. Vidi ciò che egli vedeva e rimasi incantato di fronte all'infinito paesaggio di ghiacci che affiorava dal suo subconscio. Armonia e poesia, pace e serenità erano le note dominanti che riempivano il cuore, creando sfumature sottili di sensazioni. E lì, sul ghiaccio bianco-azzurro, mi vidi come in realtà ero: un vecchio con la sua lunga barba bianca, le guance infossate, gli occhi eburnei circondati da rughe stanche e profonde, i capelli lunghi e candidi quasi sempre nascosti dall'enorme cappuccio; il mantello che mi ricopriva fino ai piedi, celava il corpo emaciato ma ancora pieno di vitalità. Sarei potuto sembrare un fantasma, tale era il mio aspetto, a tutt'oggi deteriorato ulteriormente, ma la luce che illuminava i miei occhi socchiusi dalle pesanti palpebre rivelava la forza che cercavo di occultare.
Anche Zephyr mi vide e sentii il suo corpo vibrare di incredulità.
"Siete proprio voi, sensei? Nella mia mente?” pensò esterrefatto.
"Ti meraviglia questo?”
"Noi... Noi stiamo comunicando!”
"È la prima volta che lo facciamo e questa è una conferma ulteriore: sei tu la persona giusta. Altrimenti non mi avresti neppure visto. La tua sensibilità è ancora debole, ma col tempo e con l'esercizio si consoliderà e quel giorno diventeremo una persona sola.”
L'attonimento e lo sforzo gli fecero perdere la concentrazione e si risvegliò sbattendo le palpebre, fissandomi come si può guardare per la prima volta qualcosa di meraviglioso, di inafferrabile e di inesplicabile. Sapevo esattamente quello che provava, senza dover penetrare nei suoi pensieri: era la medesima sensazione di sbalordimento e di impotenza provata a mio tempo.
Il rito continuava a ripetersi, instancabile e misterioso: le identiche emozioni, perplessità e curiosità.

martedì 14 dicembre 2010

domenica 12 dicembre 2010

Per gli amanti del fantasy - Primo capitolo de "La spada bianca"

Mi svegliai di soprassalto in piena notte, consapevole che quanto avevo sognato non era frutto di una fantasia sfrenata, bensì la realtà, una cruda ed amara realtà. Tutto il mio vecchio corpo era freddo, come se avessi dormito un sonno eterno, ma non mi meravigliai: del resto la vita e la morte per me erano due entità inscindibili che mi accompagnavano, e mi accompagnano tuttora, da tempo immemorabile.
Mi alzai dal giaciglio a rilento, presi il logoro mantello appoggiato su una sedia e lo indossai sopra i pantaloni e la camicia, anch'essi ridotti all'osso, forse più di me. Lo sguardo mi cadde sulla spada, una bellissima ed antichissima Katana, poggiata a terra accanto alla parete: sapevo fin troppo bene che dove stavo andando non mi sarebbe servita e la lasciai lì.
Mi avvolsi nel mantello, coprii la testa col cappuccio e mi affrettai ad uscire dalla catapecchia che mi ospitava già da molti anni, inoltrandomi nella notte fredda. Il cielo stellato, anche se opaco, mi indicò la via in mezzo al deserto e con il mio grave passo iniziai a camminare senza più la baldanza e lo spirito di un giovane.
Mi stavo dirigendo incontro a qualcosa che avrebbe mutato la mia esistenza e ne ero consapevole. Non era sesto senso, tanto meno una qualsiasi reazione emotiva a farmelo sapere, ma la mia perfetta conoscenza del passato e del futuro, così come conoscevo, e conosco, i segreti della vita e della morte.
Era scritto da tempo immemore che questo giorno sarebbe arrivato ed io non potevo fare nient’altro che accettare l'ineluttabile.
Mentre proseguivo nel cammino mi guardai un attimo intorno ed all'evanescente chiarore stellare vidi solo deserto e solitudine. La qual cosa mi era fin troppo familiare in quanto, da anni, avevo scelto di vivere isolato, da eremita ed i pochi sopravvissuti al disastro non sapevano neppure che esistessi. O meglio: erano certi che fossi morto, dato che avevo da un pezzo superato il secolo di vita.
Era quasi l'alba quando, infine, giunsi sul posto.
La scena che mi si presentò agli occhi era identica alla visione: il furgone era stato dato alle fiamme e lo scheletro annerito fumava ancora, alzando una colonna nera verso il cielo terso. Mi avvicinai e gettai un'occhiata all'interno e le ossa, o quello che restava, sparse sul posto di guida mi confermarono che l'uomo era stato dato alle fiamme insieme al furgone. Con un sospiro distolsi lo sguardo e scrutai intorno.
Un fiumiciattolo scorreva lì vicino, quasi seccato dal perenne calore del sole, e mi avvicinai osservando sconsolato il corpo sfigurato e mutilato di colei che nella visione mi era apparsa bellissima. L'acqua scorreva tra i suoi lunghi capelli e li faceva brillare come diamanti alla luce dell'aurora, mentre il braccio teso testimoniava che fino all'ultimo aveva cercato di proteggere qualcuno. Al suo fianco, lungo la sponda, giaceva riverso il corpo dell’altro ragazzo, poco più di un bambino e con sollecitudine mi diressi verso di lui. Mi inginocchiai e delicatamente lo rigirai, gli sollevai la testa scansandogli i capelli dal volto esangue, timoroso di essere giunto in ritardo ed al mio tocco le sue labbra pallide tremarono appena, facendomi tirare un sospiro di sollievo.
Con delicatezza lo presi in braccio, ignorando volutamente la ferita che gli squarciava in due il torace e dalla quale continuava a fluire sangue e mi accinsi a tornare sui miei passi, ben sapendo che l'altro bambino non l'avrei trovato.

~

Ricordo perfettamente che per un attimo il ragazzo morì; sentii la sua anima lasciarlo in silenzio, discretamente, pronta a tradirlo quando più aveva bisogno di lei, portandosi con sé i pochi anni di vita vissuta. A dispetto della mia esperienza, sapevo di non poter fare nulla: dovevo solo attendere.
Rimasi immobile al suo capezzale, con gli occhi chiusi ed una mano posata sulla ferita che avevo ricucito e che avrebbe lasciato una brutta cicatrice a perpetuo ricordo. Il suo cuore ancora giovane era fermo, ma sapevo con certezza che il suo cervello ed il suo corpo erano vivi e che invocavano a gran voce il ritorno alla vita.
Mentre ero lì in attesa che la sua anima tornasse, vidi il suo passato, così chiaro e limpido che mi parve di viverlo in prima persona.
All'inizio tutto era buio e non riuscivo a respirare, mentre mi dondolavo e mi rigiravo in un liquido sconosciuto che mi faceva sentire protetto. Provavo la sensazione di fluttuare in un universo scuro, senza luci e, nonostante il buio, non avevo paura. Capii che mi trovavo nell'utero materno e mi godetti quegli attimi privi di peso, dove mi muovevo con estrema facilità. Solo quando fu il momento di nascere qualcosa mi attanagliò lo stomaco, mentre venivo spinto dentro un cunicolo troppo stretto per la mia struttura fisica e sentii un dolore lancinante nell'attimo stesso in cui vidi la luce per la prima volta.
Ma se quella volta fu solo una sensazione, ricordo perfettamente il dolore che ho provato tutte le volte che sono venuto al mondo. Questa, però, è un’altra storia.
Vidi il ragazzo crescere robusto e sereno, circondato dall'affetto dei genitori e protetto dalla cattiveria umana dalla solidarietà degli abitanti del suo villaggio. Provai la sua stessa gioia quando, a sei anni, nacque il fratellino, che lui vedeva come un esserino grinzoso e niente affatto attraente. La sua famiglia si dedicava alla coltivazione di un piccolo pezzo di terra insieme a tutti gli abitanti del villaggio e lui, quando non doveva badare al fratellino, aiutava volentieri nella semina o nel raccolto, contribuendo, nel suo piccolo, al benessere della comunità. Fin quando un giorno il Re non aveva deciso di occupare l'intero villaggio per farne una sua residenza, confiscando la terra e rendendo schiavi gli abitanti. Per questo motivo la sua famiglia, nel marasma che si era creato, era fuggita; ma l'esercito del Re, che era lì proprio per loro, li aveva raggiunti ed aveva ucciso i genitori senza pietà e ferito a morte il ragazzo, credendolo morto, e portandosi via il piccolo.
La storia, ora, era al presente ma, ciò nonostante, continuai a vedere il ragazzo crescere con un vecchio che gli faceva da maestro per renderlo perfetto. Il suo futuro non fu più un segreto per me e quello che vidi mi fece soffrire oltremodo.
Riaprii gli occhi e seppi che il ragazzo era di nuovo vivo: la sua anima era tornata, rimandata indietro dai disegni di Kamido.
Allora mi alzai dalla sedia, presi una ciotola piena d'acqua e con una salvietta gli inumidii il volto pallido e gelido.

martedì 30 novembre 2010

Sconti natalizi

Carina l'idea di Lulu di dare la possibilità a noi autori di poter inserire lo sconto sui nostri libri. Direi che a questo punto il prezzario del sito americano può tranquillamente rivaleggiare con quello italiano di Ilmiolibro.

martedì 23 novembre 2010

Enrico Toti

(Roma, 20 agosto 1882 - Monfalcone, 6 agosto 1916)

Le Alpi, questo maestoso spettacolo della natura, questo baluardo che ci ripara dai freddi venti del nord e che, in teoria, ci avrebbe dovuto salvare dalle invasioni… L'abbagliante candore del Bianco è così forte che sono costretta a socchiudere gli occhi, mentre la gente intorno a me si affretta verso la funivia, imbacuccata nelle tute a vento, simili a variopinti pinguini ed abbasso lo sguardo per sbirciarmi: anch'io sembro un pinguino e la cosa mi fa sorridere divertita.
Un rapace, che non riconosco a causa del riverbero provocato dalla neve, sfreccia nel cielo terso, emettendo un acuto che rimbomba nella vallata e che richiama la mia totale attenzione. E' spettacolare.
Alcuni turisti di lingua tedesca scherzano, con le gote rosse che spiccano sulla pelle candida, i capelli chiari come oro e gli occhi azzurri come il cielo e sto per unirmi a loro, quando qualcuno mi afferra saldamente per un braccio trattenendomi. Inghiottisco l'urlo di spavento che mi è salito in gola e mi giro di scatto, rimanendo a fissarlo con occhi sgranati. Una rapidissima occhiata alla sua sola gamba destra mi fa deglutire e rimango a fissarlo incantata.
-Ora non fanno più paura, vero?- esordisce con forte accento romano.
Ammicca ai ragazzi teutonici ed io scuoto la testa, rendendomi conto che sono emozionatissima. Il mio respiro è corto, il cuore mi galoppa indemoniato dinanzi a questo giovane minuto, dai baffoni spioventi e dal naso pronunciato.
-Enrico Toti…- sussurro, ancora incredula.
Accenna un impercettibile inchino e sbircio la sua famosissima gruccia che lo sorregge.
-Ma tu ti fidi di loro?-
Capisco che si sta riferendo nuovamente ai turisti e con condiscendenza rispondo:
-Sì, mi fido. Non è più come una volta, credimi.-
Esita, poco convinto, e continua:
-Eccellenti soldati. Veri guerrieri. E' stato duro combatterli. Ma, lasciatelo dire da chi li ha visti in opera con i propri occhi, vere macchine belligeranti.-
-Oh, ma loro non sono più…-
-Le hai viste le loro trincee? Le loro, non le nostre o quelle francesi.- ribadisce. -Erano in grado di scavare trincee corredate di tutto, persino di brande comode, in metà del tempo che occorreva a noi od ai nostri alleati. Non ho mai visto trincee simili. Veri e propri baluardi invalicabili.-
Annuisce mentre parla, gli occhi al cielo, persi in un ricordo lontano nel tempo che noi, sebbene vicini all'epoca, non riusciamo a percepire nella sua piena crudezza. Posso solo provare ad immaginare i nuovi italiani, coloro che dal 1870 facevano parte dell'Italia unificata, questi giovani che, di punto in bianco, si sono visti crollare i confini tra una regione e l'altra, i sardi venuti a stretto contatto con i pugliesi, con i toscani, con i veneziani, con i romani e non più pugliesi, romani o sardi, ma italiani con tanto di patria, di inno nazionale, in tutto e per tutto uguali agli inglesi, ai francesi, agli austriaci, ai russi…
-Mio Dio… quale periodo di sublime abnegazione per il raggiungimento di un alto ideale…- sussurro mio malgrado incantata.
-Puoi dirlo forte, ragazza!- esclama con gagliardo orgoglio.
Un secondo dopo lo vedo rabbuiarsi e si china un po' in avanti, per sussurrare:
-E pensare che oggi qualcuno vorrebbe che l'Italia si dividesse nuovamente! Ma ti rendi conto?-
Posso capire benissimo lo sdegno di chi, come lui, ha donato la vita per l'Italia e mi domando cosa ne pensa dell'Italia attuale. Meglio sorvolare.
-Tu sei di Roma, vero?-
-Roma, sì, l'ultima ad essere annessa al regno, grazie ai valorosi bersaglieri.-
Gli brillano gli occhi e ne approfitto per chiedere:
-E' per questo che ti sei arruolato nei bersaglieri, nonostante la menomazione?-
-Certo! Bersaglieri in bicicletta. Be',- ammette con una certa riluttanza, -ho dovuto insistere un po'…-
Sorrido, ripensando alla sua vita, al suo incidente sul lavoro che, nel 1908 come oggi, gli ha portato via la gamba, alla sua ferrea volontà di essere in tutto e per tutto uguale agli altri, la bicicletta che lo ha portato in giro per il mondo, fino allo scoppio della guerra, la Grande Guerra.
-Il mio ardore di patriota non poteva tollerare che Trento e Trieste fossero ancora in mano agli austriaci, per questo ho fatto di tutto per arruolarmi. Ho interceduto presso il duca d'Aosta, pur di partire per il fronte.-
-Ed una volta lì?-
Lo vedo esitare un attimo, si gratta la nuca e sorride, con quel suo sfavillante ottimismo che lo ha sempre contraddistinto.
-Be', il fronte non era certo rose e fiori… Facevo la spola tra i feriti, portando conforto, posta e tutto l'aiuto possibile. Ma ero comunque un infiltrato.- ammette.
-Un infiltrato?- ripeto sconcertata.
-Che vuoi… La mia unica gamba non mi permetteva di venire arruolato; tuttavia io sono partito lo stesso, con una divisa senza mostrine né stellette, ma con tanta voglia di dimostrare il mio orgoglio di essere italiano.-
-Sei stato a lungo a Cervignano, vero?-
-Sì. Mi trovavo bene, anche se a volte incappavo nei soldati che provenivano dal fronte e non comprendevano il mio entusiasmo. Certo,- aggiunge alzando le spalle, -immaginavo gli orrori delle trincee, ma per me partecipare alla guerra significava coronare il sogno dei nostri padri che erano riusciti ad unificare l'Italia, significava legittimare Porta Pia e dimostrare che gli sforzi dei padri non erano stati vani.-
Tutto il suo volto, dagli occhi alla bocca, splende di luce propria mentre parla ed un groppo mi chiude la gola all'improvviso. Quest'uomo era animato da ideali puri, scevri di politica e di retorica, spinto solo dall'entusiasmo e dall'orgoglio di essere italiano e domando:
-Quanto ha contato per te essere romano?-
-Tantissimo. Ero il figlio dell'ultima roccaforte papalina, quella che si ostinava a mantenersi indipendente e che non ci pensava minimamente a riconoscere i Savoia come sovrani legittimi. A Roma si respirava aria strana quando sono nato, appena dodici anni dopo la presa di Porta Pia: da una parte l'atavico attaccamento al papa, dall'altro il nuovo legame al re. Ma noi romani siamo gente strana, ci adattiamo a tutto. Sono fiero ed orgoglioso di essere romano ed è stata questa consapevolezza a spingermi fino alle trincee: dimostrare il valore di un trasteverino.-
-Alla fine sei riuscito a farti arruolare.-
-Sì! Finalmente, nel 1916, mi presero nel Terzo Ciclisti Bersaglieri, la Brigata Pinerolo. Da quel momento in poi potei stare con i miei compagni in trincea e, sebbene non mi fosse stato concesso di partecipare attivamente agli scontri, rimanevo sempre con i miei compagni, e spesso leggevo loro il giornale, le lettere, perché… Be', coloro che studiavano all'epoca erano pochissimi, io sono stato fortunato a fare le elementari e non ero ignorante. Ho persino scritto su un giornale. E loro mi chiedevano di leggergli le lettere, di scriverle ed io facevo quanto possibile per mantenere alto il morale. Spesso mi avventuravo nella terra di nessuno e loro mi rimproveravano, dicendomi che era pericoloso, ma io non temevo la morte.-
-Eri un po' spericolato, ammettilo.- sorrido.
Annuisce ed inspira a fondo l'aria fredda.
Provo ad immaginarlo quando, deciso l'attacco di quel 6 agosto a quota 85, si getta con i suoi compagni contro le trincee nemiche, sorretto dalla gruccia che lo accompagnava sempre, mentre incita i compagni a squarciagola. Provo ad immaginarlo mentre si siede sul muretto della trincea e spara con il fucile a ridosso degli austriaci, animato dall'entusiasmo e sorretto da un ideale più grande di lui, mentre dalla sua bocca escono continuamente esortazioni ai suoi commilitoni.
Come per magia, sento gli spari nemici che lo colpiscono, li sento come se mi rimbombassero nelle orecchie e per un attimo il cuore mi si ferma, come colpito a morte. Sgrano gli occhi e davanti a me non c'è più la neve, non c'è più la funivia, ma solo buche enormi, fili spinati, trincee, feriti, morti ed apro la bocca per urlare, ma il grido mi muore in gola, alla stessa maniera in cui i soldati vengono falciati dalle mitragliatrici. Non so dove questi uomini prendono il coraggio a due mani e si gettano a capofitto verso la morte sicura: io questo coraggio non l'avrò mai.
Poi lo vedo, lui, irritato per essere stato colpito, afferrare la sua gruccia in un ultimo disperato tentativo e scagliarla contro il nemico, in un gesto che più eloquente non potrebbe essere. Lo vedo accasciarsi, sussurrare le sue famose parole: "Tanto nun moro io", baciare il piumetto del suo cappello e restituire la sua dolce anima a Dio.
Mi rendo conto che i miei occhi sono pieni di lacrime e deglutisco più volte per non scoppiare a piangere.
-Aho, ma che ti metti a piangere?- esclama incredulo.
Scuoto la testa ma non riesco ancora a parlare. Mi accorgo che la neve è tornata a dominare con il suo candore, manto purificatore sulle follie umane ed inspiro a fondo.
-La medaglia d'oro te la sei più che meritata.-
-Avrà consolato mia madre e mia sorella. A me è sufficiente sapere e sperare che gli italiani di oggi amino ancora l'Italia come l'abbiamo amata noi.-
-Questo… Questo non lo so.- ammetto e mi vergogno come una ladra.
Lo vedo sorridere dolcemente e sposta la gruccia per posizionarla meglio.
-Io credo… Io sono sicuro che i miei romani, quando passano davanti al mio monumento al Pincio, non possano far altro che condividere i miei stessi ideali. Se così non fosse,- aggiunge mestamente, -allora il sacrificio di tante generazioni è stato vano.-
-Non il tuo.- mi appresto ad affermare. -Noi romani non potremmo mai dimenticare. Mai.-
Mi fissa a lungo, quindi volge lo sguardo ai turisti austriaci, il pensiero perso in un ricordo lontano ed un attimo dopo lo vedo annuire, prima di svanire confondendosi con la neve.
Rimango immobile, infagottata come un pinguino ed istintivamente porto la mano al cuore, mentre nella mente mi torna un ritornello che oggi non dice più nulla, ma che era caro ai nostri soldati: "Il Piave mormorò: non passa lo straniero!".

Gabriella

Mi mancherai, mi mancherà il tuo sorriso, la tua allegria, la tua disponibilità, la tua dolcezza e la tua amicizia. Ciao.

giovedì 18 novembre 2010

Riflessione

Una volta, fino a non molto tempo fa, il reo veniva messo alla gogna, affinché tutti potessero vederlo e riconoscerlo ed evitarlo nel futuro; oggi il reo viene celato, nascosto come se fosse innocente, le sue malefatte in diretta tutelate dalla privacy, affinché un domani, scontata la pena (ammesso e concesso che la sconti), possa continuare imperterrito a delinquere.
Un paradosso del nostro progresso: si giunge a tutelare i criminali e si mettono alla gogna gli innocenti.

domenica 7 novembre 2010

Stralcio da "Il richiamo del silenzio"

Melissa parcheggiò il motorino accanto al Suzuki ed insieme ad Isa si avviò verso il Palazzo, mentre il frinire incessante delle cicale riempiva le orecchie, inframmezzato all’abbaiare dei cani che si rincorrevano giocando.
Quando le vide, Tiziano sorrise e Melissa lo salutò offrendogli le labbra.
-Ehi, ehi!- esclamò Alessandro notando il gesto. -Cos’è questa novità?-
-Fatti i cazzi tuoi.- lo rimbeccò Alice con durezza.
L’interpellato fece una smorfia ed Isa si avvicinò ad Alice, felice di trovarla lì. Questa la sorprese posandole due baci sulle guance come saluto, lasciandola inebetita, con le gote in fiamme ed il cuore che sembrava improvvisamente impazzito.
-Ci… ciao.- balbettò confusa.
-Come sei carina oggi.- si complimentò Alice con un sorriso. -Dovresti truccarti più spesso per dare risalto ai tuoi lineamenti dolci.-
L’altra arrossì ancor più, provando a dire qualcosa, senza riuscirci e la ragazza continuò con i suggerimenti:
-Io proverei a mettere l’ombretto diversamente ed a sottolineare l’occhio con una matita nera.-
-Ha parlato l’esperta.- bofonchiò Alessandro con disprezzo, sputando per terra.
Alice aggrottò le sopracciglia e stava per replicare, quando Isa la prevenne avventandosi contro il ragazzo:
-Chiudi quella bocca di merda che ti ritrovi!-
-Aho, e che avrò detto mai?- si difese stizzito con un brusco gesto delle braccia.
-L’hai offesa, stronzo!-
-Offesa lei?! Ma se ho solo detto la verità!-
Alice intervenne e si mise in mezzo, per evitare che la situazione degenerasse e con fermezza agguantò Isa per un braccio e la trascinò via, ignorando di proposito le sue proteste ed i rimbrotti di Alessandro.
Raggiunsero Melissa e Tiziano lungo il prato, che passeggiavano abbracciati come due normali adolescenti, ignari del mondo esterno, pregni solo della reciproca vicinanza. Alice li osservò senza riuscire a nascondere una certa soddisfazione, quindi si volse verso la ragazza che le camminava al fianco e disse:
-Grazie per avermi difesa, anche se non c’era bisogno: da tempo ho imparato a farlo da sola.-
Isa mise le mani in tasca dei jeans e tirò un calcio ad un rametto di albero caduto a terra, prima di rispondere:
-Difenderti contro quello stronzo è stata una vera soddisfazione.-
-Sì, ho notato la tua foga.- disse sorridendo. -Hai un bel caratterino, non c’è che dire.-
Isa si girò a guardarla e con un mezzo sorriso ammise:
-Ho dovuto imparare anche io a difendermi da sola.-
Alice annuì ed iniziò a massaggiarsi le reni, avvertendo la crisi invadere il suo corpo e con un sospiro rovistò nella borsetta per controllare di avere la siringa.
-Devo farmi.- disse.
-Non al Palazzo, spero! Lo stronzo di Alex…-
-Vieni.-
La prese per mano ed insieme raggiunsero Tiziano e Melissa che tubavano come piccioni, immersi in un bellissimo angolo di prato dove convivevano in un rigoglio naturale papaveri e spighe, con lo sfondo suggestivo dei ruderi romani, dove lucertole dal manto verde brillante si affacciavano per fare rifornimento di calore.
-Non voglio interrompere l’idillio più di tanto,- iniziò Alice allegramente, -ma avrei bisogno delle chiavi del Suzuki.-
Tiziano frugò nelle tasche con un gesto automatico e gliele porse, notando solo all’ultimo la mano nella mano delle due ragazze che si allontanavano lungo il sentiero acciottolato. Per un istante fissò la figura di Alice come se non credesse ai propri occhi e le seguì con lo sguardo fino al fuoristrada, esclamando infine:
-Ehi, si tengono per mano!-
-E allora?- rispose Melissa reclamando la sua totale attenzione. -Tra donne è normale, non siamo orsi come voi.-
-Però Alice non…-
Melissa gli tappò la bocca con un bacio, mentre le due amiche salivano sul Suzuki ed Alice si preparava a bucare.
-Qualcuno ti può vedere.- l’avvisò Isa osservandosi intorno.
-Peggio per loro.- fu la lapidaria risposta dettata dall’urgenza del momento.
Tirò su la manica della maglietta, legò il braccio e tastò in cerca di una vena. Quando iniettò il fix si lasciò andare contro lo schienale del sedile e chiuse gli occhi, sentendosi meglio. Isa la osservò, così incredibilmente donna che quasi stentava ad immaginarla in modo diverso e disse:
-Ho visto la foto che ritrae te e Morte.-
Alice riaprì gli occhi, tolse la siringa con gesti lenti e stanchi e la rimise in borsa, prima di posare lo sguardo su di lei.
-La mia vita precedente.- ammise.
-Eri un ragazzo bellissimo.-
-Così dicono.-
Isa sospirò e si morse le labbra.
-Sarebbe interessante vederti senza trucco e con abiti maschili.-
Alice corrugò le sopracciglia e scosse la testa, rispondendo con tono sostenuto:
-Io sono quella che vedi e non torno indietro.-
-Lo so. Era solo una curiosità.-
-Be’, vedi di fartela passare.-
Il tono brusco sorprese entrambe e per un attimo evitarono di guardarsi, fin quando Alice fece un gesto vago con la mano, chiedendo scusa per il tono.
-Non devi farlo, sono io la stupida.- mormorò Isa chinando appena la testa.
L’altra rimase in silenzio per un po’, quindi si mise seduta più comodamente e disse:
-Mi spiace. Non potrò mai essere quello che speri.-
Isa arrossì per l’ennesima volta e lei continuò conciliante:
-Però potremmo essere amiche. Tu sei molto carina e certamente troverai un ragazzo che ti vorrà bene, uno con i pantaloni.- aggiunse con un sorriso.
-Non mi interessano gli uomini.-
A quella rivelazione, annunciata con tono inequivocabile, Alice la studiò attentamente, prestandole più attenzione del solito e quando Isa alzò lo sguardo, vi lesse tutta la battaglia che dilaniava la sua mente ed il suo corpo e che le ricordò dolorosamente la propria.
-Sei sicura?-
-Io… Sì, credo di sì.-
-Non tutti gli uomini sono mostri.-
-Quelli che ho conosciuto io sì. A parte Morte.-
-Ah, sì, lui è un caso a parte.- concesse con un gesto lezioso della mano. -Ma ti assicuro che non è il solo.- aggiunse con un sorriso.
Isa scosse la testa, strinse le mani a pugno e stava per ribattere, quando un’ombra si materializzò al finestrino alle spalle di Alice e quello che vide la fece impallidire visibilmente.

Il richiamo del silenzio

Il nuovo romanzo, scaricabile come sempre gratuitamente dal sito Lulu.com

domenica 29 agosto 2010

Aforisma

Come quando vi guardate allo specchio: il riflesso siete voi, ma voi non siete il riflesso. Zen

lunedì 2 agosto 2010

Europei

Un mega, ultra grandissimo GRAZIE ai nostri azzurri del baseball che hanno vinto gli europei! Bravissimi, ragazzi!

lunedì 5 luglio 2010

Aforisma

"Possiamo parlare francamente dei nostri difetti soltanto a coloro che riconoscono le nostre qualità."
A. Maurois

lunedì 28 giugno 2010

Aforisma

"Essere donna è un compito difficile: consiste nell’avere a che fare con gli uomini."
J. Conrad

giovedì 10 giugno 2010

Stralcio da "Agemina"

Ruggero attese che Vidicungo tornasse con Orso e nel frattempo si toccava la parte sinistra del volto, debitamente fasciata, che aveva fatto curare e ricucire dalle donne. Il cerusico gli aveva assicurato che la lacerazione, che tagliava in verticale l’intera guancia e terminava sopra l'arco sopraccigliare, si sarebbe rimarginata e la ferita, in effetti, aveva smesso di sanguinare, in quanto il taglio era solo superficiale; purtroppo aveva perso l'uso dell'occhio ed il cerusico gli aveva detto che presto sarebbe imbiancato, a testimonianza della mancanza della vista. Per tutto il giorno non aveva fatto altro che ripensare a quegli uomini d'arme, visti da bambino, che avevano perso un occhio od entrambi, ricordando il timore provato per colpa dello strano colore che assumevano quando non vedevano più. A lui sarebbe accaduta la stessa cosa e non per colpa di una guerra o di un duello, ma solo perché un menestrello aveva agito permeato dal livore.
Si toccò nuovamente le bende che gli ricoprivano parte del volto e l'intera testa, e pensò che, probabilmente, non sarebbe mai riuscito a perdonare Orso per quell'atto inconsulto. Se fosse dipeso da lui, l’avrebbe ammazzato senza pensarci due volte; questo, però, avrebbe significato far del male a Jano. Il solo pensiero del conte gli procurò una stretta allo stomaco: con quale coraggio si sarebbe fatto vedere da lui ridotto in quello stato?
Fece alcuni passi per la stanza, cercando di mantenere la calma e di ignorare il dolore dei punti di sutura che tiravano la carne e del dolore fortissimo alla testa, e sperò che Braccio non notasse la sua assenza. Gli aveva portato una serva nella speranza che lo tenesse impegnato per un po' e nel frattempo era corso a cercare Vidicungo. Ora, come un animale in gabbia, se ne stava nello studio del siniscalco, in attesa che tornasse con Orso, del quale aveva richiesto la presenza.
E poco dopo la porta si aprì ed i due uomini entrarono dentro con aria bellicosa ed infastidita all'unisono.
Orso osservò la fasciatura e non riuscì a trattenersi dal piegare le labbra in un lieve sogghigno di trionfo. Ride bene chi ride ultimo, pensò Ruggero ribollendo d'ira.
-Eccoci qui, come da voi richiesto.- iniziò Vidicungo evidentemente spazientito.
Orso si avvicinò al camino dove scoppiettava un fuoco vivace che proiettava le ombre sulle pareti di pietra e rimase in attesa, palesando la sua totale indifferenza a quello che aveva da dire. Ruggero si limitò ad inserire la mano dentro il giaco e ad estrarne la lettera di Jano. Con le sopracciglia aggrottate ed una muta domanda nello sguardo, Vidicungo la prese, ruppe il sigillo e la scorse rapidamente. Orso si rese conto che, mano mano che prendeva visione del contenuto, il siniscalco impallidiva e sbirciava Ruggero con gli occhi che gli strabuzzavano dalle orbite. Quando terminò, inebetito, passò il foglio ad Orso con mano tremante ed attese che leggesse. Nel frattempo Ruggero studiava il menestrello con un'attenzione tale che, se se ne fosse accorto, lo avrebbe irritato oltremodo. C'era qualcosa in lui che, stranamente, gli ricordava Jano e quella somiglianza gli fece battere forte il cuore.
-Non è vero!- sbottò Orso con veemenza, fissando Ruggero con evidente disprezzo.
Questi abbozzò un sorriso di vittoria e raddrizzò le spalle, mettendo le mani dentro la cinta legata in vita, confermando:
-È la verità. Il signor conte mi ha preso al suo servizio.-
Orso scosse la testa, incredulo ed attonito e Vidicungo si mise seduto dietro la scrivania, esortandolo a raccontare cosa avesse portato il loro signore ad una simile decisione. Ruggero spiegò brevemente tutto quello che era accaduto, senza tralasciare nulla, studiando le espressioni dei due uomini che aveva di fronte, i quali inorridirono alle sue parole e lo fissarono trasecolando, l'aria sempre più mortificata.
Alla fine Orso alzò le braccia in segno di resa e sputò velenoso:
-Se questo è ciò che ritiene opportuno il mio signore, chi sono io per confutare le sue decisioni? Capirà da solo che sta sbagliando di grosso.-
Ruggero ricevette l'insulto come una staffilata e si irrigidì restringendo pericolosamente l’unico occhio rimastogli, mentre Vidicungo lo preveniva dicendo:
-Basta così. Se questo è ciò che vuole Jano, noi lo accetteremo. Bisognerà informare Gelina e mantenere il segreto con tutti gli altri.-
-Ci penso io.- si offrì Orso.
Stava per andarsene nauseato, quando Ruggero lo bloccò, afferrandolo per un braccio.
-Forse dovremmo riconsiderare le nostre posizioni.- suggerì conciliante. -Potremmo riporre le armi e provare a coesistere pacificamente.-
L’altro diede uno strattone e si liberò, sibilando:
-No, mai.-
-Io non vi ho fatto nulla.- gli fece notare.
Orso strinse i denti e fissò la benda macchiata di sangue. Era vero. Ma la repulsione che provava era un'antipatia a pelle che faticava a tenere nascosta. Dopo aver lanciato un'occhiata a Vidicungo, uscì in cerca di Gelina e dell'aria che gli stava venendo meno.

~

Gelina lo fissò senza riuscire ad aprire bocca, talmente rimase sbigottita. Ora tanti perché si chiarivano e l'idea di rendere omaggio all'uomo che aveva posto l'assedio e che intendeva passare come liberatore la ripugnava. Allo stesso modo di come la disgustava sapere che lui intendeva sposarla per entrare in possesso del feudo di Jano. Il solo pensiero, poi, che suo fratello avesse rischiato la vita…
Orso l'abbracciò e le accarezzò la schiena, cercando di consolarla, dicendole che, tutto sommato, era stata una fortuna che Ruggero avesse cambiato bandiera e non avesse portato a termine il folle progetto di Braccio.
-Ho paura.- sussurrò contro il suo torace. -Cosa sta succedendo?-
-Stai tranquilla, non accadrà niente.- la consolò odorando i suoi capelli.
-Ma Braccio è qui con i suoi cavalieri…-
Orso capì immediatamente dove volesse andare a parare e le prese il volto a due mani per guardarla negli occhi spaventati.
-Anche noi siamo tanti.-
Gelina accettò quella bugia detta a fin di bene e si morse le labbra.
-Io non voglio sposare quell'uomo.-
-Non lo sposerai.-
-Lui pensa che Jano sia morto…-
-Ruggero ha l'ordine di tenerlo a bada fino all'arrivo di tuo fratello.-
-Io… Non ce la faccio stasera… Rendergli onore per… No, non ce la faccio.-
-Sì che ce la fai.- intimò con fermezza. -Ricordati che solo noi e Vidicungo sappiamo la verità e lui non deve minimamente sospettare.-
Gelina strinse i denti e trattenne le lacrime che, ultimamente, le pungevano gli occhi troppo di sovente. Orso le sorrise incoraggiante, accarezzandole le guance con i pollici e con insinuante dolcezza le ricordò:
-Dov'è finita l'intrepida pulzella che combatte come un uomo? I miei insegnamenti non sono dunque serviti a nulla?-
Lei si agitò un po', punta nell'orgoglio, ma sapeva che voleva solo incoraggiarla in quel momento particolare e con mestizia rispose:
-Sono qui e farò la mia parte.-
Orso annuì lievemente ed un secondo dopo si chinò a baciarla, sentendola fremere tra le sue braccia.
-Io ti starò vicino, non ti lascerò.- promise sulle sue labbra.
Lei lo guardò negli occhi ed annuì, sentendosi protetta ed al sicuro vicino a lui.


Napoli, autunno 1294
Jano accarezzò il suo destriero con infinita dolcezza, sussurrandogli parole tenere che l'animale gradì posando il muso contro la testa del ragazzo.
-Lo viziate troppo.- protestò Luchino incrociando le braccia al petto.
-Lo vizio perché lo amo.-
-Avete il cuore troppo tenero, mio signore.-
-Solo con chi amo.-
Il ragazzino scosse la testa ricciuta e tornò a strigliare il destriero, mentre Jano continuava imperterrito a coccolarlo, mirando il suo manto che risplendeva sotto i raggi del sole che entravano da una finestrella.
Tancredi apparve in quel momento sulla porta della scuderia, seguito da un cavaliere di Roccagelata; si guardò intorno come se fosse braccato e si avvicinò con passo sicuro al recinto dove stava Jano con Luchino.
-Tu lo strigli troppo.- disse scarmigliando i capelli del ragazzino. -Così lo vizi.-
Luchino sgranò gli occhi e spalancò la bocca, mentre sentiva il suo signore scoppiare in una sonora risata.
-Che c'è?- borbottò Tancredi studiando ora uno ora l’altro. -Cos'ho detto di sbagliato?-
-Nulla, amico mio.- lo rassicurò Jano battendogli una mano sulla scapola.
Ma quando vide chi era l'altro cavaliere, si scurì e s’informò con tono serio:
-Problemi?-
L'uomo, che era stato messo alle costole di Celestino V da Jano per tenerlo lontano il più possibile dal Caetani, esitò, non sapendo se parlare dinanzi al ragazzino. Il conte capì e gli fece un cenno con la testa, lasciando Luchino ad accudire il destriero e loro si rintanarono in un recinto vuoto della scuderia, lontani da orecchie indiscrete. Il cavaliere aveva il volto cadaverico e le labbra serrate e si guardava intorno con circospezione, facendo incuriosire oltremodo l’interlocutore. Notando che non accennava ad aprir bocca, Tancredi gli diede una leggera spinta e questi, dopo aver deglutito, si risolse a balbettare:
-Non so se sia vero, ma… Il cardinale ha parlato con il papa… ed un paggio… e il paggio del Colonna… Il paggio si è lasciato sfuggire alcune parole che… che se fossero vere…- e si fece il segno della croce, intonando un Padre Nostro in sordina.
-Va' avanti.- lo esortò Jano con malcelata impazienza, le braccia incrociate al petto. -Immagino che il cardinale in questione sia il Caetani.-
-Ecco…-
L'uomo si guardò ancora intorno, gli occhi sbarrati per il terrore che gli procurava la sua stessa notizia, quindi si fece nuovamente il segno della croce ed infine sussurrò:
-Pare che il papa voglia abdicare.-
Jano si irrigidì e spostò lo sguardo annichilito su Tancredi, per rendersi conto se avesse udito male. L'amico era serio e grave, segno che aveva recepito benissimo l'informazione e che le sue orecchie funzionavano ancora bene, quindi tornò a concentrarsi sull'altro cavaliere e domandò:
-Sei certo di ciò che dici?-
L’uomo annuì lentamente e sussurrò:
-Diciamo solo che… ho sentito il paggio del Caetani che ne parlava con uno del cardinale Colonna.-
Jano rimase a lungo pensieroso, sotto lo sguardo attento di Tancredi e terrorizzato dell'altro. Era evidente che entrambi aspettassero che dicesse la sua in merito, soprattutto perché la notizia, se confermata, sarebbe stata non grave ma gravissima. Provò ad immaginare cosa sarebbe accaduto se la voce fosse risultata vera e, tra tutte le possibili risposte, una sola prevaricò sulle altre: il caos, il giorno dell’Apocalisse. Per un attimo sentì un nodo in gola che gli impediva di respirare e comprese che era la paura che avanzava, quella paura che si prova quando si guarda la morte in faccia; eppure vedere Tancredi e l’altro che lo fissavano in attesa che li rincuorasse, lo costrinse ad imporsi la ferrea disciplina alla quale suo padre lo aveva allevato e, schiarendosi la gola, mormorò:
-Voci di corridoio…-
-In effetti…- commentò Tancredi con evidente sollievo, scacciando le mosche che gli ronzavano intorno con fastidiosa insistenza.
Jano annuì, ben sapendo che non c'era nulla di più vero o di più falso delle voci di corridoio e solo il tempo avrebbe convalidato o meno il cosiddetto "sentito dire".
Notando le facce preoccupate dei due uomini, ed immaginando la propria, si costrinse a sorridere, cercando di mostrare una fiducia che era ben lungi dal provare e disse con una certa logica:
-Be’, voi avete mai udito di un papa che abbia abdicato?-
Gli altri scossero lentamente la testa, nella vaga speranza che schiarisse le tenebre dei loro pensieri e lui continuò:
-E dunque, vi siete risposti da soli.-
-Allora ritieni che sia una fandonia?- domandò Tancredi.
-Certo. Chi è quel pazzo che rinuncerebbe alla tiara? Solo un folle lo farebbe e Celestino non è folle.-
I due cavalieri non trovarono pecche in quel discorso conciso, lapidario e quasi tirarono un sospiro di sollievo quando recepirono che nulla sarebbe cambiato e dopo un po' iniziarono a ridere di loro stessi e della paura provata. Jano li esortò ad andare a bere una birra e quando li vide lasciare la scuderia con aria sollevata si avvicinò a Luchino e gli disse ammiccando:
-Vizialo bene.-
Il ragazzino lo vide fare l'occhiolino e con un sorriso riprese a strigliare il cavallo con rinnovato vigore.

mercoledì 9 giugno 2010

Aforisma

"Saggio è colui che, pur avendo ragione, cerca un punto di incontro con gli avversari."
I King

venerdì 7 maggio 2010

Animali meravigliosi!

http://www.repubblica.it/ambiente/2010/05/07/foto/animali_che_si_danno_il_cinque-3888077/1/

martedì 4 maggio 2010

Aforisma

"Impariamo sempre troppo tardi che la vita è tutta nello svolgere delle ore e dei giorni". S. Leacock

venerdì 23 aprile 2010

Stralcio da "ilcondottiero"

Forlì, 19 dicembre 1499
Sotto una pioggia scrosciante, Cesare entrò nella città in mezzo alle sue truppe, schierate per rendergli onore e si diresse al palazzo di Luffo Numai, l'uomo di fiducia di Caterina Sforza, che lei credeva incorruttibile.
Come aveva annunciato al duca di Ferrara, la rocca di Imola aveva abbassato i ponti il 13 dicembre e Giovanni Borgia, Legato a latere, aveva celebrato la vittoria con una solenne funzione religiosa. Il 15, dopo che Dionigi di Naldo si era messo al suo servizio, era ripartito in direzione di Forlì, presagendo una lotta accanita.
Luffo Numai seguì l'esempio di Dionigi, mettendogli a disposizione il palazzo e la propria persona, ma prima ancora di assediare la rocca, si vide costretto a combattere contro i capitani francesi del suo seguito, i quali incitavano gli uomini al saccheggio ed ai soprusi.
Forlì, che aveva seguito l'esempio di Imola aprendo ben volentieri le braccia e le porte al Valentino, ritenendolo un liberatore, si vide ripagata dalla violenza più truce e perpetrata contro la volontà dello stesso Cesare. Quando riuscì a riportare l'ordine tra le truppe, fece accerchiare il Ravaldino e lui medesimo andò a studiarlo da vicino, per rendersi conto di trovarsi davanti ad un mostro imprendibile. Ma non si scoraggiò ed ordinò alle artiglierie di sparare incessantemente.
Per giorni e giorni le sue macchine belliche continuarono a vomitare palle, ferendo il mostro invincibile ma non abbattendolo: sembrava di udire nell'aria la risata stridula di Caterina, che incassava colpi senza cedere.


Forlì, 26 dicembre 1499
Aggrottò le sopracciglia, il volto furioso per una tale perdita di tempo, in groppa al suo destriero, ricoperto dall'armatura splendente. La celata era abbassata ed il suo sguardo penetrante fissava le mura con malcelato risentimento. La rocca del Ravaldino era lì, imperiosa davanti ai suoi occhi, che pareva deriderlo senza cedere e lui immobile nella radura, solitario cavaliere pronto ad esplodere d'ira.
In quel momento ripensò quando, a Milano, aveva conosciuto Leonardo da Vinci, l’inventore. Se fosse stato al suo fianco, certamente gli avrebbe costruito nuove e più potenti macchine belliche e la rocca sarebbe già caduta.
All'improvviso incitò il cavallo ed al passo si avvicinò ai capitani. Ordinò di cessare il bombardamento e si tolse l'elmo, lasciando il capo ricoperto dal camaglio, recuperando la naturale indifferenza. Michelotto avvicinò il proprio destriero al suo e lo fissò dritto negli occhi.
-Cosa vuoi fare?- domandò preoccupato.
-Stai pure tranquillo, amico mio.-
-Conosco quello sguardo.-
Cesare piegò le labbra in un sorriso ed in silenzio si avvicinò alle mura della rocca, sprezzante del pericolo e chiese di parlare con la virago. Un istante dopo, fiera e spavalda nel suo usbergo, Caterina Sforza si affacciò dagli spalti, guardandolo dall'alto in basso, senza dissimulare il disprezzo che provava.
-Madonna, sono qui a chiedervi la resa e la consegna della rocca. Se accettate, prometto che godrete condizioni privilegiate e sarete trattata con il dovuto rispetto e col massimo onore.-
Caterina rise, fece un impercettibile inchino strafottente e con sarcasmo rispose:
-Come desidera il signor duca. Ma preferisco parlarne con maggior agio. Vi chiedo il tempo per prepararmi e scendere.-
Cesare serrò l’elmo sotto il braccio ed accettò. Quindi, con un ampio saluto, voltò il cavallo e tornò dai propri uomini.
-Monsignore, cosa avete fatto?- gemette Juanito correndogli incontro. -Avete rischiato la vita per parlare con quel diavolo! Non fidatevi delle donne, signor mio!-
-Ha ragione.- intervenne Michelotto con sguardo truce. -Quella donna in particolare, poi, è demoniaca. E’ più soldato lei dei suoi uomini.-
-La conosco bene.-
-Sì, ma sono io che devo difenderti.- ribatté il capitano con stizza. -E se tu vai a parlamentare da solo con lei, mi spieghi come posso farlo?-
Cesare girò lo sguardo alle possenti mura del Ravaldino e rispose con candore:
-Ho dato la mia parola. E poi, devo in qualche modo cercare di risparmiare gli uomini.-
-Vostra eccellenza è stanca di vivere?- chiese Ercole Bentivoglio.
Cesare scese da cavallo e lo fissò dall'alto della sua imponente figura.
-Se anche fosse, troverei un modo più dignitoso.-
-State perdendo tempo, monsignore: la virago non si arrenderà mai. Combatterà fino all'ultimo uomo.-
-Forse no.-
Lanciò un'ultima occhiata alla rocca e si ritirò nel palazzo, riposandosi nell'attesa dell'ora convenuta.

~

-Ripensateci, monsieur.- cercò di convincerlo il Balì.
-Vostra eccellenza teme che possa accadermi qualcosa?- replicò Cesare con sarcasmo, infilando i guanti di seta al posto delle manopole in acciaio. -Non temete.- continuò balzando in sella. -So il fatto mio e non sarà certo una donna a farmi chinare la testa.-
-Lascia almeno che ti accompagni: non mi fido a mandarti da solo.- si offrì Michelotto.
-Non c'è bisogno: so difendermi.-
-Ma...-
Cesare non ascoltò più nessuno e spronò il cavallo. Giunto nei pressi della rocca, si fermò ed attese. Il sole all'orizzonte allungava le ombre e donava riflessi di fuoco a quei capelli tra il biondo ed il rosso scuro. Il suo volto era fermo, impassibile, accarezzato lievemente dal gelido vento dicembrino, gli occhi diafani avevano uno sguardo di sprezzante indifferenza, la bocca sottile piegata in un pallido sorriso.
Gli argani si mossero, il ponte levatoio si abbassò lentamente, cigolando tetro come un gemito e Caterina avanzò, con sobri abiti femminili, lo sguardo fisso sul nobile condottiero, facendo sfoggio del suo fascino delicato, ancora presente e vivo nonostante i trentasei anni.
Cesare smontò elegantemente da cavallo e le andò incontro, inchinandosi per salutarla.
-Madonna, vi ringrazio di aver accettato la mia proposta.-
-A suo tempo.- rispose secca. -Esponete le vostre condizioni e se mi piaceranno consegnerò la rocca.-
-Sta bene.-
Cesare iniziò ad elencare le condizioni di resa con il tono di voce più dolce e persuasivo di cui era capace, ma Caterina non si lasciò ingannare e la discussione si infiammò e raggiunse vette inaspettate, mentre la virago, con studiata noncuranza, portava il Valentino verso il ponte levatoio.
-Ma cosa diavolo…- sussurrò Michelotto fissando la scena da lontano.
-Cosa c’è?- domandò Alessandro Farnese.
Michelotto portò la mano a mo’ di visiera per ripararsi dal riverbero del sole e provò a guardare meglio. Era una sua impressione, oppure la virago si stava avvicinando al ponte levatoio? E Cesare perché non si fermava? Per quale motivo le andava dietro? Lo vedeva parlare animatamente e forse… forse non si stava accorgendo del pericolo.
Cesare, infatti, infervorato dalla discussione, la seguì e mise piede nella trappola: il castellano, dietro disposizioni della padrona, diede ordine di levare il ponte e Caterina scoppiò a ridere, pregustando già la gioia di avere prigioniero il suo nemico. A tutto aveva pensato, meno all'agilità ed alla prontezza di riflessi del Valentino.
Appena udì il ponte cigolare, Cesare si rese conto di dove si trovava e con un balzo rischioso saltò verso il fossato senza pensarci due volte, evitando di poco la caduta rovinosa in acqua. E mentre Caterina spariva al sicuro all'interno della fortezza, livido di rabbia balzò sul cavallo e raggiunse i propri uomini.
-Senza pietà! Bombardate fino a che resterà una sola pietra in piedi! Voglio vederla rasa al suolo!-
Senza perdere tempo, con rinnovato vigore, i cannoni ripresero a sparare all'impazzata, mentre lui smontava da cavallo e si avvicinava a Juanito.
-Avevi ragione.- sibilò con stizza. -Da una donna bisogna aspettarsi di tutto!-


Forlì, 12 gennaio 1500
Sotto gli incessanti colpi la fortezza iniziava a cedere e già i cannoni erano riusciti ad aprire due varchi.
Il Valentino, divorato dalla rabbia, aveva promesso diecimila ducati a chi gli avesse consegnato la nemica viva e gli uomini si erano fatti in quattro per abbattere il Ravaldino.
Quella mattina, al levar del sole, Cesare, vestita l'armatura sopra la cotta in maglia e levata la spada, ordinò l'assalto. Per tutto il giorno i soldati combatterono furiosi corpo a corpo e la stessa Caterina, spada in pugno, si batté selvaggiamente, forse in cerca della morte. Non le era occorso molto tempo per capire che stavano per soccombere, ma mai si sarebbe arresa al nemico: da buon soldato preferiva morire combattendo, in questo degna madre di Giovanni dalle Bande Nere. E così sarebbe stato se, sul finire del giorno, il castellano, contravvenendo agli ordini, non avesse alzato bandiera bianca.
Furiosa per tale codardia, la virago continuò a battersi con un pugno di uomini, incurante dei quattrocento morti sparsi per terra in un lago di sangue.
-Madonna! Madonna!- gridò un araldo da sotto le mura, cercando di superare il frastuono della battaglia.
Caterina si guardò intorno, quindi si affacciò.
Alle spalle dell'uomo che la chiamava, Cesare attendeva che si mostrasse ed appena la vide ordinò con tono e sguardo che non ammettevano repliche:
-E' finita, madonna. E' inutile continuare una tale e futile strage: vi impongo la resa. Senza condizioni.-
Solo allora la donna si scosse ed osservò i cadaveri, sospirando tristemente. Aveva perso. I suoi soldati si stavano già consegnando al nemico e mestamente, ricordandosi di essere una donna, si fece incontro al vincitore e guardandolo negli occhi mormorò:
-Signor duca, sono con voi.-
In quell'istante, improvvisa ed imprevista, una mano rude le agguantò la spalla dicendo:
-Madonna, voi siete prigioniera del Balì di Digione.-
Cesare posò i propri occhi imperiosi sul capitano francese e fece violenza a se stesso per non mozzargli la testa con un solo fendente della sua spada; il sangue freddo lo bloccò all'istante.
-Ebbene, per quale ragione?- chiese mellifluo.
-Ragioni quanto mai pratiche, monsieur: Io ho catturato la dama e voi prometteste diecimila ducati.-
-L'avete catturata solo ora, dopo la resa.-
-La parola del signor duca non vale un ducato?-
Cesare sorrise, intimamente furioso e disgustato dalla situazione e mandò Ramiro a chiamare Ives d'Alègre. Se il Balì intendeva incassare la taglia con tale facilità, si sbagliava di grosso.
Alla presenza del capitano francese, iniziarono a discutere animatamente ed infine Cesare si tenne la prigioniera pagando una somma di quattromila ducati.
Sorretta dal Valentino e da Ives, Caterina fu accompagnata nel palazzo di Luffo Numai e qui tenuta prigioniera da Cesare, il quale non ci pensò due volte a farle ricordare chi dei due fosse l'uomo.


Forlì, gennaio 1500
La notizia lo sgomentò e se anche non pianse, lo lasciò con uno strano vuoto dentro. Il cardinale Giovanni Borgia junior, suo cugino carissimo, era rimasto vittima delle febbri nel fiore degli anni, mentre si stava dirigendo a Forlì per congratularsi della vittoria e celebrarla con una messa solenne.
Rimase così attonito che Ramiro lo fissò, quasi incredulo dinanzi al suo dolore. Scambiò un’occhiata con Michelotto, ma questi rimase impassibile, facendogli capire chiaramente come lui conoscesse bene l'animo insondabile del suo signore.
Lo scrivente annunciava anche che si era cominciato a mormorare che l'avesse fatto uccidere lui, con un potente veleno, e questo gli fece anche più male della notizia della morte, perché era tanto falso quanto amava quel cugino. Era stato suo compagno, insieme si erano divertiti e l'aveva considerato un fratello, molto più di Juan.
-Mi si accusa di un delitto che non mi sarei mai sognato di commettere.- sussurrò fissando la lettera.
-Aspettati questo ed altro.- commentò Ramiro con disprezzo. -Tanto più sei potente, tanto più vieni calunniato.-
-Io non mi sognerei mai di uccidere nessuno.-
-Solo se necessario.- sogghignò il capitano.
A quella risposta, Cesare posò lo sguardo su Ramiro e notò come il cinismo e la crudeltà stessero venendo allo scoperto, dimostrandolo per quello che realmente era. Anche Michelotto lo guardò ed istintivamente strinse l’elsa del pugnale legato in vita. Come si permetteva di parlare così al loro signore?
-Sì, solo se necessario.- convenne Cesare con tono secco.
Ramiro comprese di essersi spinto oltre ed abbassò lo sguardo dinanzi a quegli occhi che l’avrebbero volentieri incenerito. Lo spettro dell’assassinio di Juan aleggiava ancora come un monito sinistro e Cesare sapeva benissimo che correvano voci che l’accusavano di essere il mandante e che queste voci erano state messe in giro dopo che aveva deposto la porpora per impugnare la spada. I potentati lo conoscevano, sapevano di che pasta fosse fatto ed avevano iniziato a tremare alla sola idea di lui libero, non più vincolato dalla dignità ecclesiastica. E l’unico modo per screditarlo dinanzi al mondo cristiano, era accusarlo di fratricidio. Una cosa era dover affrontare l’inetto Juan Borgia, un piccolo principe che ogni barone si sarebbe mangiato con un solo boccone; un’altra era doversi confrontare con Cesare Borgia, uomo insondabile, inesorabile e sicuro di sé, che si sarebbe spezzato, ma mai piegato.
-Vado a prenderti il vestito per la cena.- mormorò Ramiro uscendo dalla camera.
Rimasti soli, Cesare si rese conto che Michelotto aveva ancora la mano stretta sull’elsa del pugnale e la lasciò solo quando Ramiro sparì alla sua visuale.
-Non temere, amico mio. Di lui non devi preoccuparti: è furbo, ma non abbastanza intelligente.-
-Comincio ad odiarlo.- ammise in un sussurro.
Cesare gli mise una mano sulla spalla e lui sospirò.
-Mi dispiace per tuo cugino. Lo conoscevo e posso dire che era un brav’uomo.-
-Grazie.- rispose accarezzandogli una guancia irsuta.
Michelotto chiuse gli occhi e Cesare tornò alla scrivania, prendendo in mano il pennino per scrivere alla zia.
Non pianse quella morte improvvisa, come non pianse mai per altri motivi, ma lo lasciò triste e sempre più solo insieme ai ricordi.
Quando si scosse da quell'angosciato sgomento, si rese conto di dover affrontare una vera e propria rivolta. I mercenari del Balì si rifiutavano di continuare a seguirlo se non veniva loro aumentata la paga o non fosse loro permesso di effettuare i dovuti saccheggi. Il palazzo dove alloggiava fu circondato e per tutta la notte gli gridarono minacce ed insulti.
-Guardali.- commentò con disprezzo. -Pensano solo al vile denaro e non si rendono conto che esistono situazioni più grandi di loro.-
Michelotto lo raggiunse vicino alla finestra e, ai primi chiarori dell’alba, scrutò i masnadieri che scorrazzavano ancora, urlando e lanciando sassi contro la porta del palazzo. Se solo Cesare gli avesse dato mano libera, si sarebbe messo alla testa dei suoi uomini e li avrebbe ammazzati tutti.
-Il sole sta sorgendo. Di’ a Ramiro di condurmi la Sforza.-
Michelotto s’inchinò e se ne andò, lasciandolo solo e meditabondo. Se il Balì si fosse intestardito nel volere la prigioniera, per lui avrebbe significato rinunciare al possesso delle città conquistate e questo, dopo tanti patimenti, non poteva permetterselo. Caterina non gli interessava: erano di gran lunga più importanti le sue terre ed il dominio incontrastato su di esse. Doveva escogitare qualcosa.
Quando uscì insieme a Caterina, lo stesso Balì, con una poderosa scorta, gli bloccò il passo, intimando di consegnare la dama, in quanto era stata fatta prigioniera da un francese.
Si guardò intorno ed in una frazione di secondo decise il piano. Con la sua fredda impassibilità consegnò la donna ed immediatamente, con voce profonda, annunciò di voler passare in rivista le truppe ed ordinò che tutti si radunassero nella piazza principale.
-Monsignore, perché non attaccare e distruggerli?- propose Vitellozzo.
Cesare girò appena lo sguardo e posò gli occhi imperiosi sull'uomo massiccio che aveva davanti.
-Fai quello che ho ordinato o ti pentirai di essere nato.- sibilò con voce gelida.
Una volta schierate le truppe, i soldati del Balì si ritrovarono da un lato i reggimenti di Vitellozzo e Achille, dall'altro le lance di Ives, mentre l'artiglieria era pronta a far fuoco su di loro.
Il Balì corrugò la fronte, prendendo coscienza di essere caduto in trappola e di non avere vie di fuga ed in quell'istante Cesare arrivò sul proprio destriero, mirabilmente elegante e nero come una tempesta. Dietro di lui, come un’ombra scura e minacciosa, il bel Michelotto, pronto a difendere il suo signore ad oltranza.
-Volete saccheggiare?- iniziò con veemenza, l’ira mal repressa per la nottata insonne. -Volete approfittare della popolazione indifesa? Ebbene, finché io sarò vivo questo non avverrà! Mai! Dico Mai! Chiunque troverò ad approfittare anche di una sola persona, gli farò mozzare le mani e lo impiccherò alla torre più alta! E non sperate di ricevere paga migliore: quella che percepite ora è più che sufficiente! Tutto quello che è accaduto in questi giorni mi ha disgustato ed è solo per non mancare di rispetto a Sua Maestà che non ho voluto impartire esemplari punizioni a chi ha avuto l'ardire di minacciarmi!- sbraitò fissando il Balì. -Ma se non ho agito ora, ricordate che il Valentino non dimentica ed alla prossima occasione sarò ben felice di strozzare con le mie stesse mani chi oserà insultarmi! Quanto alla prigioniera, avete ricevuto la taglia, quindi non avete più alcun diritto, né ora né mai!-
Quella furia scatenata ebbe il potere di far impallidire uomini rudi, rozzi, privi di scrupoli e di accrescere il rispetto che i capitani gli portavano.
L'arringa continuò ancora, mettendo in risalto la risolutezza e la ferocia del grande condottiero, mentre il popolo ascoltava di nascosto, ringraziando Dio per aver mandato un simile signore a cacciare la tiranna.
Infine si piantò davanti al Balì e fissandolo minacciosamente negli occhi intimò:
-Restituite immediatamente la prigioniera.-
L'uomo sbirciò i propri soldati, stretti tra due fuochi e capì di dover chinare la testa. Tuttavia replicò:
-Madonna è stata fatta prigioniera dai guasconi.-
-Monsieur d'Alègre, avvicinatevi.-
Alla presenza del capitano di Luigi XII, iniziò la discussione, degenerando in insulti osceni, velate minacce ed accuse, perché nessuno dei due intendeva cedere.
Quando capì che le cose potevano andare per le lunghe, Cesare si inalberò in tutta la sua altezza ed indicando la popolazione sbraitò in faccia al Balì:
-Volete strafare, vero? Cosa fareste se io buttassi in pasto a questa gente i vostri soldati che si sono divertiti al saccheggio? Impallidite? Ebbene, sappiate allora che è proprio questo che ho intenzione di fare: innalzerò a giudice la popolazione di Forlì; abbandonerò questi mercenari guasconi agli uomini ai quali hanno devastato e depredato le case, alle donne che hanno violentate, alle madri alle quali hanno massacrato i figli e vedremo se riusciremo a trovare anche un solo soldato intero! Vi farò fare a pezzi dalla furia del popolo!- sibilò a denti stretti, disgustato dell’intera situazione.
A quel punto, vista la risolutezza sul volto del Valentino, il capitano francese si fece avanti e consigliò al Balì di cedere la prigioniera, perché sapeva benissimo che alle minacce sarebbero seguiti i fatti e non aveva nessuna intenzione di sacrificare per una sciocchezza gli uomini di Luigi XII. Il Balì chinò la testa pensieroso, sbirciando di sottecchi i cannoni che aveva davanti e che lo minacciavano senza veli ed infine capitolò. Caterina, vestita di nero, tornò al fianco di Cesare e gli rivolse un pallido sorriso.
Un'ovazione salutò il passaggio lento e misurato del vincitore davanti alle truppe ed Ives annuì compiaciuto, notando l'ammirazione e l'adorazione negli occhi dei condottieri, fieri di militare sotto il bove borgiano.
Pochi giorni dopo, richiamato da Luigi XII per andare a combattere l'avanzata di Ludovico il Moro, che aveva deciso di rientrare a Milano, il capitano francese si vide costretto a lasciare Cesare in marcia verso Pesaro.
Vincolato dal trattato, il Valentino non alzò obiezioni e con lo sguardo cupo vide partire le trecento lance francesi e con esse la possibilità di attaccare la città del suo ex cognato. Quel brutto arresto lo contrariò, ma ponderò bene l'idea di continuare l'avanzata o di fermarsi.
Alzò la testa verso il sole e socchiuse gli occhi. Be', era iniziato l'anno santo e non gli avrebbe fatto male recarsi a Roma e rivedere il pontefice.

mercoledì 7 aprile 2010

Aforisma

"Diffida di una donna che dice la sua vera età, una donna così è capace di tutto."
O. Wilde

lunedì 29 marzo 2010

Aforisma

"Non scoprirete mai voi stessi finché non affronterete la verità."
Pearl Bailay

martedì 9 marzo 2010

Aforisma

"Non c'è nulla di nobile nell'essere superiori a qualcun altro. La vera nobiltà sta nel diventare superiori alla persona che si era un tempo." Prov. Indù

mercoledì 3 marzo 2010

Stralcio da "Principe delle tenebre"

Nei primi giorni dicembrini l'infiammazione intestinale parve migliorare, ma lo stesso Federico II aveva riconosciuto i sintomi del medesimo male che aveva stroncato suo padre Enrico VI nel fiore degli anni. Mandò a chiamare il gran giustiziere Riccardo di Montenero ed il suo più antico amico, l'arcivescovo Berardo da Palermo. C'erano solo loro nel maniero, oltre ai pochi intimi che erano stati a caccia con lui.
Manfredi non si dava pace e, quando non era al capezzale del padre morente, era costantemente al fianco di Teobaldo e Giordano, cercando negli amici più cari un conforto che non sarebbe giunto tanto presto, e quando la febbre tornò ad aggredire il padre, capì che era alla fine. Lo stesso imperatore volle dettare il testamento e dinanzi a Riccardo di Montenero, Berardo da Palermo, Manfredi, il margravio Bertoldo di Vohburg-Hohenburg, il genero Riccardo di Caserta, il gran maestro di scuderia Pietro Ruffo di Calabria e suo nipote Folco Ruffo, il medico Giovanni da Procida e alcuni giudici e notai, iniziò a dettare:
-Poiché transitoria è la natura umana, noi, Federico, per grazia di Dio imperatore dei romani, re di Gerusalemme e di Sicilia, in pieno possesso della favella e delle facoltà mentali, malato nel corpo ma lucidamente responsabile, intendiamo provvedere al bene della nostra anima e disporre del regno e delle terre e di ciò su cui ancora regniamo, anche se già siamo usciti dalla terrena esistenza.-
Il figlio Corrado IV re di Germania fu nominato erede dell'impero e re di Sicilia. Qualora fosse morto senza eredi, il suo posto sarebbe stato preso dall'altro suo figlio legittimo Enrico Carlotto e, in mancanza di questi, da Manfredi.
Da quel momento, come un fulmine a ciel sereno, Federico II legittimizzò Manfredi, il quale non avrebbe più portato il nome Lancia ma quello di Hohenstaufen, inserendolo nella lista dei successori dell'impero.
Il giovane marchese rimase impietrito, mentre avvertiva su di sé gli sguardi di tutti i presenti, chiedendosi cosa avesse fatto per meritarsi tanto. Nessun altro dei figli illegittimi di Federico II sarebbe entrato nella lista dei successori e per un breve attimo assaporò la remota possibilità di divenire imperatore; ma subito dopo si dipinse la costernazione sul suo viso dolce: suo padre stava ancora dettando il testamento e lo metteva in una situazione per niente invidiabile.
Durante l'assenza di Corrado IV, Manfredi avrebbe dovuto regnare come vicario sull'Italia imperiale e sul regno di Sicilia, riversando su di lui, in tal modo, tutta la responsabilità di un regno che non era suo e che, probabilmente, non lo sarebbe mai diventato, vincolandolo ad un onore che lui vedeva solo come onere. A lui stesso lasciò il principato di Taranto, le contee di Gravina, Tricarico e Monte Cavo, con diritti feudali su Monte Sant'Angelo.
Ad Enzo, sebbene ancora imprigionato, sarebbe rimasta la Sardegna; al giovanissimo Enrico Carlotto il regno di Gerusalemme, mentre il ducato d'Austria e Stiria sarebbe andato al nipote Federico, figlio del primogenito Enrico che lui aveva deposto e che era morto in prigionia.
Inoltre, come ultimo desiderio, volle che tutte le chiese distrutte fossero ricostruite e che i sudditi fossero liberati da imposte generali.
La sera del 12 dicembre Federico II sembrò migliorare ed il medico, Giovanni da Procida, per cercare di ridargli un po' di forze, gli fece mangiare delle pere cotte nello zucchero.
Per il resto della serata l’imperatore rimase a parlare con Manfredi, suggerendogli i vari passi da compiere per cercare di contenere le previste rivolte che sarebbero scoppiate alla sua morte, esortandolo a compiere il suo dovere come si conveniva ad un Hohenstaufen e lasciando disposizione affinché le sue spoglie mortali transitassero lungo le Puglie da lui tanto amate e traslate nel duomo di Palermo, accanto alla prima moglie, Costanza d’Aragona.
Manfredi ascoltava e diniegava, continuando a ripetergli che sarebbe guarito e che avrebbe continuato a vivere a lungo, ma il giorno dopo, alla vigilia dei cinquantasei anni, a dispetto delle amorevoli parole di conforto del figlio prediletto, peggiorò. Volle indossare il saio cistercense e chiese all'amico Berardo da Palermo di scioglierlo dall'anatema e di riaccoglierlo nelle braccia della Chiesa, sperando, in tal modo, di rendere legittimo il testamento. Quindi il vecchio compagno di una vita intera gli somministrò l'estrema unzione ed insieme attesero la fine, sotto gli occhi di un affranto Manfredi. Questi gli tenne la mano fino all'ultimo e quando l’imperatore fece un’ultima smorfia prima di restituire l’anima al Creatore, con dolcezza gli chiuse gli occhi, non riuscendo a trattenere le lacrime.

~

"Tramontato è il sole del mondo che illuminava le genti. Tramontato è il sole della giustizia. Tramontato è il fondatore della pace. Ma anche se quell'astro è tramontato, i suoi ordinamenti gli assicurano continuità e nuova vita in voi. Nessuno crede che il padre sia assente, perché si spera che nel figlio viva."
Questo scrisse Manfredi al fratello Corrado IV, mettendolo al corrente della morte del padre. Aggiunse che era deceduto da "perfetto cristiano", così che la Chiesa riconoscesse le sue ultime volontà.
Teobaldo, in piedi dinanzi alla finestra del maniero, distolse lo sguardo dal panorama e si girò a studiare l’amico intento a scrivere, il volto solare che era diventato cupo e teso, nonché addolorato e tormentato da quando l’imperatore aveva redatto il testamento, facendolo diventare uno svevo a tutti gli effetti. Con un sospiro si mise dinanzi alla scrivania, portando le mani nella cinta legata in vita e dalla quale pendeva la spada e portò il peso del corpo su una gamba, preoccupato per la piega che avevano preso gli eventi. Era vero che Corrado IV fosse l’erede e che Enrico Carlotto lo seguisse immediatamente nella linea di successione in quanto unici figli legittimi di Federico II, ma aver di colpo legittimizzato Manfredi, ponendolo al terzo posto come candidato al trono dell’impero, gli avrebbe procurato più noie che altro. Innanzitutto l’invidia di tutti gli altri figli illegittimi, nonché il sospetto in Corrado IV che ancora non aveva un suo erede personale e che, probabilmente, non vedeva di buon occhio questo fratellastro che lui neppure conosceva. Infine, ma non per ultima, la pretesa di Federico II che lui si occupasse di un regno non suo e che lo conservasse per l’erede legittimo.
Tutto questo senza tener conto del problema principale: la Chiesa avrebbe fortemente avversato ed inficiato il testamento di un uomo scomunicato. Manfredi si sarebbe ritrovato a combattere su due fronti, niente affatto in posizione invidiabile.
-Tu sai che la Chiesa non riconoscerà mai le volontà di un sovrano deposto e scomunicato, sebbene l’arcivescovo lo abbia sciolto arbitrariamente dall’anatema.- disse infine, girando il dito nella piaga.
Manfredi alzò appena gli occhi dal foglio, rigirò la piuma d’oca tra le dita e subito dopo sospirò, annuendo.
-Lo so bene, purtroppo. Fosse solo questo il guaio…-
-Tuo fratello?-
-Già- rispose pieno di sconforto. -La Chiesa non l’ha mai riconosciuto come re dei romani, né riconoscerà mai me come vicario su terre sulle quali essa rivendicava i diritti.-
Teobaldo passò una mano tra i capelli e si grattò la nuca, non prevedendo nulla di buono da quel testamento: il dissidio non si sarebbe mai potuto sanare e gli occhi di Manfredi gli rivelavano che ne era pienamente cosciente. Le difficoltà alle quali sarebbe andato incontro avrebbero intimorito un uomo dello stampo di Federico II; il giovane principe si sentiva morire al solo pensiero di quell'eredità che gli pesava come un macigno e che, se non fosse stato più che allerta, l’avrebbe schiacciato.
-Di una cosa sono certo,- mormorò Teobaldo puntando l’indice sulla scrivania, -io non ti lascerò da solo.-
Manfredi piegò le labbra in un sorriso amaro e con rassegnazione si apprestò a prendere il posto del padre, lui, appena diciottenne, che amava la tranquillità e sognava una vita di divertimenti e di battute di caccia. Ma era anche un cavaliere, un uomo d'onore ed avrebbe affrontato il destino senza tirarsi indietro, come si conveniva ad un Hohenstaufen.

domenica 21 febbraio 2010

CICERUACCHIO (Angelo Brunetti)

(Roma, settembre 1800 - Porto Tolle, 10 agosto 1849)

A Roma non piove molto, ma quando il cielo decide che è ora di piangere, ne manda giù talmente tanta che noi romani diventiamo scemi. No, non scherzo. Noi siamo avvezzi al sole, ci crogioliamo sotto la sua luce e non conosciamo nebbia, neve, bora né nubifragi. Siamo un po' come le lucertole, usciamo solo con il bel tempo e, visto che c'è sempre il sole, usciamo sempre. Ma quando piove… Quando piove e siamo costretti a mettere il muso fuori di casa causa lavoro, noi romani impazziamo. Se con il sole siamo soliti usare gli autobus e la metro, con la pioggia montiamo tutti in macchina, terrorizzati all'idea che una singola goccia d'acqua possa bagnarci. E allora vedi l'Urbe divenire un'immensa pozzanghera, straripare di autovetture incolonnate per ore per giungere a destinazione, con gli automobilisti che smadonnano e si insultano reciprocamente, dando la colpa al tempo se fanno tardi. E' follia, ma è sempre così. Quando piove, Roma va in tilt. Figuriamoci se dovessero scendere due fiocchi di neve…
Osservo in silenzio le macchine incolonnate, imbottigliate nel caos cittadino, mentre me ne sto sotto l'ombrello in attesa che arrivi l'autobus che mi conduca al lavoro, stando bene attenta a non farmi schizzare dalle macchine che passano sulle buche piene d'acqua piovana. Alcuni vigili provano a sfidare l'ira degli automobilisti, ricevendo in cambio insulti e minacce sussurrati a fior di labbra. Solo un singolo essere sorride divertito, un uomo che mi sta vicino, senza alcun riparo e guarda con sommo disprezzo la follia che scivola dinanzi ai suoi occhi. Lo sbircio e mi accorgo che, a dispetto della pioggia, è asciutto e veste un po' dimesso. Lo osservo meglio e subito dopo sgrano gli occhi, esclamando:
-Ciceruacchio!-
Lui si volta a guardarmi e sorride, illuminandosi in quel volto rotondo che ispira fiducia e tranquillità
-Ma tu guarda 'sti romani di oggi!- esclama con il suo forte accento romanesco.
-Ai tuoi tempi era diverso.-
-Lo puoi dire forte, ragazza mia! E non c'era neppure questo rumore assordante al quale voi vi siete assuefatti. Tutt'al più si potevano udire gli strilloni in Campo Marzio, o a piazza Navona, o lo stridio delle ruote delle carrozze sul selciato oppure il calpestio degli zoccoli dei cavalli. Tutto questo…- e fa un gesto con la mano, -roboante rumore non c'era.-
-Si viveva meglio, eh?- commento divertita dalla sua aria schifata.
-Eccome!-
Esito un attimo, quindi abbasso il mio ombrello e mi accorgo che la pioggia devia, non mi tocca, come se fossi coperta da una invisibile campana di vetro. Come al solito la gente non ci vede neppure e torno a guardare lui, con quei suoi baffoni scuri e quel pizzetto che quasi fanno sparire la bocca.
-Perché il soprannome Ciceruacchio?- domando curiosa.
-E' una corruzione di ciruacchiotto, ossia cicciottello. Ed io lo sono sempre stato, fin da piccolo.-
-Tu sei nato e vissuto a Roma in un periodo un po' turbolento.- ricordo.
Scuote la testa annuendo e si accarezza il ventre prominente.
-In effetti, dopo la rivoluzione francese, si annusava in giro aria di ribellione ovunque.-
-E tu ti sei dato da fare.-
Lo vedo corrucciarsi e scurirsi in volto, quel volto rubicondo che i romani avevano imparato ad amare e rispettare, nonostante fosse solo un semplice oste.
-Con il mondo che cambia, che riscatta la sua libertà, secondo te cosa avrei dovuto fare? Starmene con le mani in mano?-
Non rispondo, consapevole che ha ragione. E' destino che alcuni uomini sentano maggiormente il richiamo della Storia, seppur inconsapevolmente, e lui è uno di questi. Non a caso, durante la Repubblica Romana, si diede da fare per far passare armi e vettovaglie ai combattenti ed al popolo di Roma.
-So che i romani hanno sempre guardato a te come il portavoce dei loro sentimenti.-
-Ero il loro specchio, il riflesso di loro stessi!- esclama soddisfatto. -Essendo un oste, conoscevo più che bene il malumore dei miei concittadini, che si riunivano nel mio locale per parlare male o bene di taluna persona o di tale nobile o porporato. La gente si confidava con me ed io ascoltavo. Ed essendo sempre stato socievole e bontempone, ho preso le redini in mano quando si è trattato di eleggere il nuovo papa.-
Sgrano gli occhi e chino la testa di lato, incredula.
-Tu… hai eletto il nuovo papa?- esclamo.
-Ma no! Certo che no!- risponde quasi offeso. -Con l'avvento di Pio IX Mastai Ferretti, mi feci portavoce del malcontento popolare e riportai con la mia dialettica diretta, priva di retorica, tutta l'ansia dei romani che da tempo attendevano riforme.-
Espiro, inconsapevole di aver trattenuto l'aria e subito dopo sorrido. Be', capita di fraintendere…
-Addirittura,- riprende con il suo vocione, -ho ringraziato pubblicamente il nuovo papa per aver concesso la libertà ad alcuni prigionieri politici ed ho offerto da bere nella mia osteria. Ah, sì…- sospira ed un velo di malinconia ricopre i suoi occhi attenti. -Che festa abbiamo fatto… Fino a sera tardi, al lume delle torce e delle fiaccole, tutti a bere e cantare e mangiare: sembravano tornati i bei tempi andati.-
Rimango in silenzio, domandandomi a quali bei tempi si riferisse e, a dispetto della mia ricerca nella memoria, non trovo nulla che possa definirsi tale. Forse è solo un suo sentimento personale. Di certo l'Italia non percorreva un buon periodo, viste le dominazioni francesi ed austriache.
-A Porta del Popolo, poi,- continua con aria estasiata, -abbiamo acceso un fuoco enorme, richiamando tanti di quei romani che tu non puoi immaginare.-
Sogghigno sotto i baffi, immaginando un concerto dei Queen, o dei Led Zeppelin, o dei Pink Floyd e neppure rispondo, lasciandolo crogiolare nel suo ricordo. Ed in quel lasso di tempo mi rendo conto di quanto possano essere cambiati i tempi nel volgere di un solo secolo, stravolgendo le abitudini e lo stesso pensiero.
-Ma poi qualcosa è cambiato.- noto.
China mestamente la testa al ricordo bruciante e si morde le labbra.
-Avevo riposto grande fiducia nel nuovo papa, tanto da sperare fino all'ultimo che avrebbe veramente cambiato le cose. Ma quando è fuggito, facendo crollare anche la Repubblica Romana, ho aperto gli occhi.-
-Non poteva essere il successore di Pietro il riformatore, vero?-
-No.- ammette controvoglia. -E l'ho capito a mie spese. E' fuggito lasciando Roma nelle mani dei francesi. Ti lascio immaginare gli avventori della mia osteria: indignati, offesi e furiosi era a dir poco. Io con loro.-
Annuisco, ma non so se riesco a capire pienamente il suo stato d'animo. Di certo non deve essere stato facile vivere in quel periodo di stravolgimenti emotivi. Da una parte la Francia che insegnava con la sua rivoluzione e con l'avvento di Napoleone, dall'altra l'Austria e la Prussia con le loro ancor solide radici nel medioevo, impermeabili a qualsiasi capovolgimento, insofferenti ad ogni riforma ed ognuna di loro con basi stabili, o semi stabili, in Italia. In effetti, noi giovani di oggi, cosa possiamo saperne dell'occupazione, delle restrizioni, dell'impossibilità di esprimere le proprie opinioni, della morte che si annida dietro ogni angolo che si può svoltare? Salvatore Quasimodo ne sapeva qualcosa e la sua meravigliosa "Alle fronde dei salici" è lì a testimoniarlo.
-Anche tu sei fuggito.-
-Be', a dir la verità, visto come si mettevano le cose, ho preferito seguire Garibaldi… Hai presente Garibaldi?- domanda con aria da inquisitore.
-Eh, sì.- sospiro annuendo.
Mi fissa a lungo, come se la mia espressione non gli piacesse e provo a piegare le labbra in un sorriso amichevole.
-Aho, regazzì,- mi riprende alzando l'indice come un maestro ed agitandomelo sotto il naso, -guai se ti vedo deridere il nostro Garibaldi. Non te lo permetto.-
-Non lo permetterei a me stessa.- ribatto. -So bene chi fosse Garibaldi e ne ho profondo rispetto, nonché stima.-
-Ah, be'.- commenta compiaciuto.
Lo vedo rilassarsi in volto e porta le mani dentro le tasche del panciotto, con aria soddisfatta.
Rimango ad osservarlo, in attesa che continui il racconto e, quando si rende conto del mio prolungato silenzio, mi fissa e chiede brusco:
-Be'? Che hai da guardare?-
Esito, non sapendo bene cosa dire, quindi rispondo:
-Guardo un eroe romano.-
Quella risposta lo compiace e sorride beota.
-Be', forse hai ragione.- risponde. -In finale, ho dato la mia vita per Roma, per la sua libertà. E con me l'hanno data i miei due figli, il più grande ed il più piccolo, poco più di un bambino.-
-Sì, ricordo. Gli austriaci non hanno avuto pietà di un ragazzino.-
-Già- ringhia con espressione furiosa. -Ci vuole coraggio a fucilare un tredicenne mingherlino.-
Avverto il sarcasmo e convengo con lui. Non deve essere facile affrontare la morte a viso aperto, figuriamoci poi se al fianco ti ritrovi con due figli che debbono fare la tua stessa fine. Me lo immagino, Ciceruacchio, provare a coprire con il suo corpo massiccio il figlio minore, nella speranza di salvarlo dal plotone di esecuzione.
-Sei morto lontano dalla tua Roma.- commento.
-Purtroppo. E pensare che quando ero partito, speravo di contribuire alla sua liberazione. Sai,- mormora sconsolato, -con Garibaldi volevo dare una mano a Venezia che resisteva agli austriaci, ma ci siamo dovuti fermare al Delta del Po, per sfuggire alle vedette nemiche. Abbiamo chiesto rifugio ai connazionali, ma quei bastardi di italiani, anziché aiutarci, ci hanno denunciato agli austriaci, i quali hanno provveduto a fucilarci senza perdere tempo. Comprendi? Noi, italiani che volevamo scacciare gli oppressori, denunciati dai nostri stessi concittadini! Roba da non credere.-
Scuoto la testa come lui, pensando che fosse normale per gli italiani dell'epoca, divisi per secoli, non provare un sentimento di unità nazionale. Troppo diversi. Troppi dialetti diversi. Troppe frontiere. Ma, chissà perché, questo solo pensiero non mi consola dinanzi alla vista di italiani che tradiscono gli stessi italiani. Quello che mi colpisce e mi ferisce, è che oggi, tutto sommato, la pensiamo ancora come quei contadini del Delta del Po.
-Oggi, però, riposi al Gianicolo.- lo consolo.
Sorride ed in un gesto affettuoso mi dà un buffetto sulla guancia.
-Aho, regazzì, e mica è da tutti!-
Rido della sua romanità ed in quel momento sento la pioggia bagnarmi la tesa. Alzo lo sguardo e mi bagno il volto, ricordando che avevo chiuso l'ombrello perché riparata dalla presenza di Ciceruacchio. Quando mi giro per salutarlo, non c'è più e la pioggia sul mio viso mi sembra all'improvviso come un pianto silenzioso per tutte quelle vite donate per un ideale che oggi nessuno sente più.

domenica 14 febbraio 2010

Stralcio da "La spada bianca"

-Vorrei capire, sensei.-
Distolsi l’attenzione dal cielo azzurro scuro e mi sedetti pigramente su una roccia, socchiudendo gli occhi stanchi. Sì; in fondo era meglio che sapesse.
-Domanda pure.-
-Voi… voi vi siete difeso in modo… Come avete fatto?-
-Esperienza acquisita con gli anni.- risposi vago.
Zephyr aprì la bocca, ma la richiuse quando si rese conto, dalla mia espressione, che su quell’argomento non avrei aggiunto altro. Allora sbirciò il rio scorrere placido e domandò:
-Christian voleva ucciderci. Perché?-
Inspirai profondamente e ponderai bene le parole prima di chiedere:
-E’ difficile rispondere. Se tu ne avessi la possibilità, uccideresti il Re?-
-Sì!- esclamò d’impeto.
-Perché?-
-E’ un tiranno. Domina con il terrore e senza un briciolo di umanità.-
Annuii lentamente pensieroso e mi accarezzai la barba.
-E se tu fossi il Re e vedessi qualcuno che stesse tentando di usurparti il trono?-
Non rispose subito perché capì che volevo una risposta sincera.
-Probabilmente… Be’, sì. Lo farei uccidere.-
-Vedi, Zephyr, questa non è altro che la spirale di violenza nella quale l’uomo ha sempre vissuto e dalla quale non uscirà mai. Noi due siamo venuti a trovarci nel centro di questa spirale e ieri sera è iniziata la lotta. Il Re vuole le nostre teste perché ci considera una minaccia e noi vogliamo la sua vita perché è un tiranno.-
-Non stiamo minacciando nessuno.- mormorò incredulo.
-Apparentemente no. Ma il solo fatto che io appartenga alla sacra Via Divina mi fa reputare un pericolo serio. Per i potentati. Perché avere il potere nelle mani è il sogno di tutti.-
Meditò un attimo sulle mie parole, quindi si avvicinò al rigagnolo ed osservò le pietre brillare adamantine sotto i raggi solari. Si chinò ed affondò la mano dalle dita lunghe nell’acqua, più e più volte, ritirandola fuori ogni volta chiusa a pugno e vuota.
-Il potere…- mormorò meditabondo. -E’ inafferrabile come queste iridescenze emanate dai sassi. Ho provato a catturarle… Per un attimo, ma solo per un attimo, ho creduto di riuscirci e stavo per esultarne; poi mi sono reso conto che il pugno non racchiudeva altro che aria.-
Si voltò a guardarmi, con le sopracciglia aggrottate, continuando:
-Se il potere è capace di dare solo un fugace attimo di gioia a chi crede di possederlo, perché l’uomo uccide per ottenerlo?-
-E’ una storia vecchia come l’universo. E’ prerogativa umana cercare di dominare su tutto e su tutti ed il potere offre questa effimera speranza. Per un brevissimo attimo.-
Rimase perplesso a lungo, quindi mi rivolse la domanda… quella domanda:
-E noi?-
Non c’era bisogno che aggiungesse altro: sapevo cosa chiedeva. Sospirai appena ed osservai la landa desolata e desertica che si stendeva davanti ai miei occhi diafani, immersa in un perenne silenzio. Misi il cappuccio sulla testa per ripararmi dal sole e spiegai:
-L’uomo ha sempre combattuto per ottenere il potere, disseminando la storia di cadaveri barbaramente mutilati, di stragi e di stermini, di odio e di violenza. Non si è mai fatto scrupoli pur di afferrare la leggenda e questo eccidio non avrà mai fine, nonostante la distruzione. E quello che ti ho promesso è il potere. Quello stesso potere che ha condotto l’uomo all’autodistruzione. Hai paura, Zephyr?-
Mi studiò a lungo con quei suoi occhi profondi e perspicaci ed ammirai il suo portamento fiero e deciso.
-No, non ho paura.- rispose pacato. -Il potere che avete promesso di tramandarmi ha qualcosa di diverso da quello che insegue l’uomo.-
Sorrisi soddisfatto, perché aveva intuito.
-E’ così, hai ragione. Esistono due differenze fondamentali tra noi e gli uomini. Questi hanno cercato il potere con la violenza per dominare sugli altri; noi lo usiamo per aiutare l’umanità.-
-E’ questo il compito che dovrò svolgere?-
Annuii con aria grave e tornai ad osservare il cielo.
-Riesci a comprendere l’altra differenza?-
Alla mia domanda seguì il silenzio ed io, con estrema facilità, entrai nella sua mente per carpirne i dilemmi. Stava pensando alle immense distese desertiche che da anni, ormai, caratterizzavano la terra e dominavano sotto la forte luce del sole. Da quando la radioattività aveva gremito l’atmosfera terrestre, le stagioni erano state spazzate via come per incanto ed ogni giorno il sole bruciava come un’estate perenne. Solo al tramonto l’aria si raffreddava ed era il momento migliore della giornata; la notte, invece, bisognava accendere il fuoco se non si voleva morire congelati. Difficilmente pioveva e quando ciò avveniva era preferibile rintanarsi in luoghi sicuri perché la crosta terrestre veniva bombardata da acqua radioattiva.
Mentre osservavo con lui quel paesaggio angoscioso, mi rattristai pensando a tutti quei bambini che, nati dopo la distruzione, non avrebbero avuto la possibilità di vedere la terra come era una volta. Sarebbero nati, cresciuti e morti in un deserto infido e crudele, ben diverso dal deserto di un tempo che pullulava di vita.
All’improvviso il paesaggio mutò e mi ritrovai a fissare una distesa di ghiacci immacolati. Non pensai mai a come Zephyr, nato dopo la distruzione, conoscesse la neve ed il ghiaccio. Sapevo cosa significasse quel paesaggio, meglio di lui stesso che lo immaginava. Almeno per il momento.
-No, non puoi ancora comprendere l’altra differenza.- affermai osservando una piccola nuvola bianca.
-Dovrò comprendere da solo, vero?-
-Sì.-
Rimase un secondo in silenzio, quindi chiese:
-Cos’è la Spada Bianca?-
-Prima di comprendere questo, devi conoscere la verità.-
-Quale verità?-
Inspirai a lungo ed abbassai gli occhi per guardarlo. Si era seduto al mio fianco, in trepidante attesa ed io, spinto da un’improvvisa tenerezza, gli scompigliai i capelli affettuosamente.
-La sacra arte di Kamido ha avuto inizio molti millenni fa, prima ancora che l’uomo nascesse. Ai primordi molti Cavalieri diffondevano l’arte per portare la pace tra i popoli dell’universo.-
Iniziai a raccontare con tono pacato, per fargli comprendere nel migliore dei modi quello che avrebbe dovuto apprendere, mentre la mia mente tornava indietro nel tempo, valicando generazioni e generazioni, fino a giungere alla soglia dei secoli. Kamido è una disciplina severa, rigida, che chiede molto ai propri allievi e ricompensa in ugual misura. E’ l’essenza della vita, la fonte dalla quale scaturisce la forza ed io, insieme ad altri 999, ero l’eletto, il degno di continuare la discendenza.
Eravamo stati scelti da mille diversi punti dell’universo, destinati a portare ordine, giustizia e serenità. Eravamo i mille Cavalieri del Potere; niente ci era sconosciuto e nulla ci era impossibile. Nelle nostre mani giaceva inerme il destino del creato ed eravamo noi, dèi immortali, a comandare con giustizia. Ma con l’avvento dell’uomo tutto l’equilibrio, che fino allora aveva dominato, si era sgretolato. Molti Cavalieri, contaminati dall’avidità, dal rancore e dall’odio del genere umano, avevano preso coscienza fin troppo bene del potere che possedevano e che potevano usare. La ribellione si era protratta nei secoli ed i Cavalieri traditori si erano mescolati agli uomini, non più con lo scopo di aiutarli nel bene, ma per istigarli gli uni contro gli altri, facendo comprendere loro quanto fosse importante avere il potere nelle mani per dominare.
Poco a poco la sacra arte di Kamido si era scissa in due: i Cavalieri, fedeli alla disciplina, ed i Bushi, ribelli e traditori.
Ma il Potere non aveva permesso a questi ultimi di avere il sopravvento. Nel corso dei secoli i Bushi si erano moltiplicati, mentre dei mille cavalieri che erano esistiti all’inizio ne erano rimasti solo due a servire Kamido. E laddove questi avevano mantenuto il Potere, i Bushi avevano perso molto dell’arte appresa e ben presto non erano stati più in grado di rinascere. Allora avevano iniziato a tramandarsi l’arte di padre in figlio, fino a giungere ai nostri giorni con la stessa forza che avevano i loro padri ma non con lo stesso potere.
Rivissi con nostalgia quel racconto succinto che feci a Zephyr, rimpiangendo i mille Cavalieri. Non dissi altro per non sconvolgere la sua mente ancora giovane ed impreparata, ma sapevo che col tempo avrebbe ricordato tutto. Non potevo svelargli che lui era stato il mio maestro e che io, a mia volta, lo fui di lui nel passato e così via, fino ai primordi. Avrebbe ricordato da solo le sue vite precedenti, soprattutto la distesa di ghiacci dove, nella sua ultima vita, era morto per mano mia. Ma non avrebbe provato rancore, come io ora non lo provo per lui.
So di certo che Kamido sopravvivrà grazie a noi due, che continuiamo a servire devotamente, benché i Bushi ora abbiano affinato e perfezionato il loro potere, comprendendo fino in fondo il pericolo che io e Zephyr rappresentiamo per la loro sopravvivenza.
La lunga catena di vite stava per fare una svolta: ora Kamido ci ordinava di estirpare il male.