venerdì 23 aprile 2010

Stralcio da "ilcondottiero"

Forlì, 19 dicembre 1499
Sotto una pioggia scrosciante, Cesare entrò nella città in mezzo alle sue truppe, schierate per rendergli onore e si diresse al palazzo di Luffo Numai, l'uomo di fiducia di Caterina Sforza, che lei credeva incorruttibile.
Come aveva annunciato al duca di Ferrara, la rocca di Imola aveva abbassato i ponti il 13 dicembre e Giovanni Borgia, Legato a latere, aveva celebrato la vittoria con una solenne funzione religiosa. Il 15, dopo che Dionigi di Naldo si era messo al suo servizio, era ripartito in direzione di Forlì, presagendo una lotta accanita.
Luffo Numai seguì l'esempio di Dionigi, mettendogli a disposizione il palazzo e la propria persona, ma prima ancora di assediare la rocca, si vide costretto a combattere contro i capitani francesi del suo seguito, i quali incitavano gli uomini al saccheggio ed ai soprusi.
Forlì, che aveva seguito l'esempio di Imola aprendo ben volentieri le braccia e le porte al Valentino, ritenendolo un liberatore, si vide ripagata dalla violenza più truce e perpetrata contro la volontà dello stesso Cesare. Quando riuscì a riportare l'ordine tra le truppe, fece accerchiare il Ravaldino e lui medesimo andò a studiarlo da vicino, per rendersi conto di trovarsi davanti ad un mostro imprendibile. Ma non si scoraggiò ed ordinò alle artiglierie di sparare incessantemente.
Per giorni e giorni le sue macchine belliche continuarono a vomitare palle, ferendo il mostro invincibile ma non abbattendolo: sembrava di udire nell'aria la risata stridula di Caterina, che incassava colpi senza cedere.


Forlì, 26 dicembre 1499
Aggrottò le sopracciglia, il volto furioso per una tale perdita di tempo, in groppa al suo destriero, ricoperto dall'armatura splendente. La celata era abbassata ed il suo sguardo penetrante fissava le mura con malcelato risentimento. La rocca del Ravaldino era lì, imperiosa davanti ai suoi occhi, che pareva deriderlo senza cedere e lui immobile nella radura, solitario cavaliere pronto ad esplodere d'ira.
In quel momento ripensò quando, a Milano, aveva conosciuto Leonardo da Vinci, l’inventore. Se fosse stato al suo fianco, certamente gli avrebbe costruito nuove e più potenti macchine belliche e la rocca sarebbe già caduta.
All'improvviso incitò il cavallo ed al passo si avvicinò ai capitani. Ordinò di cessare il bombardamento e si tolse l'elmo, lasciando il capo ricoperto dal camaglio, recuperando la naturale indifferenza. Michelotto avvicinò il proprio destriero al suo e lo fissò dritto negli occhi.
-Cosa vuoi fare?- domandò preoccupato.
-Stai pure tranquillo, amico mio.-
-Conosco quello sguardo.-
Cesare piegò le labbra in un sorriso ed in silenzio si avvicinò alle mura della rocca, sprezzante del pericolo e chiese di parlare con la virago. Un istante dopo, fiera e spavalda nel suo usbergo, Caterina Sforza si affacciò dagli spalti, guardandolo dall'alto in basso, senza dissimulare il disprezzo che provava.
-Madonna, sono qui a chiedervi la resa e la consegna della rocca. Se accettate, prometto che godrete condizioni privilegiate e sarete trattata con il dovuto rispetto e col massimo onore.-
Caterina rise, fece un impercettibile inchino strafottente e con sarcasmo rispose:
-Come desidera il signor duca. Ma preferisco parlarne con maggior agio. Vi chiedo il tempo per prepararmi e scendere.-
Cesare serrò l’elmo sotto il braccio ed accettò. Quindi, con un ampio saluto, voltò il cavallo e tornò dai propri uomini.
-Monsignore, cosa avete fatto?- gemette Juanito correndogli incontro. -Avete rischiato la vita per parlare con quel diavolo! Non fidatevi delle donne, signor mio!-
-Ha ragione.- intervenne Michelotto con sguardo truce. -Quella donna in particolare, poi, è demoniaca. E’ più soldato lei dei suoi uomini.-
-La conosco bene.-
-Sì, ma sono io che devo difenderti.- ribatté il capitano con stizza. -E se tu vai a parlamentare da solo con lei, mi spieghi come posso farlo?-
Cesare girò lo sguardo alle possenti mura del Ravaldino e rispose con candore:
-Ho dato la mia parola. E poi, devo in qualche modo cercare di risparmiare gli uomini.-
-Vostra eccellenza è stanca di vivere?- chiese Ercole Bentivoglio.
Cesare scese da cavallo e lo fissò dall'alto della sua imponente figura.
-Se anche fosse, troverei un modo più dignitoso.-
-State perdendo tempo, monsignore: la virago non si arrenderà mai. Combatterà fino all'ultimo uomo.-
-Forse no.-
Lanciò un'ultima occhiata alla rocca e si ritirò nel palazzo, riposandosi nell'attesa dell'ora convenuta.

~

-Ripensateci, monsieur.- cercò di convincerlo il Balì.
-Vostra eccellenza teme che possa accadermi qualcosa?- replicò Cesare con sarcasmo, infilando i guanti di seta al posto delle manopole in acciaio. -Non temete.- continuò balzando in sella. -So il fatto mio e non sarà certo una donna a farmi chinare la testa.-
-Lascia almeno che ti accompagni: non mi fido a mandarti da solo.- si offrì Michelotto.
-Non c'è bisogno: so difendermi.-
-Ma...-
Cesare non ascoltò più nessuno e spronò il cavallo. Giunto nei pressi della rocca, si fermò ed attese. Il sole all'orizzonte allungava le ombre e donava riflessi di fuoco a quei capelli tra il biondo ed il rosso scuro. Il suo volto era fermo, impassibile, accarezzato lievemente dal gelido vento dicembrino, gli occhi diafani avevano uno sguardo di sprezzante indifferenza, la bocca sottile piegata in un pallido sorriso.
Gli argani si mossero, il ponte levatoio si abbassò lentamente, cigolando tetro come un gemito e Caterina avanzò, con sobri abiti femminili, lo sguardo fisso sul nobile condottiero, facendo sfoggio del suo fascino delicato, ancora presente e vivo nonostante i trentasei anni.
Cesare smontò elegantemente da cavallo e le andò incontro, inchinandosi per salutarla.
-Madonna, vi ringrazio di aver accettato la mia proposta.-
-A suo tempo.- rispose secca. -Esponete le vostre condizioni e se mi piaceranno consegnerò la rocca.-
-Sta bene.-
Cesare iniziò ad elencare le condizioni di resa con il tono di voce più dolce e persuasivo di cui era capace, ma Caterina non si lasciò ingannare e la discussione si infiammò e raggiunse vette inaspettate, mentre la virago, con studiata noncuranza, portava il Valentino verso il ponte levatoio.
-Ma cosa diavolo…- sussurrò Michelotto fissando la scena da lontano.
-Cosa c’è?- domandò Alessandro Farnese.
Michelotto portò la mano a mo’ di visiera per ripararsi dal riverbero del sole e provò a guardare meglio. Era una sua impressione, oppure la virago si stava avvicinando al ponte levatoio? E Cesare perché non si fermava? Per quale motivo le andava dietro? Lo vedeva parlare animatamente e forse… forse non si stava accorgendo del pericolo.
Cesare, infatti, infervorato dalla discussione, la seguì e mise piede nella trappola: il castellano, dietro disposizioni della padrona, diede ordine di levare il ponte e Caterina scoppiò a ridere, pregustando già la gioia di avere prigioniero il suo nemico. A tutto aveva pensato, meno all'agilità ed alla prontezza di riflessi del Valentino.
Appena udì il ponte cigolare, Cesare si rese conto di dove si trovava e con un balzo rischioso saltò verso il fossato senza pensarci due volte, evitando di poco la caduta rovinosa in acqua. E mentre Caterina spariva al sicuro all'interno della fortezza, livido di rabbia balzò sul cavallo e raggiunse i propri uomini.
-Senza pietà! Bombardate fino a che resterà una sola pietra in piedi! Voglio vederla rasa al suolo!-
Senza perdere tempo, con rinnovato vigore, i cannoni ripresero a sparare all'impazzata, mentre lui smontava da cavallo e si avvicinava a Juanito.
-Avevi ragione.- sibilò con stizza. -Da una donna bisogna aspettarsi di tutto!-


Forlì, 12 gennaio 1500
Sotto gli incessanti colpi la fortezza iniziava a cedere e già i cannoni erano riusciti ad aprire due varchi.
Il Valentino, divorato dalla rabbia, aveva promesso diecimila ducati a chi gli avesse consegnato la nemica viva e gli uomini si erano fatti in quattro per abbattere il Ravaldino.
Quella mattina, al levar del sole, Cesare, vestita l'armatura sopra la cotta in maglia e levata la spada, ordinò l'assalto. Per tutto il giorno i soldati combatterono furiosi corpo a corpo e la stessa Caterina, spada in pugno, si batté selvaggiamente, forse in cerca della morte. Non le era occorso molto tempo per capire che stavano per soccombere, ma mai si sarebbe arresa al nemico: da buon soldato preferiva morire combattendo, in questo degna madre di Giovanni dalle Bande Nere. E così sarebbe stato se, sul finire del giorno, il castellano, contravvenendo agli ordini, non avesse alzato bandiera bianca.
Furiosa per tale codardia, la virago continuò a battersi con un pugno di uomini, incurante dei quattrocento morti sparsi per terra in un lago di sangue.
-Madonna! Madonna!- gridò un araldo da sotto le mura, cercando di superare il frastuono della battaglia.
Caterina si guardò intorno, quindi si affacciò.
Alle spalle dell'uomo che la chiamava, Cesare attendeva che si mostrasse ed appena la vide ordinò con tono e sguardo che non ammettevano repliche:
-E' finita, madonna. E' inutile continuare una tale e futile strage: vi impongo la resa. Senza condizioni.-
Solo allora la donna si scosse ed osservò i cadaveri, sospirando tristemente. Aveva perso. I suoi soldati si stavano già consegnando al nemico e mestamente, ricordandosi di essere una donna, si fece incontro al vincitore e guardandolo negli occhi mormorò:
-Signor duca, sono con voi.-
In quell'istante, improvvisa ed imprevista, una mano rude le agguantò la spalla dicendo:
-Madonna, voi siete prigioniera del Balì di Digione.-
Cesare posò i propri occhi imperiosi sul capitano francese e fece violenza a se stesso per non mozzargli la testa con un solo fendente della sua spada; il sangue freddo lo bloccò all'istante.
-Ebbene, per quale ragione?- chiese mellifluo.
-Ragioni quanto mai pratiche, monsieur: Io ho catturato la dama e voi prometteste diecimila ducati.-
-L'avete catturata solo ora, dopo la resa.-
-La parola del signor duca non vale un ducato?-
Cesare sorrise, intimamente furioso e disgustato dalla situazione e mandò Ramiro a chiamare Ives d'Alègre. Se il Balì intendeva incassare la taglia con tale facilità, si sbagliava di grosso.
Alla presenza del capitano francese, iniziarono a discutere animatamente ed infine Cesare si tenne la prigioniera pagando una somma di quattromila ducati.
Sorretta dal Valentino e da Ives, Caterina fu accompagnata nel palazzo di Luffo Numai e qui tenuta prigioniera da Cesare, il quale non ci pensò due volte a farle ricordare chi dei due fosse l'uomo.


Forlì, gennaio 1500
La notizia lo sgomentò e se anche non pianse, lo lasciò con uno strano vuoto dentro. Il cardinale Giovanni Borgia junior, suo cugino carissimo, era rimasto vittima delle febbri nel fiore degli anni, mentre si stava dirigendo a Forlì per congratularsi della vittoria e celebrarla con una messa solenne.
Rimase così attonito che Ramiro lo fissò, quasi incredulo dinanzi al suo dolore. Scambiò un’occhiata con Michelotto, ma questi rimase impassibile, facendogli capire chiaramente come lui conoscesse bene l'animo insondabile del suo signore.
Lo scrivente annunciava anche che si era cominciato a mormorare che l'avesse fatto uccidere lui, con un potente veleno, e questo gli fece anche più male della notizia della morte, perché era tanto falso quanto amava quel cugino. Era stato suo compagno, insieme si erano divertiti e l'aveva considerato un fratello, molto più di Juan.
-Mi si accusa di un delitto che non mi sarei mai sognato di commettere.- sussurrò fissando la lettera.
-Aspettati questo ed altro.- commentò Ramiro con disprezzo. -Tanto più sei potente, tanto più vieni calunniato.-
-Io non mi sognerei mai di uccidere nessuno.-
-Solo se necessario.- sogghignò il capitano.
A quella risposta, Cesare posò lo sguardo su Ramiro e notò come il cinismo e la crudeltà stessero venendo allo scoperto, dimostrandolo per quello che realmente era. Anche Michelotto lo guardò ed istintivamente strinse l’elsa del pugnale legato in vita. Come si permetteva di parlare così al loro signore?
-Sì, solo se necessario.- convenne Cesare con tono secco.
Ramiro comprese di essersi spinto oltre ed abbassò lo sguardo dinanzi a quegli occhi che l’avrebbero volentieri incenerito. Lo spettro dell’assassinio di Juan aleggiava ancora come un monito sinistro e Cesare sapeva benissimo che correvano voci che l’accusavano di essere il mandante e che queste voci erano state messe in giro dopo che aveva deposto la porpora per impugnare la spada. I potentati lo conoscevano, sapevano di che pasta fosse fatto ed avevano iniziato a tremare alla sola idea di lui libero, non più vincolato dalla dignità ecclesiastica. E l’unico modo per screditarlo dinanzi al mondo cristiano, era accusarlo di fratricidio. Una cosa era dover affrontare l’inetto Juan Borgia, un piccolo principe che ogni barone si sarebbe mangiato con un solo boccone; un’altra era doversi confrontare con Cesare Borgia, uomo insondabile, inesorabile e sicuro di sé, che si sarebbe spezzato, ma mai piegato.
-Vado a prenderti il vestito per la cena.- mormorò Ramiro uscendo dalla camera.
Rimasti soli, Cesare si rese conto che Michelotto aveva ancora la mano stretta sull’elsa del pugnale e la lasciò solo quando Ramiro sparì alla sua visuale.
-Non temere, amico mio. Di lui non devi preoccuparti: è furbo, ma non abbastanza intelligente.-
-Comincio ad odiarlo.- ammise in un sussurro.
Cesare gli mise una mano sulla spalla e lui sospirò.
-Mi dispiace per tuo cugino. Lo conoscevo e posso dire che era un brav’uomo.-
-Grazie.- rispose accarezzandogli una guancia irsuta.
Michelotto chiuse gli occhi e Cesare tornò alla scrivania, prendendo in mano il pennino per scrivere alla zia.
Non pianse quella morte improvvisa, come non pianse mai per altri motivi, ma lo lasciò triste e sempre più solo insieme ai ricordi.
Quando si scosse da quell'angosciato sgomento, si rese conto di dover affrontare una vera e propria rivolta. I mercenari del Balì si rifiutavano di continuare a seguirlo se non veniva loro aumentata la paga o non fosse loro permesso di effettuare i dovuti saccheggi. Il palazzo dove alloggiava fu circondato e per tutta la notte gli gridarono minacce ed insulti.
-Guardali.- commentò con disprezzo. -Pensano solo al vile denaro e non si rendono conto che esistono situazioni più grandi di loro.-
Michelotto lo raggiunse vicino alla finestra e, ai primi chiarori dell’alba, scrutò i masnadieri che scorrazzavano ancora, urlando e lanciando sassi contro la porta del palazzo. Se solo Cesare gli avesse dato mano libera, si sarebbe messo alla testa dei suoi uomini e li avrebbe ammazzati tutti.
-Il sole sta sorgendo. Di’ a Ramiro di condurmi la Sforza.-
Michelotto s’inchinò e se ne andò, lasciandolo solo e meditabondo. Se il Balì si fosse intestardito nel volere la prigioniera, per lui avrebbe significato rinunciare al possesso delle città conquistate e questo, dopo tanti patimenti, non poteva permetterselo. Caterina non gli interessava: erano di gran lunga più importanti le sue terre ed il dominio incontrastato su di esse. Doveva escogitare qualcosa.
Quando uscì insieme a Caterina, lo stesso Balì, con una poderosa scorta, gli bloccò il passo, intimando di consegnare la dama, in quanto era stata fatta prigioniera da un francese.
Si guardò intorno ed in una frazione di secondo decise il piano. Con la sua fredda impassibilità consegnò la donna ed immediatamente, con voce profonda, annunciò di voler passare in rivista le truppe ed ordinò che tutti si radunassero nella piazza principale.
-Monsignore, perché non attaccare e distruggerli?- propose Vitellozzo.
Cesare girò appena lo sguardo e posò gli occhi imperiosi sull'uomo massiccio che aveva davanti.
-Fai quello che ho ordinato o ti pentirai di essere nato.- sibilò con voce gelida.
Una volta schierate le truppe, i soldati del Balì si ritrovarono da un lato i reggimenti di Vitellozzo e Achille, dall'altro le lance di Ives, mentre l'artiglieria era pronta a far fuoco su di loro.
Il Balì corrugò la fronte, prendendo coscienza di essere caduto in trappola e di non avere vie di fuga ed in quell'istante Cesare arrivò sul proprio destriero, mirabilmente elegante e nero come una tempesta. Dietro di lui, come un’ombra scura e minacciosa, il bel Michelotto, pronto a difendere il suo signore ad oltranza.
-Volete saccheggiare?- iniziò con veemenza, l’ira mal repressa per la nottata insonne. -Volete approfittare della popolazione indifesa? Ebbene, finché io sarò vivo questo non avverrà! Mai! Dico Mai! Chiunque troverò ad approfittare anche di una sola persona, gli farò mozzare le mani e lo impiccherò alla torre più alta! E non sperate di ricevere paga migliore: quella che percepite ora è più che sufficiente! Tutto quello che è accaduto in questi giorni mi ha disgustato ed è solo per non mancare di rispetto a Sua Maestà che non ho voluto impartire esemplari punizioni a chi ha avuto l'ardire di minacciarmi!- sbraitò fissando il Balì. -Ma se non ho agito ora, ricordate che il Valentino non dimentica ed alla prossima occasione sarò ben felice di strozzare con le mie stesse mani chi oserà insultarmi! Quanto alla prigioniera, avete ricevuto la taglia, quindi non avete più alcun diritto, né ora né mai!-
Quella furia scatenata ebbe il potere di far impallidire uomini rudi, rozzi, privi di scrupoli e di accrescere il rispetto che i capitani gli portavano.
L'arringa continuò ancora, mettendo in risalto la risolutezza e la ferocia del grande condottiero, mentre il popolo ascoltava di nascosto, ringraziando Dio per aver mandato un simile signore a cacciare la tiranna.
Infine si piantò davanti al Balì e fissandolo minacciosamente negli occhi intimò:
-Restituite immediatamente la prigioniera.-
L'uomo sbirciò i propri soldati, stretti tra due fuochi e capì di dover chinare la testa. Tuttavia replicò:
-Madonna è stata fatta prigioniera dai guasconi.-
-Monsieur d'Alègre, avvicinatevi.-
Alla presenza del capitano di Luigi XII, iniziò la discussione, degenerando in insulti osceni, velate minacce ed accuse, perché nessuno dei due intendeva cedere.
Quando capì che le cose potevano andare per le lunghe, Cesare si inalberò in tutta la sua altezza ed indicando la popolazione sbraitò in faccia al Balì:
-Volete strafare, vero? Cosa fareste se io buttassi in pasto a questa gente i vostri soldati che si sono divertiti al saccheggio? Impallidite? Ebbene, sappiate allora che è proprio questo che ho intenzione di fare: innalzerò a giudice la popolazione di Forlì; abbandonerò questi mercenari guasconi agli uomini ai quali hanno devastato e depredato le case, alle donne che hanno violentate, alle madri alle quali hanno massacrato i figli e vedremo se riusciremo a trovare anche un solo soldato intero! Vi farò fare a pezzi dalla furia del popolo!- sibilò a denti stretti, disgustato dell’intera situazione.
A quel punto, vista la risolutezza sul volto del Valentino, il capitano francese si fece avanti e consigliò al Balì di cedere la prigioniera, perché sapeva benissimo che alle minacce sarebbero seguiti i fatti e non aveva nessuna intenzione di sacrificare per una sciocchezza gli uomini di Luigi XII. Il Balì chinò la testa pensieroso, sbirciando di sottecchi i cannoni che aveva davanti e che lo minacciavano senza veli ed infine capitolò. Caterina, vestita di nero, tornò al fianco di Cesare e gli rivolse un pallido sorriso.
Un'ovazione salutò il passaggio lento e misurato del vincitore davanti alle truppe ed Ives annuì compiaciuto, notando l'ammirazione e l'adorazione negli occhi dei condottieri, fieri di militare sotto il bove borgiano.
Pochi giorni dopo, richiamato da Luigi XII per andare a combattere l'avanzata di Ludovico il Moro, che aveva deciso di rientrare a Milano, il capitano francese si vide costretto a lasciare Cesare in marcia verso Pesaro.
Vincolato dal trattato, il Valentino non alzò obiezioni e con lo sguardo cupo vide partire le trecento lance francesi e con esse la possibilità di attaccare la città del suo ex cognato. Quel brutto arresto lo contrariò, ma ponderò bene l'idea di continuare l'avanzata o di fermarsi.
Alzò la testa verso il sole e socchiuse gli occhi. Be', era iniziato l'anno santo e non gli avrebbe fatto male recarsi a Roma e rivedere il pontefice.

mercoledì 7 aprile 2010

Aforisma

"Diffida di una donna che dice la sua vera età, una donna così è capace di tutto."
O. Wilde