giovedì 23 aprile 2009

Roma vista da me

LUCREZIA BORGIA
(Subiaco, 18 aprile 1480 - Ferrara, 24 giugno 1519)


Mi aggiro in silenzio nelle stanze dei Musei Vaticani, mirando incantata le opere d'arte in esse contenute, instancabile ed insaziabile dinanzi ai dipinti di Raffaello, insignificante sotto la volta della Sistina, stupefatta nel fissare le mummie egizie, fin quando entro nella Torre Borgia, fatta costruire da papa Alessandro VI e mi addentro nelle sale affrescate da Bernardino Betti, il Pinturicchio, soffermandomi sui volti dove il pittore ha ritratto i componenti della famiglia Borgia. I dipinti sono così belli che rapiscono lo sguardo e quasi mi pare impossibile che quelle figure così candidamente ritratte possano essere i crudeli personaggi che la Storia ci ha tramandato. O, almeno, una parte della Storia. Chiudo gli occhi ed un attimo dopo vedo la santa Caterina che, quasi per magia, si stacca dall'affresco e rimane sospesa a mezz'aria, fluttuando lieve, simile ad un sogno. Ci risiamo, penso sgranando gli occhi e fissando la figura davanti a me che, sorridendo affabile, esordisce:
-Lo vuoi proprio sapere?-
Rimango mio malgrado incantata e mi accorgo che la gente che affolla la sala non si rende conto di noi, non ci guarda neppure, come se fossimo due creature invisibili. Lei, Lucrezia adolescente, presa a modello dal Pinturicchio per interpretare la santa, mi sorride ed alza il braccio per mostrarmi i suoi familiari.
-Mio padre, Rodrigo Borgia, eletto papa con il nome di Alessandro VI, era un uomo buono, parco, gaudente, sostenuto dalla ferrea Fede che aveva nel Cristo, a dispetto di tutti coloro che lo hanno soprannominato l'Anticristo.-
-In effetti, si concedeva talmente tanta licenza che quando era ancora un giovane vescovo si è beccato un rimprovero dall'allora papa Pio II Piccolomini.-
Lei annuisce e ribatte candidamente:
-Era moralità del tempo. Non esisteva uomo di Fede che non fornicasse.-
-Alla stregua di tuo fratello?- domando insinuante.
La vedo scurirsi in volto per una frazione di secondo, quindi recuperare la regalità conseguita per ricoprire il ruolo primario di principessa del Vaticano.
-Mio fratello Cesare era un cardinale allegro, modesto, pieno di vita ed i contemporanei possono sottoscrivere.-
-Era il fratello maggiore, vero?-
-Maggiore se parli dei figli che mio padre ha avuto da Vannozza Cattanei: ne ha avuti altri in precedenza da altre donne. Ma sì, Cesare era il maggiore, poi venivamo Juan, io ed infine Jofre. Quattro, e mio padre ci ha amato tutti, in particolare Juan, destinato alla carriera militare.-
Vedo i suoi occhi brillare mentre parla della sua famiglia e comprendo che il loro sangue valenzano li ha legati indissolubilmente.
-So che ti sei sposata a tredici anni.- rammento, provando a toccare un visitatore per assicurarmi di essere vista, ma costui non mi sente neppure.
-Sì, con Giovanni Sforza, conte di Pesaro e nipote del Moro. Ma era un matrimonio destinato a naufragare per correre dietro ai venti politici.- commenta scuotendo la bellissima testa dai lunghi capelli biondi. -Puoi immaginare cosa significa essere costretta a sciogliere un matrimonio in quell'epoca? Mio padre e mio fratello erano talmente sicuri del fatto loro che non si sono mai curati dell'infamia che mi gettavano addosso.-
-Come un marchio a fuoco.-
-Proprio così. Quando Giovanni non è stato più utile, mio padre e Cesare si sono guardati intorno per cercarmi un altro degno marito che a loro potesse aprire le porte di altre proficue alleanze. A me non era concesso ribellarmi. Come non mi è stato concesso piangere la morte di mio fratello Juan.-
Sento la sua voce incrinarsi al penoso ricordo e posso solo immaginare il dolore da lei provato.
-Se non rammento male,- mormoro facendo un vago gesto con la mano, -fu ritrovato accoltellato nel Tevere, nello stesso periodo in cui eri costretta a divorziare.-
Lei china appena la bionda testa e sospira mestamente.
-Fu un momento terribile per me e per tutto il mondo cristiano. Il fatto poi di non aver mai saputo chi avesse osato uccidere il figlio prediletto del papa, lasciò tutti con l'amaro in bocca.-
-Si sussurrò che fosse stato Jofre, tuo fratello più piccolo, perché Juan era l'amante di sua moglie.-
-Sciocchezze.- taglia corto con decisione, alzando il mento come una regina. -Noi Borgia siamo stati a lungo infamati da parole che hanno scavalcato i secoli, proferite da persone che ci hanno sempre odiato. Era vero che Juan fosse l'amante di sua moglie, ma Jofre non ha mai ucciso nessuno. Si disse pure che fosse stato Cesare, ma neppure lui avrebbe mai alzato la mano su un congiunto.-
-E chi fu ad ucciderlo?- domando incuriosita. -La Storia non ha mai svelato l'arcano.-
-Fai la domanda alla persona sbagliata: io ero chiusa in convento in quel periodo, in attesa del divorzio e pronta ad impalmare il secondo marito, il duca di Bisceglie.-
-Per certo, qualcuno che conosceva bene le sue abitudini lo ha colpito e poi si è ritirato nel buio.- indago pensierosa.
-Sì, e quello che so per certo è che mio padre incolpò gli Orsini, senza, per altro, averne mai le prove.-
-La scomparsa di tuo fratello fu la causa dello spogliamento di Cesare.-
-Ovvio. La nostra famiglia aveva bisogno di un uomo d'arme più che di un uomo di Chiesa e Cesare scese in campo.-
-Una morte quanto mai provvidenziale per l'ambizione del Valentino.- faccio notare.
Lei mi fissa dall'alto in basso, con il distacco dell'essere superiore e ribatte:
-Cosa ne sai tu? La gente dice che uccise il fratello per diventare condottiero; io sostengo che fu costretto a divenire condottiero perché gli avevano ucciso il fratello.-
Con un cenno della testa le concedo il beneficio del dubbio ed insinuo:
-Si dice pure che tu abbia avvelenato i tuoi mariti.-
Si mette a ridere di cuore, portando una mano alla bocca ed io rimango incantata dinanzi alla sua bellezza ed ai suoi modi gentili, da sempre decantati dai poeti e dalle persone a lei vicine.
-Io non ho mai avvelenato nessuno. Amavo talmente tanto il mio secondo marito che quando Cesare me lo ha ucciso per potermi rendere vedova e donarmi agli Este, sono quasi impazzita dal dolore.-
-Vuoi dire che, nonostante il matrimonio politico, eri innamorata di Alfonso d'Aragona?-
Lei socchiude i bellissimi occhi a mandorla e sospira.
-Chi non l'avrebbe amato? Era giovane, bello e gentile ed ho pregato per avere una lunga vita insieme a lui. Ma,- aggiunge con tono struggente, -ho pregato la persona sbagliata.-
Vedo una piccola goccia di rugiada bagnare le sue ciglia e commento:
-Allora ricusi l'accusa di avvelenatrice.-
-Così come ricuso tante altre calunnie gettate sul nostro nome.-
-Ma la gente ci crede.- faccio notare inarcando le sopracciglia.
Lei abbozza un sorriso e volge il chiaro sguardo oltre la finestra, perdendosi in ricordi lontani. Io ne approfitto per provare a toccarla, per vedere se è reale o se è il frutto della mia fantasia e lei mi lascia fare, condiscendente ed intimamente divertita. Con timidezza le sfioro la manica a sbuffo e sento sotto i polpastrelli la vellutata morbidezza del broccato e le coste in rilievo ricamate con fili d'oro. L'emozione quasi mi stronca ed alzo lo sguardo per guardarla, bellissima e delicata, eterea ed evanescente.
-Mio padre fu troppo buono nel concedere che il popolo, e chi lo sobillava, sparlasse di lui e lo rendesse ridicolo; Cesare, al contrario, puniva persino i pensieri.-
Esito dinanzi alla sua espressione assorta, come rapita da un vago senso di voluttà e solo dopo un po' le rammento:
-Si dice che tuo fratello fosse un mostro.-
Lei mi fissa e d'istinto allunga la mano per scansare una ciocca di capelli che mi era caduta sugli occhi ed io arrossisco come una scolaretta.
-No, non lo era. Era determinato ed ispirato da un alto ideale: quello di unire un'Italia lacerata da guerre intestine; e per portare a termine i suoi progetti non si è fermato dinanzi a nulla. Basti dire che mi ha fatto sposare Alfonso d'Este, recalcitrante ed inviperito contro la mia persona perché credeva a tutte le malelingue che correvano sulla mia famiglia.-
-Ma poi ha finito con l'amarti.-
China appena la testa ed annuisce.
-Sì, si è ricreduto, come tutti, del resto. Ha pianto moltissimo la mia dipartita.-
Colgo quel commento per mormorare insinuante:
-Si dice che alla morte del Valentino, il tuo pianto straziante somigliasse a quello di una donna innamorata.-
Lei si gira a guardarmi, raddrizza le spalle ed i suoi occhi grigi brillano come diamanti.
-Cesare era l'uomo più seducente e bello del suo tempo. Nessuno poteva avvicinarlo senza cadere nel magnetismo del suo fascino. Persino i suoi condottieri, quando hanno provato a ribellarsi al suo straripante potere, gli sono caduti tra le mani appena li ha richiamati. Era impossibile resistergli. Tutti, prima o poi, si scornavano contro i suoi modi affabili, il suo timbro di voce dolce e sommesso, la sua forza fisica che amava mettere in mostra; prova a chiedere al suo fido Michelotto: si è lasciato torturare pur di non rivelare i suoi segreti. Cesare era una forza della natura e nessuno poteva o riusciva a resistergli.-
-Eppure ti ha ammazzato il marito.- le ricordo.
Lei esita, si tocca la fronte con la mano e sospira, come riportata indietro di secoli, ad un periodo buio della sua vita, il periodo indimenticabile di Roma.
-Per un po' l'ho odiato, è vero.- ammette riluttante. -Ma era impossibile odiare a lungo il Valentino: era il mio fratello preferito.- aggiunge con insinuante dolcezza e con sguardo che non ha bisogno di altre parole.
Questa volta chino io la testa, accettando la sua mezza risposta e m'informo:
-Come ti sei trovata lontana da Roma?-
Sospira malinconica e chiude un attimo i suoi magnifici occhi, quindi risponde:
-Roma… Roma era tutto per me: era il bene ed era il male, era la felicità ed era il dolore, era la gioventù ed era l'irresponsabilità. Io ho amato oltremodo Roma e quando l'ho lasciata, costretta a trasferirmi a Ferrara, ho pianto a lungo. Tu hai mai lasciato l'Urbe?- indaga fissandomi dritto negli occhi.
-Solo il tempo strettamente necessario per andare in vacanza.- ammetto sorridendo.
-Io l'ho lasciata per sempre e quel vuoto non si è mai colmato.-
-Ma a Ferrara,- ribatto, -alla fine ti sei trovata bene; tuo marito, da prima riluttante, alla fine ti ha amato teneramente ed ha pianto la tua morte, così come i ferraresi. Sei rimasta nei loro cuori.-
-Sì, è vero, ma ho dovuto faticare non poco per sopire i malanimi. Ero vista come una strega, come una donna dissoluta e dai facili costumi. Nulla di tutto ciò, anche se a tutt'oggi lo si crede. Pensa un po',- aggiunge con aria birichina, -quando sono morta, di parto, hanno finalmente scoperto che portavo il cilicio. No,- conclude con un sorriso dolce, -non sono mai stata il mostro che mi si dipinge, tanto meno lo è stato Cesare. La nostra unica colpa, semmai, è stata quella di essere una famiglia di umili origini che vanta due papi e che ha travolto nomi altisonanti come gli Orsini, i Colonna, i Savelli, gli Aragona, gli Sforza, i Malatesta, i Baglioni e tanti altri. Di nemici ne abbiamo avuti molti, a partire dal re di Francia ai reali Cattolici di Spagna, ma abbiamo avuto anche tanti ammiratori, quali il Machiavelli, Leonardo da Vinci, il Bramante, il Bembo, il Sangallo, i Medici e, soprattutto, il popolo.-
-Non è poco.-
-No, non è poco.-
Ci guardiamo per un lungo attimo, con la connivenza di due donne che si conoscono da una intera esistenza e la vedo sorridere un attimo prima di sfiorarmi la fronte con un bacio materno. Rimango esterrefatta, rapita dal suo fascino malinconico ed un nodo mi chiude la gola quando riprende il suo posto nel dipinto, immobile dinanzi alla figura di suo fratello Cesare.

lunedì 20 aprile 2009

La spada bianca

Dopo tanto tempo, alla fine, mi sono lasciata convincere ed ho pubblicato l'unico libro fantasy scritto quando ero ancora ragazza.
Se vi piace il genere, questo è il link

martedì 14 aprile 2009

Roma vista da me

IL LEGIONARIO


Cammino sotto il sole infuocato del deserto, arranco con la gola riarsa e sento la mente che inizia a vacillare, facile preda dei dardi mortali di Helio. All'orizzonte, bagnato per effetto del riverbero, intravedo una palma ondeggiante, almeno credo sia una palma, e già pregusto la sorsata d'acqua che può salvarmi la vita, quando, in un barlume di lucidità, mi accorgo che la supposta palma si muove, mi si avvicina a passo addirittura sostenuto. Restringo gli occhi e porto la mano a visiera e lentamente l'immagine prende forma, una forma umana più che vegetale. Il sole risplende su un'armatura a placche d'acciaio, su un elmo stondato e su uno scudo con fregi gialli e rossi. Il gonnellino è rosso, le calighe marroni e la cuspide della lancia risplende incutendomi un timore reverenziale.
Mi fermo, priva di forze, il fiato corto ed il mio sguardo si posa sul minaccioso gladio che sporge al fianco dell'uomo e che mi abbaglia all'improvviso.
Con estrema tranquillità, come se il caldo non lo sfiorasse neppure, appena arriva vicinissimo mi assesta una cordiale pacca sulla spalla ed io cado a peso morto sulla sabbia sottile del deserto.
-Ehi!- esclama aiutandomi a tornare in piedi. -Non immaginavo fossi così… gracilina.-
Mi pulisco dalla sabbia, sputo un po' di granelli, sbatto gli occhi e sospiro.
-Ma chi diavolo sei? E come ti viene in mente, poi, di abbattermi così?-
-Aho, e mica è colpa mia se sei fatta di gelatina.- ribatte quasi offeso. -Io volevo solo essere gentile, scambiare un saluto. Non si incontra molta gente nei paraggi. Comunque, io sono Caio, uno dei legionari del grande Giulio Cesare.- si presenta raddrizzando le spalle.
Per una frazione di secondo rimango senza parole, quindi, cercando vanamente di pararmi dal sole accecante, borbotto:
-Ecco. Dovevo immaginarlo. Siete tutti così gentili voi legionari?-
Sorride e si toglie l'elmo, mettendomelo in testa e studiando la mia espressione titubante.
-Questo ti riparerà.- mormora conciliante.
Avverto la pesantezza dell'acciaio sulla testa, ma non riesco a replicare, troppo sfinita e prossima al collasso. E' incredibile, ma quell'elmo offre un'ottima visuale e lascia scoperte le orecchie, nonostante i guanciali che riparano i lati del volto.
-E' per ascoltare bene gli ordini in battaglia.- spiega.
Lo vedo prendere una borraccia che porta in spalla insieme ad altre cose e me la offre per dissetarmi. La prendo con avidità e ne tracanno un lungo sorso, sentendomi subito meglio.
-Mi sembra giusto. Ma quanto pesa quest'armatura?- domando porgendo la borraccia che, nel frattempo, si è miracolosamente riempita di nuovo di acqua.
-Suppongo quindici, venti chili. Ma noi legionari siamo addestrati a marciare con questo peso addosso, pertanto non lo avvertiamo più. Ti basti sapere che, seguendo il nostro generale, abbiamo coperto duecento chilometri in soli tre giorni. A piedi, ovviamente.-
Il suo orgoglio è tangibile e gli occhi gli brillano di fierezza ed io mi sento veramente di gelatina dinanzi a lui.
-Le legioni hanno reso grande Roma.- rammento, sbirciando la scritta "Legio" sullo scudo ed il numero di appartenenza.
Annuisce e porta le mani sui fianchi, inspirando a fondo.
-Agli inizi la legione era composta da 6000 uomini che prestavano servizio solo in caso di guerra. In seguito, con l'espandersi del territorio, ci siamo dati un ordinamento ed il servizio non si prestava più saltuariamente.-
-Questo, però, non è stato sufficiente quando i Celti hanno invaso l'Urbe, nel 390 a.C.-
-E' vero.- ammette riluttante. -In quell'occasione i biondi barbari del nord ci hanno sopraffatto e noi legionari abbiamo dovuto rivedere la nostra tattica. Qualcosa, ovviamente, non andava.-
-Ossia?- domando curiosa.
-Be', innanzi tutto il servizio di leva non poteva essere più a carattere facoltativo, ma doveva divenire obbligatorio per tutti; di conseguenza, una volta arruolati, affrontare un faticosissimo ed estenuante addestramento che durava quattro mesi, dove facevamo marce forzate con tutta l'armatura addosso. Di pari passo l'addestramento con il gladio.- e tira fuori questa spada corta e larga che incute paura.
-Sembra un grosso pugnale.- noto deglutendo.
-E quasi lo era. Venivamo addestrati per colpire di punta, diritto allo stomaco dell'avversario, la parte più molle e priva di protezioni. Sotto il nostro assalto nessuno resisteva.- ammicca arricciando il naso.
-Posso benissimo immaginarlo. Siete diventati l'esercito più temuto dell'antichità, il più efferato, ma anche il più disciplinato.-
-Già.- sogghigna, mostrando una fila di denti bianchi. -L'astinenza forzata prima della battaglia aveva il potere di renderti più crudele contro il nemico. La legione, nel periodo di massimo splendore, era composta da 4800 soldati, suddivisi in 10 coorti di 480 uomini e questi suddivisi in 6 centurie di 80 uomini. I centurioni erano coloro che, alla fine, comandavano, essendo i più vicini ai soldati; un po' come succede alle basi di un esercito moderno. Non andavano mai in pensione e terminavano la loro vita facendo carriera militare. Ho conosciuto centurioni che combattevano pur essendo ottuagenari.-
Trattengo un sorriso divertito, immaginando un attempato vecchietto con i radi capelli bianchi che ancora urla ordini ai suoi uomini. Ma, a parte questo, Caio ha ragione.
-Vedervi schierati doveva apparire terrificante per il nemico.-
Mi si avvicina con aria complice e sussurra:
-Se pensi che ogni legione possedeva anche 300 cavalieri…-
Provo solo ad immaginare un esercito di decine di legioni, schierato dinanzi ad un nemico più caotico e roboante che addestrato e disciplinato e rabbrividisco.
-Le battaglie sostenute dai legionari erano sanguinose.- ricordo.
-Sì, è vero. Ma noi romani, a differenza dei barbari e dei Cartaginesi, potevamo permetterci il lusso di perdere anche 50.000 uomini al giorno, perché il giorno dopo erano comunque rimpiazzati. La legione era sempre pingue.- commenta con un sorriso di superiorità.
Inorridisco al pensiero e riesco a credere, a quel punto, alle parole di Giulio Cesare, quando disse che la guerra contro i Galli era costata due milioni di morti.
-A proposito di Cartagine…- inizio con brutto cipiglio. -L'avete rasa al suolo con una violenza inaudita.-
Sbuffa e sposta il peso da un piede all'alto ed io mi soffermo sulle calighe, inarcando le sopracciglia: come diavolo facevano a combattere con quelle cose addosso? Apparentemente sembrano così delicate…
-Tre sanguinose guerre puniche, durate decenni e costate molte vite… Sì, avevamo timore di Cartagine e non ci abbiamo pensato due volte, quando ne abbiamo avuto l'occasione, a raderla al suolo. Ma noi,- aggiunge scurendosi in volto, -non eravamo spietati solo contro i nostri nemici; anche con noi stessi.-
-Ossia?-
-Mai sentito parlare della decimazione?-
-Be', sì, quando il vincitore decima il nemico…-
-No, no.- mi interrompe con un gesto secco della mano. -La vera decimazione significa prendere un uomo su dieci e passarlo per le armi. I nostri uomini.-
Sgrano gli occhi inorridita e chiedo:
-E perché mai?-
Fa una smorfia e si avvicina per osservarmi bene.
-Sei mai stata sotto le armi?-
-No.-
-Allora è tutto chiaro.- commenta quasi con disgusto.
-Chiaro cosa?- insisto.
Si gratta il mento sbarbato e mi accorgo che, a dispetto delle apparenze, è molto giovane e mi sovviene anche il perché: l'età media, all'epoca, era di venticinque anni. Pertanto, come si entrava nella pubertà, si veniva subito arruolati per un periodo non inferiore agli otto anni.
-Chiunque si dimostrava codardo in battaglia, era causa della decimazione del proprio reparto.-
-Oh, mio Dio!- sussurro inorridita. -Ma non era più logico colpire il pusillanime?-
-Occorre disciplina.- replica perentorio, da buon legionario. -Non mi meraviglia che tu sia stata renitente alla leva.-
-Io non sono stata…-
Scuoto la testa, sorvolando sull'insinuazione e lui continua, come se non fosse stato neppure interrotto:
-Se ero consapevole di poter causare la morte dei miei compagni, preferivo superare la paura e morire in battaglia. Tu sopravvivresti con un fardello simile?-
-Assolutamente. Ora mi spiego perché le legioni romane erano temute in tutto il mondo-
-Già. Il nostro arrivo era sinonimo di morte e distruzione. Io ero e sono tuttora fiero di essere un legionario di Cesare.- dice portando il braccio piegato all'altezza del petto, in modo che il pugno arrivi al cuore.
-Be',- rispondo sorridendo, -in qualche modo, anche noi siamo legionari, legionari di una Roma diversa.-
-Quale Roma?- grugnisce e la sua irruenza quasi mi spaventa. -Di Roma ce n'è una sola.- puntualizza con occhi che scintillano.
-Non esattamente…-
-Sai cosa vuol dire "Legionario"?- incalza, provando ad incutermi soggezione.
-Ammetto di essere molto ignorante.- rispondo con un sorriso accattivante.
-Nel nostro latino, la nostra bellissima lingua, significa "raccogliere in armi". Anche voi vi raccogliete in armi?-
Il mio sorriso si illumina maggiormente, pensando ai colori dello stadio e rispondo:
-Non proprio.-
-E allora, cara mia, di legionari esistiamo solo noi, la vera macchina da guerra di Roma.-
Lo vedo alzare il mento con fierezza e comprendo che non può capire quello che intendo io e lascio cadere il discorso, un attimo prima di sentire un tuono rombare sopra la mia testa. Alzo gli occhi al cielo e vedo un gruppo di nubi nere che arrivano con il loro pesante carico di pioggia e sorrido, rincuorandomi non poco. Quando la pioggia scende, mi accorgo che l'uomo non c'è più, svanito come un miraggio, ma in testa porto ancora il suo brillante elmo d'acciaio ed un sorriso mi piega le labbra.

giovedì 9 aprile 2009

Roma vista da me

BEATRICE CENCI
(Roma, 12 febbraio 1577 - Roma, 11 settembre 1599)


Avete mai imparato a sciare? Io ci ho provato quando ero ragazzina e la cosa mi ha talmente impressionato che ho preferito scendere con lo slittino per il resto della vita. E' un piacere enorme quando sfrecci sulla neve indurita, quando il gelo ti sferza le gote ed il naso fino a renderli rossi come un ubriaco e senti l'adrenalina aumentare con l'aumento della velocità. Lo è un po' meno quando ti imbatti in un punto dove la neve è soffice e lo slittino ti si inchioda e tu sfrecci sopra di lui fino a ruzzolare giù come una palla impazzita. E' un miracolo se non ti rompi nulla e rimani a sedere mezzo intontita prima di scoppiare a ridere per la scena buffa con la quale hai dato spettacolo.
-Beata te che puoi godere delle gioie della vita.-
Sbatto gli occhi al suono di quella voce sommessa e malinconica e mi alzo da terra, sgrullandomi la neve di dosso. La vedo, accanto ad un albero dalle fronde basse, l'abito candido come la neve e rimango a fissarla a lungo, rapita dalla sua bellezza che non riesce a nascondere il dolore. Esito a lungo e chiamo titubante:
-Beatrice Cenci?-
Annuisce appena e sorride indicando la propria testa.
-Preferisco non muoverla troppo: dopo sarei costretta a raccoglierla. Durante tutti questi secoli,- commenta in un borbottio, -ancora non sono riuscita a capire come fare per riattaccarla.-
Rabbrividisco, a dispetto del caldo provocato dalle tante discese con lo slittino e porto istintivamente una mano alla gola, come a sincerarmi che ci sia ancora.
-Vuoi vedere?- mi domanda e senza attendere risposta si prende la testa tra le mani e la stacca dal collo.
A quella vista raccapricciante divento più bianca della neve ed un attimo dopo mi ritrovo di nuovo seduta per terra, gli occhi sgranati per l'orrore. Mi sembra di vivere un incubo scozzese, dove i fantasmi girano indisturbati nei meandri di castelli antichi e fatiscenti. Tremando appena mi metto in ginocchio e porto le mani in avanti, a mo' di scudo e supplico:
-Ti prego, ricomponiti.-
Lei lo fa ed io rinsanguo visibilmente. Mi rialzo con lentezza, ancora sconvolta e mormoro:
-Comprendo il tuo stato d'animo e mi spiace per quello che hai passato.-
Sospira mestamente ed io ricordo con chiarezza la brutalità e la crudeltà di suo padre, Francesco Cenci, nobile romano gottoso e rognoso, erede di una ingente fortuna che lui, con il suo stile di vita, aveva sperperato.
-Già.- mormora, come se mi avesse letto nella mente. -Soldi ereditati da suo padre e che è stato costretto a versare come risarcimento alle famiglie dei giovani da lui crudelmente sodomizzati.-
Faccio una smorfia, pensando che gli uomini non cambieranno mai e domando:
-E' per questo che non voleva farti maritare? Per non dover pagare la dote?-
-Esattamente. I miei stessi fratelli hanno provato più volte a parlare con il pontefice per spiegargli l'impossibilità di vivere accanto ad un mostro simile, ma il papa, ben conoscendo la situazione, non ha potuto far nulla, se non esiliare i miei fratelli maggiori.-
-Pertanto, tu e gli altri siete rimasti alla sua mercè.-
China appena la bellissima testa ed i lunghi capelli castani le incorniciano il volto dalle guance ancora paffute.
-Io e la mia matrigna, Lucrezia, siamo state rinchiuse nella rocca di Petrella Liri, in Abruzzo, in modo tale che lui potesse continuare a trattarci con estrema violenza lontano dagli occhi di Roma. I suoi continui soprusi, le sue svariate sevizie, alla fine mi hanno costretto a chiedere aiuto. Ho scritto alcune lettere al papa, Clemente VIII Aldobrandini, per spiegargli in quale situazione ci trovavamo io e Lucrezia ed ho scritto lettere anche ai miei fratelli maggiori in esilio, nella speranza che qualcuno venisse a liberarci.-
-Ci sei riuscita?-
-Sì, le lettere sono giunte a destinazione, ma nessuno si è preso la briga di aiutarci. Le mie erano parole al vento. Auspico che oggi si dia più credito ad una fanciulla che versi nello stato pietoso in cui ho vissuto io.-
-Per certo, oggi le tue lettere non sarebbero cadute nel vuoto.-
Sorride soddisfatta ed alza lo sguardo all'albero carico di neve che svetta alle sue spalle, commentando lapidaria:
-Allora, la mia morte è servita a qualcosa.-
-Indubbiamente. Le donne romane hanno guardato a te come ad una vittima e come tale ti hanno onorata nei secoli.-
-E' già qualcosa.- risponde con un cenno impercettibile della testa, gli occhi dolci velati di lacrime.
Mi soffermo sul suo turbamento e non riesco a dirle che, in fondo, era una colpevole che, oggi, avrebbe potuto usufruire delle attenuanti.
-Una di quelle lettere,- riprende a raccontare, -giunse nelle mani di mio padre ed io venni brutalmente percossa. Ero certa che sarei morta sotto i suoi colpi, ma ne uscii con un po' di ossa rotte e molte ecchimosi.-
-Tuo padre non andava per il sottile.- commento acida.
-No. Era un mostro, nel vero senso della parola. E quando, nel 1597, si trasferì definitivamente a Petrella, per me e Lucrezia fu la fine.-
-E' stato allora che hai iniziato a pensare all'omicidio?-
A quella parola gli occhi le si illuminano e sembrano prendere fuoco come tizzoni ardenti, mostrando tutta la voglia di vivere che aveva.
-Già.- sussurra in un sogghigno. -Solo la sua dipartita ci avrebbe liberato dalla sua violenza. Non credi?-
Rimango un attimo in silenzio, ripensando a tutti i processi subiti da Francesco per la sua crudeltà e tutte le volte condannato, e mi domando se, in questo caso, la vittima non sia giustificata. Ma non sono un leguleio, non capisco nulla di leggi e mi astengo dal rispondere.
-Si dice che tuo padre avesse abusato di te sessualmente.-
-No, non giunse a tanto, per mia fortuna.- risponde nauseata.
-Hai organizzato tu il parricidio?- domando.
-Io, con la connivenza di Lucrezia e dei miei fratelli Giacomo e Bernardo, con il castellano Olimpio Calvetti ed il maniscalco Marzio da Fioran.-
-E come avete agito?-
-Be'…-
Esita e si morde le labbra, mentre le guance le si imporporano, rendendola ancora più bella.
-A dire il vero, i primi due tentativi fallirono.-
-Due tentativi?- ripeto incredula.
-Eravamo un po' maldestri, devo ammetterlo. Noi non eravamo avvezzi a far del male. La prima volta provammo con il veleno e la seconda con un'imboscata, e sono giunta alla conclusione che questi due tentativi andati a male fossero un avvertimento divino, un tentativo di dissuadermi dal portare a compimento l'opera.-
-Ma non gli hai dato ascolto.- faccio notare con un vago gesto della mano.
-No, infatti. Ma il terzo riuscì. Mio fratello Giacomo mi procurò l'oppio per stordirlo e dopo che si fu addormentato, Marzio gli spezzò le gambe con un martello, mentre Olimpio lo finì conficcandogli un chiodo alla base del cranio e uno nel collo.-
Inorridisco alla raccapricciante scena che mi rimanda la mente e scuoto la testa, inalando a pieni polmoni il freddo dell'inverno.
-Quindi tentammo di simulare un incidente, facendo credere che fosse caduto dalla balaustra. Quando, due giorni dopo, il corpo fu rinvenuto, seguì il funerale ed il seppellimento e noi tornammo finalmente a Roma.-
Il suo racconto freddo e distaccato gareggia con il clima rigido, ma non me la sento di accusarla; in finale, si è solo difesa con le proprie mani, visto che nessuno accorreva alle sue invocazioni di aiuto.
-Ma poi si iniziò a sospettare di omicidio.- ricordo.
La vedo chiudere gli occhi ed inspirare a fondo, prima di ammettere:
-Sì. Il suo cadavere fu esumato e risultò chiaro che non si trattava di incidente. E visto che tutta la famiglia lo odiava, i sospetti caddero subito su noi.-
-Foste imprigionati.-
-Sì, tutti quanti. Olimpo ammise le sue colpe e poco dopo lo uccisero. E lo stesso Marzio, torturato a morte, confessò prima di morire. Anche i miei fratelli confessarono. Solo io, all'inizio, mi dissi estranea ai fatti, ma dopo la tortura della corda, dovetti ammettere la mia colpa.-
-Confessione spontanea, vero?- commento sarcastica.
-Il papa decise di dover dare il buon esempio per cercare di arginare la violenza che dilagava nell'Urbe.- rispose con disprezzo. -Che ci vuoi fare? A quei tempi la tortura era tollerata, anzi, la si esigeva. Solo ai nobili era risparmiata, ma per noi il papa fece un'eccezione.- aggiunge con disprezzo.
-Ma ci fu un processo che coinvolse e fomentò tutta Roma…-
-Certo, ma ormai Clemente VIII aveva deciso che io dovevo essere il monito per tutti coloro che osavano ribellarsi.-
-So che al patibolo siete andati in tre: tu, Lucrezia e Giacomo.-
-Sì. Bernardo, che era giovane, fu risparmiato. A noi ci portarono nella piazza di Castel S. Angelo, in modo che tutta Roma potesse godere dello spettacolo. Ci furono tagliate le teste con una spada: prima Lucrezia, poi io. Mio fratello subì anche una tortura atroce durante il tragitto e sul palco venne squartato.-
Deglutisco e sento che conclude sconsolata:
-Tra la folla c'era pure Caravaggio.-
Rimango attonita e perplessa e guardo quel volto giovane e bello che emana una dolcezza infinita e mi domando come si è potuto infierire su una simile creatura che aveva solo voglia di vivere e che le era stata negata dagli eventi. E' morta due volte e di questo tutta Roma dovrebbe rammaricarsi.
-Anche tu sei pronta a condannarmi?- s'informa studiandomi.
Scuoto la testa e rispondo con fermezza:
-No, assolutamente. C'è tanta gente al mondo che ha fatto cose peggiori di te e che vive liberamente.-
-Io so solo ciò che ho fatto io e non mi pento. Tanto,- conclude amaramente, -se non mi avesse ucciso la mano del boia, mi avrebbe uccisa mio padre. Per me, il finale non sarebbe cambiato.-
-Roma ti ha visto morire con dignità.-
Alza il mento fieramente e mi fissa a lungo, prima di mormorare:
-Anche una giovane come me poteva mostrare come si muore. Avevo ventidue anni e per me abbandonare questa valle di lacrime ha solo significato iniziare a vivere.-
Esito dinanzi a questo commento, ma poi comprendo e sorrido annuendo. La vedo farmi un inchino di complicità e le rispondo goffamente, scatenando la sua ilarità. Rimango incantata dinanzi alla sua gioia e rido anch'io con lei, fino a quando la mia attenzione è catturata da uno scoiattolo che si affaccia da un ramo imbiancato dalla neve. Lo guardo per un attimo, quindi torno a posare gli occhi su di lei, ma non la distinguo più e la neve candida torna a predominare, purificatrice e silenziosa testimone.

lunedì 6 aprile 2009

Roma vista da me

RAFFAELLO SANZIO (Santi)
(Urbino, 6 aprile 1483 - Roma, 6 aprile 1520)


La canicola romana, per noi romani, è un incubo. Non solo il sole estivo picchia sodo, facendo la felicità delle cicale, ma ci si mette anche l'umidità a rendere tutto più insopportabile. L'asfalto si scioglie sotto i piedi, si lasciano le impronte lungo i marciapiedi e si gronda sudore peggio della fontana di Trevi. Nei giorni del solleone Roma è una città piena non di uomini, ma di pesci simili ad esseri umani che boccheggiano. E allora, ligi al buoncostume, noi cittadini dell'Urbe arroventata ci dedichiamo alla "pennichella", giusto per fuggire le ore più cocenti. Io non faccio eccezione. Dopo il pranzo cedo al cosiddetto "abbiocco" romano e svengo letteralmente sul letto, dove le lenzuola sono più bollenti dell'asfalto.
E mentre me ne sto lì in catalessi a fissare il soffitto, attenta a non muovere un solo muscolo per cercare di sudare il meno possibile e, di conseguenza sperare di sentire meno caldo, annuso all'improvviso un odore che ha un che di familiare: i colori sulla tavolozza. Mi volto e lo vedo, in piedi, dritto accanto al mio letto, in mano un pennello e l'occhio critico che osserva il soffitto come me poco prima.
-E' interessante tutto bianco,- commenta alzando la mano ingioiellata, -ma io proverei a dargli un tocco di colore.-
Scatto seduta e lo fisso attonita, incapace di aprire bocca ed istintivamente mi sistemo i capelli, un vezzo tutto femminile dinanzi ad un personaggio di cotanto spessore, che ha fatto girare la testa e tutte le donne che incontrava.
-Mio Dio… Raffaello…- sussurro e subito dopo arrossisco imbarazzata, ripensando ai miei miseri disegni attaccati alle spoglie pareti di casa, che cercano vanamente di trasmettere un minimo di calore.
Lui abbassa lo sguardo e mi sorride con estrema dolcezza.
-Io, per servirti.- e s'inchina elegantemente.
-Be'… per servirmi…- ripeto trasecolata, indecisa, in un barlume di pudicizia, se scendere di volata dal letto ed andare a staccare tutti i disegni.
-Desideri che affreschi il tuo soffitto?- si offre con estrema amabilità.
Accidenti! Affrescarmi il soffitto? Sbatto gli occhi come per svegliarmi da un sogno e per un secondo accarezzo l'idea, la splendida idea di avere un Raffaello in casa mia, inedito e tutto per me. Possedere un'opera simile mi darebbe letteralmente alla testa e diniego seppur controvoglia.
-Sarebbe un onore immenso che non merito.- ammetto.
-Sciocchezze. Lo farei ben volentieri, dopo questi secoli di oblio… A lungo andare la mano si atrofizza e per noi pittori è un evento terribile.-
-Ti ringrazio, ma non dormirei più, intenta ad osservare il tuo affresco notte dopo notte. Piuttosto,- inizio cambiando discorso, -perché non mi parli di te?-
Lo vedo grattarsi distrattamente la cute, l'aria assorta, e poco dopo posare il pennello sul mio comodino e sedersi accanto a me. Mi sorride accattivante ed io rimango incantata dinanzi alla sua celeberrima bellezza.
-Cosa vuoi che ti dica? Sono nato per dipingere. Non ho fatto altro per tutta la mia breve vita.-
-A parte correre dietro alle gonnelle.- sottolineo pungente.
Ride di gusto ed annuisce, un secondo prima di accarezzarmi il volto con delicatezza. Rimango esterrefatta e mi accorgo che lui mi osserva attento, prendendo nota dei miei lineamenti, con l'occhio critico del pittore. Non è un segreto che lui, il "divino Raffaello", abbia amato oltremodo le donne di ogni costume, ricevendo in cambio il loro amore eterno, tanto che al suo funerale tutta la Roma femminile seguiva il corteo piangendo a dirotto. Mi scuoto dall'oblio e torno sufficientemente lucida per dire:
-Sei di Urbino, la città dei Montefeltro.-
-Sì, nato durante il principato di Guidobaldo, figlio del grande Federico.-
-La corte dei duchi di Urbino era facoltosa e ridondava dei massimi esponenti in tutte le arti e le scienze. I Montefeltro erano veri e propri mecenati illuminati.-
-Vero. Mio padre, Giovanni Santi, era un pittore ed i primi anni li ho trascorsi con lui, alla corte dei Montefeltro. E' stato lui ad indirizzarmi verso questa sublime arte, fino a quando sono rimasto orfano ancora bambino. Allora ho frequentato la bottega di Pietro Vannucci, detto il Perugino ed ho imparato tanto presso questo pittore di grandissima fama. La mia prima commissione è stata una Pala per Città di Castello quando ero ancora adolescente.-
-La città dei Vitelli.-
-Esattamente.-
-Quindi, hai lasciato Urbino in giovane età.- noto.
-Morti i miei genitori, non avevo nulla che mi trattenesse lì, a parte la mia sorellina Elisabetta.-
-Tu hai vissuto il periodo di maggior rilievo artistico del nostro paese, l'invidiatissimo ed ineguagliabile Rinascimento italiano.-
Rimane in silenzio per un lungo momento ed io inizio a credere che non mi abbia udita. Ma poi alza una mano e la muove dinanzi ai miei occhi, fin quando, sospesi nell'aria, mi appaiono i suoi capolavori, uno dietro l'altro, dalla Scuola di Atene alla Fornarina, dalle varie Madonna con il bambino alle Stanze Vaticane ed io per poco non ho un colpo apoplettico. L'emozione è così forte che rimango di granito, senza fiato, gli occhi sgranati dinanzi a quelle meraviglie uniche ed irripetibili. Se solo il mondo intero potesse vederle…
-Ho lavorato ed assorbito le tecniche dei maggiori pittori e scultori del mio tempo e di quello precedente: Perugino, Luca Signorelli, Pinturicchio, Leonardo, Michelangelo, Bramante, i Sangallo, Piero della Francesca, Verrocchio, Donatello, Masaccio, Giotto, Beato Angelico…-
Al solo udire quei nomi vengo colta da vertigine ed impallidisco: cosa sono io in confronto a questo giovane che ha avuto la fortuna di vivere fianco a fianco con geni simili? E divenire lui stesso un "divino"? Mi gira la testa al solo pensiero e lui se ne accorge. Mi tocca un braccio ed io sussulto involontariamente, tornando con i piedi per terra. Lo fisso attonita, notando la sua bellezza delicata, i suoi occhi grandi e limpidi, la sua bocca piena e piccola, i capelli che gli lambiscono le spalle e comprendo il motivo per cui tutti lo amavano.
-Non è un caso che ti hanno soprannominato "Il divino Raffaello".- commento in un sussurro.
-Io ho solo assorbito e riunito in me tutti questi pittori che stimo oltremodo e che ho sempre ritenuto i miei maestri, cercando di dare vita ai loro studi.-
-Tu… sei un genio della pittura. I tuoi ritratti sono… praticamente perfetti.-
-Un artista non considera mai terminata un'opera. Leonardo non considerò mai terminata la sua Gioconda, sebbene io la considerassi perfetta già ai tempi di Roma.-
-Oh, Roma…-
Per un attimo rimaniamo in silenzio, ognuno perso in reconditi ricordi, mentre le sue opere continuano a scorrere dinanzi ai miei occhi, catturando il mio sguardo ed il mio cuore.
-Dopo Firenze, sei venuto a Roma.- ricordo.
-Sì, presso papa Giulio II Della Rovere. Ero accompagnato da Bramante, che mi ha introdotto alla corte papale.-
Be', a quanto pare, anche allora andavano di moda le raccomandazioni.
-E qui hai affrescato le Stanze Vaticane.- sospiro rapita.
Mi guarda di sottecchi e sorride.
-Sì, nello stesso periodo in cui Michelangelo dipingeva la Cappella Sistina.-
-Mio Dio… Quale spettacolo di mirabile bellezza deve essere stato… Tu in una stanza e Michelangelo in quella accanto…-
-Non era la prima volta che accadeva un fatto simile: per l'affresco nel Palazzo Vecchio di Firenze, erano stati chiamati Leonardo e Michelangelo, i quali dovevano lavorare schiena contro schiena. E tu sai quanto quei due geni si odiassero.-
-Cosa avei dato per poter vivere in quegli anni di risveglio artistico e culturale!- sospiro rapita.
-Erano tempi duri, non dimenticare.- mi rimprovera dolcemente.
-Oh, ma tu parli di Michelangelo e pretendi che io non rimanga incantata da un simile personaggio che ha regalato al mondo un capolavoro come la Cappella Sistina.-
-In effetti ero anch'io un suo estimatore e, per omaggiarlo, l'ho raffigurato nei panni di Eraclito nella Scuola di Atene.-
-Così come hai raffigurato Leonardo e Bramante.-
-Vero. Personaggi simili, di tale levatura artistica e scientifica, non si incontrano spesso nella vita.-
-Sacrosante parole. Sei stato il pupillo di Leone X, papa Medici.-
-Sì, è vero. Io e lui la pensavamo uguale in fatto di gusto per l'estetica, amore per il lusso, la buona cucina e le buone cose che ci dona la vita, tranne le donne.-
-Già. Tu le amavi da morirne, mentre lui preferiva i giovani.-
-Non giudicarlo solo per questo. E' stato un papa del suo tempo.-
-Non lo giudico affatto. Anzi: se ritieni che possa avere dei pregiudizi, allora non mi conosci.-
Mi fissa attentamente, quasi a sondarmi ed io rimango incatenata ai suoi occhi, un libro aperto per lui. Quando lo vedo piegare le labbra in un sorriso di accettazione, mormoro:
-Tu hai ridato splendore a Roma e la tua luce si riflette ancor oggi.-
Rimane un attimo in silenzio ed io sbircio il suo profilo delicato, chiedendomi per quale recondito fine il Signore avesse deciso di riprendersi la vita di questo giovane che tanto avrebbe potuto dare all'umanità.
-Ricordo che quando vidi la Gioconda, rimasi praticamente paralizzato: era di una bellezza così irreale, sensuale, sfuggente, che ho invidiato la felice mano del maestro. Non ho fatto nulla di così grandioso, ma solo quello per cui venivo pagato.-
-Non hai fatto nulla?!- ripeto scandalizzata. -Ma se il papa stesso ti nominò direttore della Fabbrica di S. Pietro, accanto ai Sangallo!-
Mi guarda dritto negli occhi e trattengo il gemito di soggezione di fronte ad un simile pilastro dell'umanità che, oltre ad essere eccelso, è gentile, dolce e modesto, sebbene ignorante nel senso originale della parola. Lo vedo piegare le labbra in un sorriso ed alzare le spalle in segno di rassegnazione e con tono mesto spiegare:
-Io non avrei saputo maneggiare una spada come Guidobaldo di Montefeltro, come il Carmagnola, come il Gattamelata o come Giovanni dalle Bande Nere, ma sapevo usare il pennello e mi è parsa la cosa più naturale del mondo metterlo al servizio dei potentati.-
-Il pennello al posto della spada… Tu sì che possiedi un animo nobile. E' per questo che noi romani ti amiamo e ti abbiamo sepolto nel nostro Pantheon, degno di riposare al fianco dei nostri re.-
In quel momento davanti ai miei occhi appare la Trasfigurazione, l'ultima sua opera ed un attimo dopo lo vedo alzarsi dal letto ed allungare la mano, come per riprendersi le sue meraviglie. I suoi incantevoli dipinti iniziano a sfumare lentamente, lasciandomi smarrita, gli occhi mobilissimi in cerca di quei quadri che hanno segnato un'epoca e mi rendo conto, mio malgrado, che anche lui se ne sta andando, lasciandomi di nuovo sola. Lo vedo che si china leggermente e mi posa un bacio in fronte, prima di sussurrare:
-Un giorno, forse, farò il tuo ritratto.-
Deglutisco ad una simile prospettiva ed arrossisco come una scolaretta, mentre la canicola torna ad assalirmi con il suo pesante carico di umidità. E mentre sbatto gli occhi, ancora stordita, qualcosa attrae la mia attenzione, qualcosa che mi lascia con il fiato sospeso e gli occhi spalancati: il pennello che il "divin pittore" ha lasciato a suo perenne ricordo sul mio comodino.