venerdì 27 febbraio 2009

Roma vista da me

FEDERICO II
(Jesi, 26 dicembre 1194 - Castel Fiorentino di Puglia, 13 dicembre 1250)


Odo un bisbiglio lieve, un sussurro gentile che fluttua tra il sonno ed il torpore e le mie orecchie registrano uno sbattere d'ali prima di svegliarmi in piena notte, certa di aver sognato e mi porto seduta sul letto, sbadigliando. Ma il sogno non se ne va, rimane lì, davanti al mio sguardo ancora preda dell'oblio di Morfeo, con un dolce sorriso sulle labbra e l'aria divertita. Sull'avambraccio porta uno splendido falco pellegrino, dagli occhi mobilissimi ed attenti e dallo sguardo inquietante. Rimango incantata dalla visione avvolta nella penombra della stanza, investita da un minuscolo fascio di luce proveniente da una fessura della serranda che le dona un tocco irreale e mi stropiccio gli occhi per svegliarmi del tutto e lui, con un accenno di inchino, mi tranquillizza:
-Non temere, non voglio farti del male.-
Deglutisco non per lo spavento e rispondo fiduciosa:
-Lo so. Ti conosco bene, stupor mundi.-
A quelle parole le sue labbra si piegano in un sorriso compiaciuto, i suoi chiari occhi si illuminano ed a quel punto l'inchino si accentua, rivelando il suo animo cavalleresco e svelando il rossore che mi ha colorito le gote, tanto da farmi accennare una spontanea riverenza.
-Federico II di Hohenstaufen del ducato di Svevia, figlio di Enrico VI e di Costanza d'Altavilla.-
-Sì, sono io, qui per rispondere a tutte le domande che vorrai farmi.-
Quasi stento a crederci che il grande Federico II di Svevia, nipote del Barbarossa, sia davanti a me, come un qualsiasi comune mortale. Ma lui non è un comune mortale. In lui si fondono per la prima volta due corone: quella del Sacro Romano Impero e quella del Regno di Sicilia. Mio Dio, penso annichilita, mi trovo al cospetto di uno dei più grandi uomini della Storia prima dell'avvento di Napoleone, il solo nel quale scorra un miscuglio esplosivo di sangue: teutonico, normanno ed italico. Sento il mio cuore galoppare come un indemoniato ed inspiro profondamente per mantenere la dovuta lucidità.
-Tu…- inizio timorosa, -sei rimasto orfano all'età di quattro anni.-
-Sì, è vero. Mio padre morì quando ne avevo tre e mia madre l'anno dopo. Ma prima di dipartire, mi ha affidato a papa Innocenzo III dei Conti di Segni, il quale mi ha riconosciuto come re di Sicilia senza battere ciglio, infeudandomi dell'eredità materna. Ma per quanto concerneva l'altra corona… Ha fatto di tutto pur di non riconoscermi come imperatore del Sacro Romano Impero.-
-All'età di quattro anni, sulla tua testa pendevano queste due grosse responsabilità. Ma perché negarti l'eredità paterna?-
Lo vedo accarezzare con dolcezza il piumaggio del bellissimo falco e risponde:
-E' solo una questione geografica. Il papato, all'epoca, e per i secoli successivi, possedeva tutta l'Italia centrale. I Normanni, di cui mia madre era l'ultima discendente, possedevano dal napoletano in giù, il cosiddetto Regno di Sicilia. La Germania era al nord, il grande Sacro Romano Impero. Puoi benissimo immaginare che, se il papa mi avesse riconosciuto anche come imperatore, si sarebbe venuto a trovare in una morsa stritolatrice: il Regno al sud e l'Impero al nord. Era, praticamente, accerchiato.-
-Ma alla fine l'hai spuntata tu.-
-Sì, a costo di enormi sacrifici e di continue lotte diplomatiche e non, contro il papato.-
-E contro il Carroccio.-
Lo vedo corrucciarsi ed un'ombra gli sfiora il volto non bello ma affascinante.
-Già, contro i lombardi che, come al tempo di mio nonno, hanno temuto, e non a torto, che volessi impossessarmi anche del nord Italia. Ma per unire il mio impero, non potevo fare altrimenti.-
-Il terribile Ezzelino III da Romano ti ha sostenuto in Lombardia, dov'era il suo feudo.-
-Era mio genero, avendo impalmato una delle mie figlie: non avrebbe potuto fare altrimenti.-
-So che ti sei sposato tre volte.-
-La mia prima moglie è stata Costanza d'Aragona ed è l'unica che mi sia rimasta nel cuore.-
Lo guardo per un lungo attimo, scettica e lui sorride, continuando:
-E' vero, ho avuto anche molte concubine, la più amata delle quali è stata la contessa Bianca Lancia. E' suo il mio figlio prediletto, Manfredi, l'unico che ho legittimato e che è divenuto re di Sicilia.-
-Hai avuto anche altri figli.-
-Una schiera, a dire il vero.- risponde ridendo. -Enrico, che avevo eletto a re di Germania, sono stato costretto ad accecarlo ed imprigionarlo quando mi si è rivoltato contro. Enzo, che ho elevato a re di Sardegna, quello che più di tutti mi somigliava fisicamente; Corrado, divenuto re di Germania e poi imperatore alla mia morte e tanti altri che ho sparso per l'Italia.-
-Tu l'Italia l'hai amata molto.-
Un sorriso dolce gli sfiora le labbra e sbircia il profilo del falco appollaiato sul suo braccio, mentre il raggio di luce gli illumina il viso, rilucendo sulla corona ferrea che porta sulla testa.
-Moltissimo e, come tutti coloro che l'hanno amata, ne sono stato mal ricompensato. L'ho sempre preferita alla fredda Germania ed è per questo che, per tutta la vita, mi sono adoperato per portare il centro del potere in Sicilia e non nel gelido nord.-
-Nel frattempo, il papato, con i vari papi succedutisi, ti ha combattuto aspramente, giungendo ad accusarti di essere l'Anticristo.-
Si mette a ridere e con gesto stanco si porta seduto sul letto accanto a me. I suoi occhi chiari mi scrutano a lungo ed io mi sento come una formica dinanzi ad un gigante. In realtà non è alto, ha una corporatura piuttosto tozza, ma è gigantesco ciò che ha provato a fare per amore dell'Italia, lui, un teutonico e non un italiano.
-Ti parrà strano, ma io sono sempre stato un fedele cristiano, checché se ne dica. Ho perseguitato gli eretici ed ho sempre avuto rispetto per Roma e ciò che di più sacro rappresentava.-
-Questo non ti ha evitato la scomunica.- gli ricordo.
Annuisce e tira fuori da una sacca legata in vita un pezzo di carne che porge al falco. Questi lo prende e lo inghiotte, con aria soddisfatta.
-Non solo una, ahimé. A parte le parentesi in cui la Chiesa è stata costretta a riprendermi in seno, ho in sostanza trascorso la vita da scomunicato e ci sarei pure morto scomunicato, se non fosse stato per il mio carissimo amico Berardo da Palermo, il quale mi ha sciolto dalla scomunica in punto di morte, andando contro la Chiesa.-
Sorrido con l'eccitazione di una bambina ed esclamo:
-Sempre scomunicato, come quando hai conquistato Gerusalemme!-
Lì scoppia a ridere al ricordo e si batte una mano sulla coscia, catturando l'attenzione del rapace.
-Sì, proprio così. Era da un po' che il papa mi spingeva alla crociata, cercando di farmi emulare mio nonno il Barbarossa e Riccardo Cuor di Leone, ma io ho sempre nicchiato, rinviando sine die. Non avevo alcun interesse ad andare ad impelagarmi in Terrasanta, visto che avevo i miei grossi problemi a gestire un così vasto impero con italiani piuttosto indisciplinati. Ma alla fine ho chinato la testa ubbidiente e sono partito. E, senza colpo ferire, senza che nessuno tra cristiani e musulmani ci rimettesse la vita, ho conquistato Gerusalemme solo con la mia benevolenza verso l'Islam. Lo stesso sultano Al Kamil mi ha donato le chiavi e mi sono incoronato re di quella bellissima città. Ovviamente il papa, Gregorio IX dei Conti di Segni, ha schiumato di bile, perché tutto questo,- aggiunge con aria birichina, -l'ho fatto da scomunicato. Riesci ad immaginare cosa significava? Al mio rientro in Italia, il papa si è dovuto mangiare il fegato ed ingoiare il rospo e sciogliere la scomunica perché gli portavo le chiavi di Gerusalemme.-
-Sei riuscito in un'impresa dove nessuno è mai riuscito, addirittura senza neppure combattere.-
-La diplomazia.- commenta alzando l'indice. -Tutto ciò che ho fatto, l'ho fatto usando la diplomazia e non la spada, ovviamente dove era possibile.-
-Hai sempre avuto un animo gentile.- sospiro rapita.
Lui mi fissa corrugando le sopracciglia e scuote la rossa testa.
-Amavo scrivere poesie e questo dono ho trasmesso ai miei figli. Ma, mentre gli altri usavano anche l'acciaio, Manfredi era il solo a somigliarmi nella preferenza della penna. Sai, è stato lui a suggerirmi di scrivere un trattato sulla caccia con il falcone, divenuto famoso in tutto il mondo e preso a modello nei secoli successivi.-
-Hai amato molto Manfredi.- commento.
-Come si poteva non amarlo? Era il figlio che la mia adorata Bianca mi aveva dato, era l'unico ad essere gentile e cortese, l'unico a cui avrei affidato la mia vita e l'unico che, a dispetto del ruolo che ricopriva, si fidava degli uomini.-
-Una fiducia mal riposta.-
-Purtroppo. Ma questa è un'altra storia.- risponde ponendo termine alla parentesi.
-Grazie a questa tua sensibilità, hai fondato la scuola poetica siciliana, ponendo le basi alla futura lingua italiana.-
-La mia corte errabonda ridondava di uomini colti.-
-Ma anche di odalische e di saraceni.- aggiungo.
-E allora? Amavo i fasti orientali, erano così diversi dal grigiore impostoci dalla Chiesa… E poi, i saraceni erano gli uomini più leali che abbia mai avuto.-
-Sei stato scomunicato anche per questo.-
Sorride e fa un gesto vago con la mano, dicendo:
-Non importa. L'oriente era un pozzo si sapienza in confronto a noi ed io preferivo interloquire con uomini colti anziché con stolti e bigotti.-
-Puoi spiegarmi questa lotta tra l'impero ed il papato?-
-In due parole?- domanda sorpreso, inarcando le sopracciglia.
Comprendo la difficoltà e rispondo:
-Fai tu.-
Rimane a lungo pensieroso, quindi si gratta il mento con la mano libera e, con un sospiro, inizia:
-Noi originari di Weiblingen eravamo in contrapposizione ai duchi di Welfen. In Italia venivano chiamati ghibellini, da Weiblingen, i sostenitori dell'impero, e guelfi, da Welfen, i sostenitori del papato. Pertanto, quando ti capita di vedere un castello con i merli piatti, sappi che erano guelfi, mentre i merli a coda di rondine erano ghibellini.-
-Quindi, queste due parole che tanto fanno ammattire i nostri studenti, non sono altro che la trasposizione in italiano dei due ducati svevi di Weiblingen e Welfen?-
-Svevi eravamo solo noi, i Welfen erano originari della Baviera. Buffo, non trovi?-
-Eccome! Ma cos'è accaduto al tuo amico nonché segretario Pier delle Vigne per essere imprigionato?- chiedo cambiando discorso.
Lo vedo scurirsi in volto ed i suoi occhi diventano due fessure sottili. A quanto pare, il ricordo gli fa ancora male e questo lo rende infinitamente umano.
-Tradimento. Io ho sempre spinto per l'onestà innanzitutto ed ho cercato io in primis di essere sempre onesto. Piero, come ho mio malgrado scoperto, aveva rubato nelle casse del Regno e questo non l'ho potuto perdonare.-
-Ha preferito suicidarsi.-
-Sai, una volta le prigioni non erano come quelle di oggi. Oggi hai tutti gli agi, hai la possibilità di uscire, addirittura di diventare famoso se sei furbo. All'epoca, le prigioni erano terribili. Buchi nelle segrete, privi di luce, senza giaciglio, senza sedie: solo nuda roccia. Ed in un buco di due metri quadrati ci dovevi convivere con altri carcerati. Ovviamente non c'erano i servizi igienici, ma i topi erano in abbondanza. Ti lascio immaginare per quale motivo il mio amico abbia optato per il suicidio.-
Rabbrividisco all'orrore e provo ad immaginare un carcerato moderno tradotto in un simile posto. Inconsciamente sogghigno e penso che un piccolo assaggio non farebbe poi tanto male.
-La tua politica è sempre stata avversata dai papi, ma tu hai cercato veramente il bene dell'Italia.-
-Il mio potere non era ben visto, incuteva paura. Sai, è più facile comandare su un re bigotto che su uno aperto di mentalità. Sono giunto persino a circondare l'Urbe, minacciando il saccheggio, ma non l'avrei mai fatto, perché Roma era il mio sogno. Ho sempre sperato di unire il Regno all'Impero e porvi come capitale la bellissima Roma.-
-A Roma sei stato incoronato re di Sicilia ed in seguito imperatore.-
-Oh, sì. Roma, all'epoca, era ancora così bella, così spirituale e così unica nel suo genere che l'ho sempre portata nel cuore, benché i papi mi abbiano sempre tenuto distante.-
-Ti trovavi in Puglia quando sei morto.-
-Sì, le Puglie che ho tanto amato. Manfredi, il mio caro e dolce Manfredi era con me ed anche i miei vecchi amici.-
-Hai rimpianti?-
Ci pensa un po' e, chinando appena la testa coronata, risponde:
-Quello di non essere riuscito a far capire il mio amore per l'Italia. In questo, purtroppo, devo dire che Roma si è data la mazzata sui piedi.-
-Purtroppo. Un sovrano illuminato come te non lo avremmo avuto per altri secoli.- commento amaramente.
-Chissà, se le cose fossero andate diversamente…-
Esito un attimo, mio malgrado intimorita dinanzi ad un uomo simile e mi accorgo che sta per svanire, per ricongiungersi a tutti coloro che sono vissuti prima di noi e d'istinto gli domando:
-Prima di lasciarmi, posso darti un bacio?-
Sorride divertito ed è lui stesso, ormai evanescente, che si avvicina e mi posa un bacio sulla fronte. Chiudo gli occhi rapita, sapendo già che nessuno crederà mai che il grande Federico II di Svevia mi ha baciato e quando li riapro lui non c'è più, ma accanto al mio letto è rimasta una bellissima piuma del colore delle castagne.

domenica 22 febbraio 2009

Roma vista da me

BONIFACIO VIII
(Anagni, 1235 - Roma, 11 ottobre 1303)


Quale maestosità ci offre San Pietro, con il suo cupolone ed il suo interno sfarzoso! Quale ricettacolo per dipinti ed affreschi, sculture e mausolei! Una gioia per gli occhi e per lo spirito! E se il visitatore sa osservare bene, si accorge che qui dentro sopravvivono incontaminati duemila anni di Storia. Come riuscire a rimanere indifferenti dinanzi alla Pietà del maestro Michelangelo? Od alla Trasfigurazione del divino Raffaello? I turisti di tutto il mondo ci invidiano questa meraviglia e noi romani, che ce l'abbiamo dentro casa, praticamente l'ignoriamo. Entrare in Vaticano è un po' come entrare nella Storia dell'umanità, con i suoi pittori, i suoi scultori ed i suoi architetti che nei secoli si sono alternati, dando vita a qualcosa di unico ed inestimabile, dove la spiritualità ti entra nelle ossa e rimani letteralmente schiacciato dalla sua ineffabilità; ed è lì, mentre osservo la bellissima cappella Caetani che, seduto su un sepolcro, lo vedo, con quella sua aria altera e sprezzante, più degna di un dio che di un suo umile servo.
-Ma… Ma tu sei papa Bonifacio VIII!- esclamo.
-Proprio io, al secolo Benedetto Caetani.- si presenta con manifesta alterigia.
-Una tra le più potenti famiglie romane.-
-Esattamente. Ti piace San Pietro?- domanda facendo un gesto con la mano guantata, dove spiccano anelli con gemme preziose grosse come noci.
Mi guardo attorno e mi soffermo a sbirciare i passanti, che neppure mi notano.
-A chi non piacerebbe?- rispondo elusiva, allungando una mano per toccare un turista.
Con sorpresa, mi accorgo che la mia mano lo attraversa, come se avessi solo tagliato l'aria e sussulto spaventata. Sono, infine, morta anch'io?
-Non temere.- mi previene con noncuranza, toccandosi il triregno e sistemandoselo meglio sulla testa. -Sei ancora viva.-
-Tu… Sei il papa che ha indetto il primo giubileo della Storia, nel 1300.- mormoro, ancora perplessa.
-Sì, è così.- ammette con straripante orgoglio. -Un esodo come mai si era visto prima. Migliaia di pellegrini si sono riversati a Roma per pregare ed ottenere le indulgenze.-
Esito un attimo, dinanzi a quest'uomo che non ho mai particolarmente amato, che è stato un papa terribile, blasfemo e simoniaco e correggo sprezzante:
-Vorrai dire che venivano sì a pregare, ma le indulgenze le pagavano a caro prezzo.-
Alza le spalle, come se la cosa non lo toccasse minimamente e replica:
-La gente ha bisogno di sicurezze.-
-Diciamo pure che erano le tue casse ad aver fame di soldi, visto che Filippo il Bello di Francia aveva tassativamente proibito ai prelati francesi di versare le decime nelle casse papali!-
Arrossisce suo malgrado, impreparato al mio attacco e si inalbera, illividendo subito dopo di rabbia.
-Come osi insultare così un uomo di Chiesa?-
Avvampo indignata e, con sguardo furente, porto le mani sui fianchi e ribatto:
-Tu un uomo di Chiesa? Mai udita bestemmia più colossale. Non hai mai creduto in Dio, giungendo a dire che, se Cristo non era riuscito a salvare se stesso dalla morte, neppure noi mortali avremmo potuto salvarci, te escluso, ovviamente, visto che ti consideravi un dio e ti credevi imperatore oltre che papa! Ti sei sempre circondato di amuleti, portavi al dito un anello strappato al cadavere di re Manfredi, giocavi ai dadi e bestemmiavi se qualcuno osava vincere; non ti sei mai fatto scrupoli nel perpetrare tutti i peccati capitali, anzi, li eseguivi alla lettera e per certo non avevi esitazioni nel portarti a letto fanciulle e paggi!-
Mi lascia sfogare alzando di tanto in tanto gli occhi al cielo e, quando intravede una possibilità di controbattere, non esita a sibilare minaccioso:
-Tu, misero essere senza valore, hai l'ardire di giudicare un papa che tanto ha fatto per Roma? Cosa sai tu di cosa ho fatto io?-
Indispettita e furiosa, faccio un passo verso di lui e l'accuso con tono che pare una scudisciata:
-Mi è sufficiente sapere che hai brigato ed ucciso il tuo predecessore, Celestino V!-
-Ah!- esclama alzando una mano, irritato per essere stato costretto a rimembrare un simile episodio. -Io non ho mai ucciso nessuno!-
Suppongo che, se mi fosse concesso, lo afferrerei per il collo e lo strozzerei senza tante cerimonie; ma è già morto e non godrei questa soddisfazione.
-Tu… Tu sei un uomo che non ha mai avuto una coscienza. Il povero Pietro da Morrone era un semplice e pio eremita che si è visto eleggere papa perché a te occorreva un uomo cuscinetto da porre sul trono di Pietro, quel tanto che bastava per riuscire a corrompere i cardinali per la tua elezione. Una volta certo che avresti ottenuto i voti necessari, hai condotto il mite Celestino al rifiuto e ti sei insediato sul trono con fasto e pompa magna.-
Sogghigna divertito ed incrocia le braccia al petto, fissandomi con condiscendenza.
-Era così che si faceva.- commenta lapidario.
-No, non era così che si faceva.- replico indignata. -La tua bramosia di potere ti ha indotto a far rinchiudere Celestino nel tuo castello a Fumone, per timore che il popolo ed i baroni, scoperta la pasta di cui eri fatto, reclamassero il ritorno del sant'uomo. Tu dici di non aver ucciso nessuno, ma lasciare che il frate morisse di stenti in prigione a me sembra un omicidio studiato nei minimi particolari.-
-E' morto e basta. Che colpa ne ho io?-
Stizzita per la sua totale indifferenza, continuo:
-Eri un giurista eccellente, tra i migliori del tuo tempo ed hai stilato un rifiuto magistrale che hai portato a far firmare a Celestino: ammetto la tua bravura ed è proprio questa tua destrezza che mi porta a credere che hai fatto sì che la colpa della sua morte non ricadesse su di te. Ne eri all'altezza.- gli riconosco.
Un gruppo di turisti si avvicina a noi, interrompendoci momentaneamente e quando ci passano davanti, mi rendo conto che continuo a vedere il mio interlocutore anche attraverso i loro corpi. E mi rendo conto altresì che ha piegato le labbra in un ghigno beffardo, come a volermi turlupinare.
-Vedi, mia cara virago,- mormora accarezzandosi distrattamente il pallio, -il mondo si divide in due categorie, che tu lo voglia accettare o meno: coloro che contano e coloro che non contano nulla. Purtroppo per te, io ho fatto parte della prima categoria e sono passato alla Storia. Tu ci passerai alla Storia?- insinua mellifluo.
Stringo i pugni e serro i denti per trattenermi dall'avventarmi contro di lui e rispondo glaciale:
-Meglio non passare alla Storia e rimanere un perfetto signor nessuno, che leggere le tue infamie sui libri.-
-Sei impertinente ed indisciplinata! Se potessi ti farei abbassare le piume.-
-Con i tuoi metodi poco ortodossi che hanno contribuito ad allontanare il papato da Roma? Oh, conosco la storia di quell'ambasciatore al quale hai rifilato un calcio rompendogli il setto nasale solo perché ti girava storto.-
-Servono anche questi metodi.-
Rimango un attimo in silenzio, fissando quel papa eretico e bestemmiatore ma che aveva, nonostante tutto, coraggio da vendere. Come quando il messo di Francia, Guglielmo di Nogaret, insieme al capo della potente famiglia Colonna, Sciarra, portavoce degli esasperati cristiani di tutto il mondo ed imbeccati del re di Francia, assalirono il palazzo pontificio di Anagni, dove si era rifugiato Bonifacio e qui lo trovarono, abbandonato persino dai suoi servitori, lasciato in balia degli eventi. Gli intimarono di consegnarsi prigioniero se voleva salva la vita e lui, fiero ed indomito, rivestito con tutti i paludamenti sacri, aveva alzato il mento gridando con spavalderia: "Ecco la mia nuca, ecco la mia testa!".
-Hai avuto fortuna quando il Nogaret ha bloccato la mano omicida di Sciarra Colonna.-
Lo vedo aggrottare le sopracciglia e risponde con freddezza:
-I Colonna non hanno avuto mai buon animo verso i Caetani.-
-Eravate sempre in guerra per il predominio su Roma. Ma la rivalità ha toccato l'apice proprio contro di te, inviso anche dalle altre potenti famiglie. Persino la tua ti si è in sostanza rivoltata contro, evitando di correre in tuo aiuto quando Sciarra è entrato in Anagni. Gli stessi tuoi concittadini non hanno alzato un dito per salvarti.-
-Poi lo hanno fatto.-
-Certo, ma solo perché temevano la scomunica. Neppure Dante è stato clemente con te.- gli ricordo.
-Dante era solo uno sciocco, che non capiva che il papato era superiore a tutto ed a tutti. Tu,- accusa avvicinandosi con sguardo omicida, -cosa puoi sapere della grandezza della Chiesa? Hai forse vissuto in quei tempi oscuri, dove l'eresia rischiava di prendere il sopravvento, dove potere temporale e potere spirituale si scagliavano l'uno contro l'altro per la supremazia e dove ogni papa avrebbe dovuto fare come me per ridonare il primato alla Chiesa del Cristo? Come osi tu, venire ad accusare me, che sono stato papa, mentre tu sei una nullità e che tale rimarrai?-
Indugio un attimo in silenzio, fissando quel volto iracondo, rivestito con i paludamenti sacri riccamente ricamati in oro ed argento, tempestato di pietre preziose in ogni parte degli abiti, alla faccia del voto di povertà e di umiltà e mi rendo conto che il suo è un deliberato tentativo di turbarmi e rispondo:
-Hai vissuto fuori del tempo. Il medioevo era agli sgoccioli, ma tu non hai saputo guardare oltre, non hai saputo adeguarti. Hai solo fatto quanto era nelle tue possibilità per mantenere la Chiesa in uno stato di supremazia che ormai non le competeva più. Non hai saputo vedere la nascita delle nazioni e non hai capito quanto effimero era diventato il potere spirituale. Le scomuniche avevano fatto il loro tempo: gli uomini erano più eruditi e non credevano più ciecamente.-
-Male!- urla rabbioso, gli occhi che mandano scintille. -Gli uomini hanno sempre avuto bisogno di qualcuno che li guidasse con polso fermo.-
-E tu ti ritenevi la persona in grado di farlo.- commento mordace.
Mi fissa con malcelato rancore e posso solo intravedere l'uomo battagliero e gaudente che ha condotto la Chiesa al tracollo, facendo sì che, dopo soli due anni dalla sua morte, il suo successore riparasse in Francia, dando inizio alla cattività avignonese.
-Tu non hai idea.- sibila scuotendo la testa.
Sì, probabilmente ha ragione, bisogna esserci per valutare; ma io non voglio giudicare, voglio solo sfogare la mia rabbia contro l'uomo che ha lasciato Roma allo sbando, incurante del male che le avrebbe causato nei secoli a venire.
-Per quanto mi concerne, hai avuto un solo pregio: quello di indire il giubileo. Indipendentemente dalle cause, è stata l'unica tua mossa che ancora oggi sopravvive e che rende a Roma la sua supremazia spirituale. Per il resto, auspico che il Cristo in cui tu non hai mai creduto, ti abbia fatto marcire all'inferno, facendoti espiare le tante ed innumerevoli colpe, in primis la morte di Celestino.-
Sogghigna divertito e si volta, avvicinandosi di nuovo al sepolcro.
-Tu, per me,- sentenzia sprezzante, -sei nulla di più della semplice polvere che i miei piedi calpestano.-
Non ribatto, evito la sfida e rimango in silenzio a fissarlo, mentre la sua immagine svanisce lentamente, confondendosi con il sepolcro ed io torno di carne ed ossa, di nuovo viva in mezzo alla folla silente dei turisti.

martedì 17 febbraio 2009

Roma vista da me

ATTILA
(morto nel 453)


A quanti di voi è mai capitato di risfogliare i vecchi libri di testo dove, da adolescenti, abbiamo studiato per riportare un buon voto o per recuperarne uno brutto? Be', non so voi, ma io, chiusa in una soffitta illuminata fiocamente da una lampadina che ha già fatto il suo tempo, tutta intenta nel risistemare e buttare cose inutili, mi ritrovo tra le mani i miei vecchi libri delle superiori, oserei dire quasi intonsi, visto che non amavo molto studiare. Un sorriso mi spunta sulle labbra e con le dita sfioro il ricordo di remoti giorni di scuola, quando preferivo di gran lunga interagire con le mie amiche anziché con le pagine imbrattate di scritte ed immagini che, all'epoca, poco mi dicevano o quasi.
Ed è mentre sfoglio questo libro impolverato, sottolineato a matita, che lo sguardo mi cade su quel viso appuntito, su quegli occhi sottili, su quei baffi spioventi e sussulto quando lo vedo mutare espressione e fissarmi in cagnesco. Dopo il primo momento di sorpresa, sorrido divertita e lo ammonisco:
-Non mi fai paura, Flagello di Dio.-
Lui incrocia le braccia al petto e grugnisce qualcosa di inintelligibile, prima di inspirare e dire:
-Sì, lo so. Ora non faccio più paura, ma ai miei tempi tutti tremavano al mio passaggio.-
-In effetti, si diceva che dove passava Attila non ricresceva più l'erba.-
-Sacrosanta verità.- commenta inorgoglito.
-Io non ne andrei così fiera.- ribatto.
La sua immagine, tracagnotta, dove affiora la sua efferata spietatezza, sembra voler uscire a tutti i costi dalla prigionia del libro ed io posso solo immaginare il suo scalpitare furioso.
-Da dove vieni?- domando incuriosita.
-Ma da Aetzelburg, ovviamente, la nostra capitale.- risponde sorpreso, come se si aspettasse che lo sapessi.
-Che sarebbe?-
-Uhm… Vicino all'odierna Budapest. Io e mio fratello siamo cresciuti lì, con nostro nonno che era il re, re Rua. Alla sua morte, io e Bleda siamo assurti al trono, insieme. Noi Unni facevamo così.-
-Una diarchia?-
-Sì, certo. Anche se,- borbotta con un pizzico di rabbia, -Bleda amava solo divertirsi con il suo ripugnante nano negro e non voleva interessarsi d'altro. Diceva che lo faceva ridere. Era il suo giocattolo, che un giorno ha avuto l'ardire di ribellarsi e quello stolto di Bleda ha mobilitato l'intero esercito per inseguirlo e riacciuffarlo.-
Provo ad immaginare un popolo alla ricerca spasmodica di un nano ed il solo pensiero mi fa ridere, prima di domandare:
-E' per questo che la guida sei diventato tu?-
-Per forza di cose. Quello stolto di Bleda morì giovane e rimasi solo io. Io ed il mio popolo.-
-Unni facinorosi.- commento.
Lui grugnisce indispettito e ribatte:
-Sì, Mongoli tozzi, dai capelli neri e dagli occhi a mandorla, mescolati a tedeschi alti, biondi e con gli occhi cerulei. Ciò che rimaneva di tutte le tribù barbare da me assoggettate.-
-Una bella accozzaglia.-
-Già, di guerrieri fieri ed indomiti.- aggiunge con orgoglio, battendosi un pugno sul petto.
Con il dito lo sfioro e lui si irrigidisce, infastidito dalla sua posizione che gli impedisce di trattarmi da pari a pari ed io ne sono intimamente lieta. Non è da tutti avere il terribile re Attila nelle proprie mani e la cosa mi diverte alquanto.
-Si dice che la morte di Bleda debba essere imputata a te.-
Ghigna sotto i baffi e con quegli occhietti sottili e temibili mi fissa e mi incute un certo timore.
-Si dice…- ripete mellifluo, lasciando volutamente la frase in sospeso.
-Sei stato tu?- insisto.
-Avrei potuto farlo benissimo. Ma avrei anche potuto non farlo.- aggiunge enigmatico.
Indispettita dalla sua reticenza, cambio argomento e domando:
-E' vero che non ti sei mai lasciato abbindolare dal lusso di cui amavano circondarsi i romani?-
Alza fieramente il mento, negli occhi un barlume di disprezzo e vuota superbia e risponde:
-A che pro? Per rammollirsi e divenire femminucce come lo erano diventati i generali romani?-
-Uno di loro ti ha battuto.- gli rammento con dolcezza.
Lui sogghigna e rimarca con altrettanta falsa dolcezza:
-Ezio era un barbaro, non un romano.-
-Touché.- rispondo alzando le mani.
-E, comunque,- riprende lui con indifferenza, -preferivo la mia bicocca alle case signorili e pieni di agi di quei damerini romani e preferivo mangiare la carne cruda anziché cotta. Hai mai provato ad assaggiare un pezzo di carne frollato tra la tua coscia ed il corpo del cavallo?-
-Mio Dio no!- inorridisco.
Lui arriccia il naso divertito ed alza l'indice a mo' di maestro, spiegando:
-Sono cose che temprano l'animo del guerriero.-
-Ma i tuoi stessi uomini, a contatto con la civiltà romana, hanno preferito di gran lunga adottare i nostri usi anziché…-
-Femminucce!- sentenzia categorico, senza farmi finire di parlare.
Lo fisso in tralice, così fiero e sprezzante, i baffi sottili che scendono ai lati del mento e borbotto:
-Tutto ciò mi sa di tirchieria.-
Impallidisce, colpito nel vivo e ribatte secco:
-Il denaro all'epoca era importante e non amavo sprecarlo.-
-Ok, eri tirchio.- taglio corto.
Lo vedo digrignare i denti, ma non controbatte e ne approfitto per portare il libro più sotto la luce, per vederlo meglio.
-Che c'è?- commenta mordace. -Non hai mai visto un Unno in vita tua?-
-Francamente no. E ne sono anche contenta. Di tutti i barbari, eravate i peggiori.-
Scuote la testa ed allarga le braccia, giustificandosi:
-Eravamo potenti. Per questo motivo Roma ci ha pagato tributi per anni: per tenerci lontani. E fintanto che i soldi giungevano con regolarità, non avevamo motivo di marciare contro la nostra gallina dalle uova d'oro.-
-Ma poi è successo.- rammento.
-Già.- risponde scurendosi in volto. -Alla morte di Galla Placidia e di Teodosio, il tributo che i due nuovi imperatori dovevano continuare a mandare è venuto meno. E da Costantinopoli giunsero ambasciatori a mani vuote. A mani vuote, capisci?- ripete indignato, come se l'affronto gli bruciasse ancora.
-Sì, certo, capisco che l'impero d'oriente aveva alzato la testa con l'avvento del nuovo imperatore.-
-Per gli dèi, è proprio così. E' stato per questo che ho volto i miei occhi a quello d'occidente: era più malleabile. Sai,- aggiunge con aria complice, -Onoria, la figlia di Galla Placidia, aveva avuto la bella idea di mandarmi un anello d'oro come pegno di fidanzamento ed io non mi sono certo fatto pregare.-
-Ma tu avevi già altre mogli!- esclamo allibita.
-E allora? Non era la moglie romana che mi serviva, ma il pretesto per giungere a Roma. Chi avrebbe osato fermare un ardente fidanzato che veniva a prendersi la bella fidanzatina per impalmarla?-
-Perché mai una principessa come Onoria ti si è offerta su un piatto d'argento?- indago.
Lui si accarezza un baffo e chiude un attimo gli occhi, come se con la mente vagasse ad un tempo trascorso che non sarebbe più potuto tornare e suppongo sia nostalgia l'espressione che vedo dipinta sul suo volto duro.
-Onoria era una svampita, completamente diversa da sua madre. Probabilmente pensava di ricreare la bella avventura di sua madre con Ataulfo. Ma Ataulfo e Placidia erano due persone assennate ed innamorate, che speravano di unificare i due regni, completamente l'antitesi di me ed Onoria.-
Rimango un attimo a bocca aperta, quindi scuoto la testa e mormoro:
-E poi vi chiamano barbari…-
Lo vedo sogghignare di nuovo ed annuire lentamente. Quindi mi fa un cenno con la mano ed io mi avvicino per sentire meglio.
-Prova ad immaginare il mio intero popolo, formato da Mongoli, Visigoti, Burgundi, Ostrogoti, Gepidi, Franchi, Turingi, Alani e tanti altri, prepararsi alla guerra. Un intero popolo, stile orda. Immagina le nostre donne guerriere, i nostri bambini, gli anziani, tutti in marcia per raggiungere e conquistare Roma.-
Provo veramente ad immaginare una simile apocalisse ed un brivido mi fa rizzare i peli.
-Ma Ezio ti ha bloccato.-
-Sì, è vero, nei pressi di Mauriac, i cosiddetti Campi Catalaunici.-
-Tu Ezio lo conoscevi.- commento.
-Sicuro. Era stato ostaggio di mio nonno Rua ed abbiamo giocato insieme. Da noi ha imparato tanto. Tanto da limitarsi a sconfiggermi, ma non ad annientarmi. E questo è stato un errore ben calcolato.-
-Ben calcolato?- ripeto attonita.
-Non hai idea, vero? Ma prova ad immaginare il grande generale Ezio che sconfigge definitivamente i barbari: al suo rientro in patria si sarebbe trovato senza lavoro. Io gli servivo. Gli ero indispensabile per mantenere su Roma la spada di Damocle dei barbari da combattere.-
Annuisco e convengo con lui, pensando al medesimo comportamento, anni prima, di Flavio Stilicone contro Alarico. Ezio e Stilicone, i due generali romani che, scontratisi con i barbari, li hanno sconfitti ma non messi in rotta. Il tarlo del dubbio mi si insinua nella mente e fisso il volto di quell'Unno fiero e selvaggio.
-E' per questo che sei sceso fino alle porte di Roma?-
-Errore. Non ci sono mai arrivato a Roma- ricorda con amarezza. -Mi sono fermato a Milano e lì è giunta l'ambasceria dall'Urbe.-
-Già, niente po po di meno che il papa, Leone I Magno.-
Corruga la fronte e commenta:
-Magno? Quell'uomo l'avete appellato Magno?-
-Non avremmo dovuto?-
-E cosa avrebbe fatto per meritarsi simile titolo?-
-Ti ha fermato mostrandoti la croce.-
Scoppia a ridere di gusto ed io rimango perplessa, incredula dinanzi al suo comportamento a dir poco blasfemo.
-E solo per questo l'avete chiamato così?- balbetta continuando a ridere. -Io a Roma non ci sono voluto arrivare, perché si diceva che Alarico, una volta giunto nell'Urbe, sia morto. Non volevo fare la stessa fine. Per questo motivo, quando mi sono visto arrivare il papa, l'ho incontrato sulle sponde del Mincio.-
-Cosa vi siete detti?- domando curiosa.
Lui sorride e scuote la testa.
-Ero già malato, quel male che di lì a poco mi avrebbe condotto alla tomba ed ho capito che il suolo italico era letale per la mia salute. E' stato questo a farmi desistere, non la croce nella quale non ho mai creduto.-
Sgrano gli occhi incredula e mormoro:
-Quindi, tu sostieni che non fu papa Leone a convincerti a non violare Roma, ma solo la tua superstizione.-
-Con l'aggiunta di un lauto tributo che mi sono guardato bene dal rifiutare.-
-Ma allora…-
-E allora se ne raccontavano di frottole.- ribatte scherzoso. -E tutti a crederci.-
-Ma tu… Se non fossi stato malato, a Roma ci saresti venuto?-
-Chiaro. C'ero stato da giovane, come ostaggio e la sua bellezza mi è rimasta nel cuore. Sì, ci sarei tornato molto volentieri.-
-Ti è mancata l'occasione. Meno male.-
Lo vedo annuire e sorridere e mi fa un cenno con la mano, salutando:
-Se sei qui, lo devi solo a me, a nessun altro.-
Percepisco la frecciata indirizzata a papa Leone e provo a ribattere, ma mi rendo conto che l'immagine è tornata ad essere piatta, fredda e rimango, a dispetto di tutto, a bocca aperta, muta testimone di un evento che, probabilmente, ha cambiato il corso della Storia.

mercoledì 11 febbraio 2009

Roma vista da me

GALLA PLACIDIA
(Roma, 389/392 - Roma, 27 novembre 450)


Avete mai percorso la via Appia antica, quella che da Roma si snoda verso il sud d'Italia, passando per Napoli e poi oltre, per giungere a Brindisi? Ah, quale sublime spettacolo! Uno dei tanti esempi di come fosse ingegnosa la mente dei nostri avi; il primo esempio di rete stradale mai costruito al mondo. Be' noi romani ce l'abbiamo praticamente sotto casa, bella da mozzare il fiato, unica ed irripetibile, con i suoi lastroni di pietra, con i pini che svettano lungo il ciglio e le opere in pietra innalzate ai bordi e che accompagnano il viandante per dare gioia e sollievo agli occhi abituati al grigio cemento ed al puzzolente smog. E' quanto mai rilassante passeggiare lungo questa via consolare e rigenerarsi all'ombra di costruzioni millenarie, magari evitando di pensare che qui, lungo il ciglio della strada, i romani avevano l'abitudine di crocifiggere i condannati. Ma si sa, ogni civiltà ha i suoi scheletri nell'armadio e, mentre mi inebrio di un tramonto rosso fuoco, uno di questi mi appare all'improvviso, dietro un monumento funerario di mirabile bellezza.
Come mirabile è la sua bellezza. Mi sorride invitante ed io mi avvicino, distraendomi dal tramonto.
-Galla Placidia,- esordisco senza timore, -principessa romana, sorella dell'imperatore Onorio, figlia di Teodosio I e di Galla.-
-Proprio io. Ti meravigli?-
-No, non più.-
Mi fa un cenno ed io lascio la strada per avvicinarmi al monumento funerario con figure in rilievo. Le sfioro con le dita ed avverto come una scossa elettrica, come se quei duemila anni di storia mi fulminassero e per un secondo rivedo la via Appia al suo massimo splendore, quando era percorsa da soldati con le calighe e da aurighi con i loro carri.
-E' meraviglioso.- sussurro estasiata.
-Qui ci sono nata, ma la mia vita l'ho trascorsa a Ravenna, quando la capitale dell'impero non era più l'Urbe. Fu lì che Onorio stabilì la corte dopo il sacco di Roma del 410, quando fui fatta prigioniera da Alarico, re dei Visigoti. Fu un evento drammatico.- ricorda con le lacrime agli occhi.
Il mio primo istinto, alla vista di quelle piccole stille, è quello di abbracciarla e confortarla, ma mi trattengo in tempo, ben ricordando il carattere coriaceo della donna che ho davanti agli occhi. E lei, alzando il mento, inspira con regalità e prosegue:
-La nostra città messa a ferro e fuoco dai barbari venuti dal nord, a dispetto dei nostri buoni propositi. Non so se ricordi, ma il generale Ezio, allora adolescente, fu dato in mano ad Alarico come ostaggio.-
-Sì, ricordo.- rispondo guardando il suo viso bello ed un pensiero fugace mi transita nella mente. -Immagino per quale motivo re Alarico ti abbia fatto prigioniera.-
Lei sorride evanescente e scuote risoluta la testa, a sottolineare che la sua bellezza correva di pari passo con il suo carattere forte e risoluto.
-Oh, no, credimi. Non tanto per la mia avvenenza, quanto per motivi prettamente politici: essendo principessa, potevo aprire molte porte ad un conquistatore, soprattutto quella del potere.-
-La prigionia è stata dura?- domando affabile.
Lei china di lato la bella testa per sbirciarmi di sottecchi e risponde dolcemente:
-Nessuna prigionia è bella e neppure la mia, sebbene trattata con tutti gli onori. Non posso lamentarmi, ma la mancanza di libertà va ben oltre le pene che si possono patire.-
Annuisco e provo ad immaginare una giovane ed avvenente nobildonna romana nelle mani di barbari sanguinari, ignari delle regole del vivere civile.
-Ti hanno costretto a sposare un barbaro.- le rammento.
Lei inspira a fondo, come a voler catturare un improbabile profumo d'erica nella brughiera, forse ricordo di giorni trascorsi all'aperto e risponde con un sorriso solare e con occhi adamantini:
-Sì, Ataulfo, fratello di Alarico. Ma non mi hanno costretto: io ho amato profondamente Ataulfo e ne sono stata totalmente ricambiata.-
-Ma era un barbaro.- noto con un evidente accenno di sorpresa.
Lei restringe appena i suoi occhi attenti e belli, quasi avesse voluto fulminarmi e ribatte:
-Tu non hai la più pallida idea… Tu non puoi capire il periodo tumultuoso trascorso dalla nostra amata Roma in quei secoli. Esistevano barbari e barbari ed Ataulfo era un barbaro, sì, ma talmente bello e gentile… Posso asserire che la mia prigionia durò ben poco, perché mai donna prigioniera fu più contenta di essere stata catturata. Lui era tutto ciò che più di diverso si poteva trovare a Roma: non un damerino effeminato, non un signore ingioiellato, non un eunuco, ma un principe soldato che popola i sogni di ogni fanciulla.-
La vedo risplendere di gioia mentre parla di lui e mi azzardo a chiedere:
-Tuo fratello accettò lietamente l'evento delle tue nozze?-
-Oh, no! Ataulfo fu costretto a dimostrargli tutto l'amore che nutriva nei miei confronti uccidendo un nemico di mio fratello e facendogli recapitare la testa su un vassoio d'argento.-
Rimango un secondo perplessa udendo quelle parole, ma capisco che all'epoca erano la regola simili comportamenti.
-Un bel dono, suppongo.-
-Ovviamente, Onorio lo accettò e consentì le nozze, rendendomi la donna più felice del mondo. E' così che sono diventata regina dei Goti. Essendo morto Alarico, suo fratello era assurto al trono ed impalmandomi ha fatto di me una regina. Puoi immaginare la felicità completa quando nasce un figlio maschio che sarebbe potuto diventare l'imperatore di Roma? Sai,- aggiunge con un sorriso malinconico, -Onorio non aveva figli ed il mio poteva essere il suo successore.-
-Poteva?-
La vedo chinare mestamente la testa, con una regalità da fare invidia e sussurra a fior di labbra:
-Ataulfo perì l'anno successivo alle nozze, subito dopo nostro figlio. Fu lui a volere, prima di spirare, che tornassi da mio fratello.-
-Gentile davvero.- commento sorpresa.
-Non tutti i barbari erano barbari nel senso dispregiativo che diamo a questo aggettivo.- ribatte risoluta. -Io ed Ataulfo, che tu voglia crederlo o no, eravamo innamorati ed ho odiato l'uomo che me lo ha ammazzato. Comunque,- riprende con tranquillità, -alla fine ho riconquistato la libertà.-
-Non vi è cosa più preziosa.-
-Puoi dirlo forte. Purtroppo, per me non aveva quel dolce sapore che ricordavo nei primi momenti della prigionia. Ero sì tornata tra la mia gente, ma mi sono sentita più in trappola alla corte di mio fratello che non con i miei Visigoti.-
Osservo il suo comportamento altero e dignitoso, degno di una principessa, e la sua acconciatura in perfetto stile bizantino e comprendo come molti uomini avessero potuto perdere la testa per lei.
-Ma poi ti sei risposata.-
-Sì, con Costanzo, un generale di mio fratello Onorio. Un matrimonio combinato prima ancora che venissi presa da Alarico.-
Notando il cambio di tono, mi azzardo a chiedere:
-Non era di tuo gradimento?-
Lei mi rivolge uno sguardo a dir poco esterrefatto e scoppia a ridere, una risata cristallina, proveniente dal cuore, che la rende ancora più bella ed io mi sento insignificante dinanzi a lei.
-Di mio gradimento?- ripete divertita. -Come avrebbe potuto incontrare il mio assenso un uomo grasso, sciatto, vecchio, poco affabile, quando al mio fianco avevo avuto un Visigoto giovane, alto, bello, biondo, forte e che mi ha amato totalmente? Tu avresti accettato? Ho provato, credimi, a rimandare le nozze e per tre anni sono rimasta arroccata in me stessa. Alla fine, per ragioni politiche, ho capitolato.-
-Però gli hai dato Valentiniano, il futuro imperatore romano d'occidente.-
-Già. Valentiniano, il debole ed indolente Valentiniano ed Onoria, la causa della discesa di Attila in Italia. E li ho dovuti tirare su praticamente da sola, dopo essere rimasta nuovamente vedova. Sai, una volta gli uomini morivano facilmente. Era meglio nascere donna.- aggiunge arricciando maliziosamente il nasino. -Comunque, allevare i figli da soli è un compito piuttosto arduo, soprattutto all'epoca. Essere madre dell'imperatore, oltretutto, comporta molte responsabilità e tanti sacrifici.-
-Non stento a crederlo. Ma, se non ricordo male, una volta vedova, un nuovo pretendente si era fatto avanti.-
Lei sgrana i suoi bellissimi occhi e sorride subito dopo.
-Sì, certo, mio fratello Onorio, che in vita sua aveva amato solo le galline ed i polli. Non l'ho mai potuto sopportare e scoprire di essere oggetto dei suoi desideri mi fece ridere all'epoca come mi fa ridere ora. Fortuna per me che è morto poco dopo.-
Con le dita affusolate tocca un lembo della veste che indossa e liscia una piega a me invisibile.
-Ma tu sei tornata a Roma da Ravenna.-
Lo sguardo le si illumina, prende vita e con la mano mostra la città che si stende maestosa sotto i nostri occhi.
-Ravenna, all'epoca, era la capitale dell'impero d'occidente e lì risiedeva l'imperatore romano, dopo che mio padre lo aveva scisso in due. Ma come si può abbandonare questa meraviglia? Oh, se solo tu avessi potuto mirarla ai tempi del suo massimo splendore avresti dato la vita per farla rimanere così in eterno.-
Giro lo sguardo sulla via Appia ed il mio pensiero corre alle macchine incolonnate nell'eterno traffico, alla gente che imbocca l'entrata della metropolitana in un eterno tramestio, odo le urla e le grida di chi non riesce a prendere il bus perché eternamente affollato e sospiro: decisamente Roma è la città eterna.
-Sì, hai ragione. All'epoca si poteva pensare benissimo di donare la vita per Roma. Ma ora…-
-Ora la capitale del mondo riesce a farsi odiare.- conclude con tono malinconico. -Ero tornata a Roma per far proclamare Valentiniano imperatore; in realtà, conoscendo il suo carattere debole, ho fatto io da imperatrice fino alla mia morte. Ho provato con tutte le mie forze a giostrare tra politica e religione pur di mantenere intatta la parte di regno lasciata da mio padre, quel regno che Alarico ed Ataulfo speravano incamerasse i Goti, per vivere insieme in pace. Una politica saggia la loro, ma che lo stolto di mio fratello non ha voluto, o non ha saputo, capire. Strano, vero,- commenta con un sorriso ironico, -che la grandezza di un impero stesse a cuore a dei barbari più che al suo imperatore.-
-Sì, strano davvero. Ma tu,- domando timidamente, -non ti sei mai più risposata?-
-A che pro? Ho vissuto un'intera vita nel dolce ricordo di Ataulfo, tanto da sapere che nessuno mai avrebbe potuto prendere il suo posto nel mio cuore. Ho preferito rimanere sola, con i miei figli capricciosi che mi hanno dato tanti grattacapi. Chiamami pure romantica, ma così ero e così sono.-
Annuisco appena, comprendendo quanto fosse stato difficile per lei recitare un ruolo che avrebbe dovuto essere di competenza del fratello prima e del figlio dopo.
-E' per il tuo romanticismo che sei voluta venire a morire a Roma?-
-Sì. Quando mi sono resa conto che stavo per raggiungere il mio Ataulfo, ho lasciato Ravenna e sono tornata nell'Urbe, per rivedere un'ultima volta la città eterna.-
-Devi essere fiera di aver donato a Roma uno degli imperatori.- commento.
Lei sorride dolcemente ed annuisce.
-Ne sono fiera e me ne compiaccio. Non sono tante le donne che possono vantarsi di aver fatto altrettanto.-
Chino la testa trovandomi d'accordo con lei ed un secondo dopo la vedo svanire, sorridendo compiaciuta del nostro fortuito incontro ed istintivamente allungo la mano per trattenerla, inconsciamente riluttante a separarmi da quella creatura eccezionale. Ma intorno a me rimane solo la via Appia, la via consolare che noi romani abbiamo sempre sotto gli occhi e che neppure scorgiamo, troppo intenti ad eternare una vita frenetica.

venerdì 6 febbraio 2009

Roma vista da me

EZIO FLAVIO
(Durostoro, Mesia, 390 ca. - Roma, 454)


E' incredibile quanto sia vivo il sottobosco di notte. Si odono creature notturne che comunicano tra loro cinguettando, sibilando, ululando ed io quasi impallidisco dinanzi a queste spettrali presenze di cui odo solo il rumore. L'oscurità domina e tutti noi sappiamo quanto il buio faccia paura, quanto faccia credere che un semplice strisciare sopra le foglie possa essere qualcosa di diverso e mostruoso dal semplice e quanto mai naturale strisciare di un serpente.
Mi muovo con cautela, allungando le braccia in avanti come un cieco nella notte e quando inciampo su una radice nodosa, una mano forte, dura e callosa, mi sorregge per evitare di farmi fare un ruzzolone. Sto per gridare di paura, lasciando sfogare la tensione accumulata, quando odo una voce sentenziare:
-Stai attenta, figliola. Il sottobosco nasconde sempre minacce latenti.-
Mi giro e lo vedo, con indosso una tunica romana, con una candela nella mano libera ed il tenue chiarore che illumina il suo volto duro, gli occhi perspicaci ed attenti.
-Ma… Ma tu sei…- balbetto incredula, mentre lui mi lascia il braccio e si osserva intorno.
-Sì, sono proprio io, Ezio, uno dei grandi della corte di Ravenna.-
-Ezio… Il generale Ezio che ha sconfitto Attila?-
-Quello ed altro.- inizia facendo un mezzo inchino di presentazione.
Rimango piacevolmente sorpresa dalle buone maniere di quel rude soldato romano, che di romano, poi, non ha nulla. Ma suo padre, un barbaro Goto, era diventato generale dell'impero romano e lui, da bravo figliolo, ne aveva seguito le gesta.
-Devo riconoscere,- ammette con tono mesto, -che essere stato ostaggio per tre anni del Visigoto Alarico e poi degli Unni di re Rua, mi ha fatto crescere in fretta. Ma all'epoca era la prassi normale quando si stipulava un patto.- aggiunge con noncuranza.
-Quanti anni avevi?- domando incuriosita, mentre mi risistemo la manica della maglia che lui aveva involontariamente tirato per non farmi cadere.
Ci pensa un po' grattandosi il mento, rendendosi conto che era arduo tornare indietro con la mente a tanti secoli prima, quindi risponde:
-Circa quindici. Ma se consideri che di origini sono barbaro anch'io…-
-Deve essere stata un'esperienza difficile.-
-Difficile?- sogghigna con tono insinuante. -Tu non ne puoi avere idea. Io giungevo da un paese civilizzato, da un luogo che aveva fatto la Storia e mi sono ritrovato in un mondo dove un australopiteco avrebbe storto il naso.-
Sorrido condividendo il suo estremo paragone e suggerisco:
-Quell'esperienza ti ha però aiutato in seguito.-
-Eh, sì.- ammette. -Quando mi sono scontrato con i Visigoti in Gallia, conoscevo fin troppo bene i modi di fare di quei barbari, tanto da sopraffarli.-
-Soprattutto gli Unni.-
Si guarda intorno, sempre all'erta, girando la candela per vedere meglio, quindi mi si avvicina e mi sussurra all'orecchio:
-Qui lo dico e qui lo nego: i romani erano ottimi soldati, ma i barbari erano una vera forza della natura. Loro la battaglia ce l'avevano nel sangue. Erano un popolo di guerrieri, uomini e donne, vecchi e bambini. Nulla a che vedere con la nostra civiltà.- aggiunge con un gesto secco della mano.
Annuisco, concordando con lui ed un sorriso gli piega le labbra, compiacendosi che comprendessi la sua posizione.
-Tu, però, hai fatto sì che l'altro tuo alter ego, il generale Bonifacio, risultasse un traditore di Roma agli occhi di Galla Placidia.-
Si scurisce in volto e mi fissa a lungo, prima di annuire.
-Sì. Ma all'epoca non ci si scandalizzava di simili comportamenti. La moralità era opinabile.-
-Ma dichiarando Bonifacio nemico di Roma, questi è stato costretto a rivolgersi ai barbari.-
Annuisce ed all'evanescente fuoco della candela vedo il suo volto incupire maggiormente al ricordo.
-Si è unito a re Genserico ed i Vandali da lui comandati non si sono di certo fatti pregare nell'invadere la penisola: in Italia sono giunti e non se ne sono andati più.-
Esito un attimo, quindi gli faccio notare:
-Le rivalità ed i rancori che correvano tra te e Bonifacio, hanno praticamente scisso in due l'ultimo esercito romano, te ne sei mai reso conto? Tu da una parte, con le tue gelosie, lui dall'altra, fedele servitore ferito nell'orgoglio per un tuo raggiro.-
Mi fissa quasi con astio, gli occhi che avrebbero volentieri incenerito e quasi mi trafigge con il suo sguardo feroce, incutendomi un rispettoso terrore.
-Tu parli di morale, ma te l'ho già detto: all'epoca era opinabile. Ma, in fondo, se veramente vuoi capire, basterebbe solo che tu volgessi lo sguardo verso gli alti vertici e ti accorgeresti che la morale non esiste neppure ora.-
Sbatto gli occhi più volte ed infine, mestamente, convengo con lui, commentando:
-Allora i tempi non sono poi tanto mutati.-
-Brava! Lo vedi che, se ti ci metti, riesci a comprendere?- esclama dandomi una pacca sulla spalla.
Quel semplice gesto per poco mi manda gambe all'aria e la scapola mi rimane lievemente dolorante, ma non gliene faccio una colpa: cosa possediamo noi del XXI secolo di forza muscolare rispetto ai nostri antenati? Nulla, solo un vago ricordo.
-In quell'occasione Bonifacio ti ha battuto, ma il vincitore sei risultato tu.-
-Be', che vuoi… Lui aveva vinto sul campo di battaglia, ma io l'ho sfidato a singolar tenzone e lì lui è caduto: ho vinto io.- si inorgoglisce.
-Così facendo, hai anticipato il medioevo ed i suoi cavalieri.-
Lo vedo sorridere ed un attimo dopo, con velocità fulminea, estrae il pugnale legato in vita per conficcarlo nel corpo di una grossa migale che si arrampica su un albero. Inorridisco ed un brivido mi corre lungo la schiena, facendomi drizzare tutti i peli: cosa posso farci se sono aracnofobica? Deglutisco e chiudo un attimo gli occhi, quindi mi concentro di nuovo su Ezio.
-Tu e Bonifacio eravate i soli due grandi generali di Roma che avrebbero potuto salvare l'impero.-
Aggrotta le sopracciglia ed annuisce pensieroso.
-Sì, è vero. Ma che vuoi farci?-
-I Campi Catalaunici, dunque, devono essere un bel ricordo.- commento.
Lo vedo illuminarsi in volto, quel volto duro da soldato tutto d'un pezzo e gli occhi vispi si accendono come due stelle.
-Ci puoi giurare, figliola!- esclama gonfiando il petto. -Ah, che battaglia! Ricordo la sicurezza di Attila, lui, così fiero ed altero dei suoi Unni selvaggi e crudeli, e noi, soldati disciplinati pronti a bloccare la barbara avanzata come un muro. Teodorico, re dei Visigoti, che mi affiancava con il suo esercito, è caduto eroicamente. Ma tu,- mi accusa con brutto cipiglio, -hai mai partecipato ad una battaglia?-
Sgrano gli occhi scuotendo la testa e rispondo mestamente:
-Non mi è stato dato… il piacere.-
Lui fa un gesto vago con la mano, come a voler scacciare una mosca fastidiosa e riprende:
-Attila era sicuro di vincere, di sopraffare i miei uomini, ma alla fine Roma ha vinto.- conclude senza velare l'orgoglio.
Mi metto a ridere di cuore, cosicché lui si adombra di nuovo in volto, e gli faccio notare con eccessiva superficialità:
-Non dirlo troppo forte od i nostri tifosi penseranno che abbiamo vinto una partita di calcio contro una squadra chiamata "Attila"!-
Lo sento grugnire qualcosa di inintelligibile e la sua espressione furiosa mi fa tornare immediatamente seria.
-Rispetto,- sentenzia con tono e sguardo algido, -rispetto prima di tutto per chi ha donato la propria vita sui campi di battaglia. E su quel campo ne sono morti più di centomila.-
Chino mestamente la testa, intimorita dalla sua autorità e bisbiglio:
-Perdonami, non era mia intenzione offendere.-
-Voi giovani moderni non siete sorretti da nessun ideale.- sibila con disprezzo.
-Forse no o forse sì.- insinuo. -Dipende dai punti di vista. Le cose, in questi ultimi secoli, sono notevolmente cambiate.-
-In peggio.- grugnisce da buon generale.
Scuoto la testa e gli faccio notare:
-La vittoria su Attila, oltre a consolidare la tua fama, ha attirato l'invidia di Valentiniano, l'imperatore d'occidente.-
Fa un gesto di stizza e digrigna i denti, mostrando tutto il rancore che porta..
-Quell'essere spregevole, quell'infante ed effeminato mezzo uomo, era geloso ed invidioso della mia fama e della mia potenza.-
-Spregevole forse per te.- correggo.
-Certo! Mi ha ammazzato, con le sue mani, quel fedifrago! Se sua madre Galla Placidia fosse stata ancora viva, non sarebbe accaduto. E' giunto dalla lontana Ravenna fino a Roma con la scusa delle nozze di mio figlio con sua figlia, ma in realtà con il solo scopo di eliminarmi! Se questo non lo giudichi spregevole…-
-Non spetta a me dare giudizi: io non sono Dio.-
Gonfia nuovamente il petto, porta la candela davanti al mio viso e mi fissa a lungo, dall'alto verso il basso, quindi mi fa un cenno con la mano ed io osservo la quercia alle sue spalle, mentre lo sento insinuare dolcemente:
-In un certo qual senso, per un periodo di tempo, io lo sono stato.-
Sulla quercia, all'improvviso, appare lui, ai tempi del suo massimo splendore, circondato da servi e schiavi, mentre se ne sta disteso su un triclinio, in compagnia di commensali goliardici che mangiano e bevono ascoltando i versi di un poeta. Quell'attimo di vita mi lascia a bocca aperta per la bellezza e la solarità e mi chiedo inevitabilmente dove sia finito lo splendore della Roma imperiale. Poi, all'improvviso, il buio torna ad avvolgermi e mi accorgo che Ezio sta per spegnere la candela e sparire per sempre dalla mia visuale. Vorrei trattenerlo, ma non so come e provo a chiedere:
-Hai fatto tanto per Roma: se ti fosse concesso, lo rifaresti?-
Mi fissa come se fossi impazzita, come se per lui la domanda non sussistesse e risponde:
-Aho, bella mia, siamo romani, no? E con questo ho detto tutto.-
E detto da lui, un barbaro, mi lascia ben sperare.

martedì 3 febbraio 2009

Roma vista da me

COLA DI RIENZO
(Roma, 1313/14 - Roma, 8 ottobre 1354)


Cosa c'è di più incredibile, buffo, irriverente nella vita di un uomo che andare una sera a dormire e ritrovarsi in una spelonca scura, umida, salmastra, concretamente fuori del mondo e, all'improvviso, volgendo lo sguardo intorno, intravedere un fuoco fatuo che, inesplicabilmente, ti richiama alla stessa maniera di come un orso è attratto dal miele? Nulla, a parte la curiosità, la legittima curiosità. Non saremmo uomini altrimenti, non credete? Ed io mi ritrovo invischiata in qualcosa di meraviglioso, unico, singolare: un incontro quanto mai irreale con il passato che cambierà totalmente la mia esistenza.
Lo vedo, stagliarsi nitido contro la roccia ricoperta di humus, che mi fissa con i suoi occhi perspicaci, che perforano l'animo, le braccia conserte, il peso del corpo sostenuto da una sola gamba, a testimonianza che era da un po' che stava lì nell'attesa di incontrarmi.
Inghiottisco di colpo l'urlo che mi nasce spontaneo e, tremando appena, chino alquanto la testa come a sincerarmi di ciò che sto osservando: sono viva o sono trapassata nella parte dei più? E' lui, non possono esserci errori: Nicola di Rienzo Cabrini, più comunemente chiamato Cola di Rienzo, conosciuto dai giovani romani più per la via a lui intitolata che per ciò che ha fatto.
Mio Dio! penso allibita. Ma… Se è veramente lui, lui… Dio mio, qui stiamo parlando del periodo storico che si snoda tra la prima metà del XIV secolo e la sua fine, quando la sede papale si trovava ad Avignone, in pieno marasma della Guerra dei Cento Anni, quando Roma era solo uno sbiadito ricordo dell'epoca d'oro, quando Dante componeva i suoi immortali versi, quando Petrarca imperava…
-Sei proprio tu?- domando titubante, sbattendo più volte gli occhi per essere certa di vedere bene.
Indispettito gonfia il petto, tronfio come un pavone, scioglie le braccia e posa le mani sui fianchi e borbotta:
-Chi diavolo pensi possa essere?-
-Un fantasma?- azzardo provando ad avvicinarmi.
-Un fantasma! Tst! Che tu lo voglia credere o no, sono proprio io, in carne ed ossa. Forse,- ammette ammiccando, -un po' più in ossa che carne, dati i trascorsi secoli. Ma non mi lamento. Prova.- mi invita allungando un braccio.
Esitante mi accosto a lui e poggio la mano sull'avambraccio, ritraendola subito dopo, come se mi fossi scottata: era vivo! Cola di Rienzo era vivo e vegeto dinanzi a me! In quale malia ero finita? L'istinto mi porta a toccarmi il volto, per sincerarmi di essere anch'io viva e quel semplice gesto lo fa sogghignare.
Alza l'indice a mo' di maestro ed esordisce:
-Io sono romano, trasteverino, tu non so se puoi vantarti altrettanto. Sono nato non so bene se nel '13 o nel '14, all'epoca non esisteva l'anagrafe, da genitori contadini e contadino sono stato anch'io per i miei primi vent'anni, ma, ascoltami bene ragazza di oggi, con le idee già chiare in testa: studiare i classici. Capisci cosa intendo?-
Annuisco quasi impercettibilmente, ancora attonita e lui inspira a fondo, prima di dire:
-L'ho fatto, figliola. Ho studiato i classici e sono diventato notaio in Roma.-
Percepisco l'orgoglio nelle sue parole e ne ha ben donde. Io, dal canto mio, all'improvviso mi sento piccina dinanzi ad un uomo di tale stampo e sussulto appena quando lo vedo farmi un gesto con la mano. Mi avvicino e lui mi mostra la parete alle sue spalle, umida e scura. Sto per aprire bocca, quando, all'improvviso, la roccia muta aspetto e vedo Roma, ossia, percepisco che è Roma perché riconosco i Fori Imperiali, ma non è la mia Roma. Non c'è neppure il cupolone. Sembra un paese in abbandono, dove per le strade girano postulanti, pellegrini e ladri e dove solo il ricco signore ed il principe della Chiesa si possono permettere il cavallo.
-Lo vedi anche tu lo squallore in cui era precipitata l'Urbe?- domanda con aria assorta. -Io ho dato letteralmente la vita per cercare di ridonare alla nostra capitale la magnificenza che le era dovuta. Non era un'impresa facile, ne convengo.- commenta con il volto corrucciato. -Io ho amato moltissimo la mia città e vederla ridotta così, com'era nel 1300, rispetto alla maestosità dell'epoca d'oro dei Cesari, mi dava un colpo al cuore. Pure il papa era fuggito.-
-Per questo motivo sei partito per Avignone?- domando studiando il suo volto largo, dal naso aquilino, i suoi occhi vigili ed attenti e le sue labbra serrate.
-Sì, per intercedere presso papa Clemente VI de Beaufort, per porre fine a tutte le lotte intestine tra le varie fazioni nobiliari che dilaniavano l'Urbe. Ma tu,- aggiunge con aria inquisitoria, -hai una vaga idea di come si viveva all'epoca?- domanda indicando la città apparsa alle sue spalle.
-Be'… Vaga, sicuramente vaga.- ammetto.
Con uno scatto nervoso si passa una mano tra i capelli corti e borbotta:
-Voi giovani d'oggi cosa ne potete sapere? Oggi girate con le macchine, con i motorini, infestando la città con il vostro smog. Avete la televisione, i videogiochi, i cellulari… Cosa ne potete sapere?-
-In effetti, siamo più fortunati.- convengo con un sorriso di scusa.
Lui mi fissa con brutto cipiglio e ribatte aspro:
-Fortunati? Tu non hai capito nulla: siamo stati noi i veri fortunati! Noi non ci spaventavamo a metterci in marcia a piedi, pronti ad intraprendere un viaggio lungo e massacrante per giungere all'altro capo del mondo conosciuto; non temevamo di perdere un gioco perché andava via la corrente; non ci scannavamo per una partita di calcio andata male. Qui,- conclude ammiccante, con aria di superiorità, -se c'è qualcuno fortunato, sono io, non tu.-
Rimango un attimo in silenzio, poco convinta del suo modo di interpretare la fortuna e chiedo:
-Il linciaggio lo vedi come una morte fortunata?-
Lo scorgo sgranare gli occhi ed illividire, camuffare il ricordo doloroso con un gesto vago della mano e ringhiare:
-Aho! Noi romani siamo fatti così. Che ci vuoi fare?-
-Ma tu, all'inizio, desideravi solo il loro bene.-
-Si capisce! E dopo che il papa mi aveva investito dei pieni poteri, ho governato con giustizia, proclamandomi Vicario pontificio e liberatore della sacra repubblica romana.-
-Il che significa?- domando con un pizzico di impertinenza.
Indispettito, torna ad incrociare le braccia al petto e risponde piccato:
-Ho cercato di riportare Roma al suo giusto ruolo: capitale dell'intero mondo cristiano.-
Gli brillano gli occhi e gonfia il petto ed io posso solo immaginare l'orgoglio che gli fluisce nel sangue.
-Ma i baroni romani non la pensavano come te.-
Mi guarda e scuote la testa sconsolato.
-Non solo loro, ma pure il pontefice, che prima mi ha teso la mano e poi l'ha ritirata. Pensa un po': mi ha fatto processare. Io! Che ho fatto tanto per la mia amata città, per elevarla a titolo di capitale del mondo e renderle il giusto posto!-
-Forse hai esagerato un tantino?- insinuo inarcando le sopracciglia. -Sei stato costretto a fuggire per evitare il linciaggio.-
Lui sorride e si mette in testa la corona di alloro, come i vecchi Cesari.
-Per Roma ho sopportato la reclusione prima presso l'imperatore, poi ad Avignone. Ho persino fatto amicizia con i topi che dividevano la mia misera sorte. Un'intera famiglia di ratti, con baffi alquanto lunghi e denti aguzzi.-
-Compagnia piacevole.-
-Più che altro silenziosa.-
-Ma poi sei tornato a Roma.-
-Eh…- sospira. -All'elezione di Innocenzo VI Aubert, mi sono visto cavare di prigione per accompagnare il battagliero cardinale Albornoz in Italia, per spianare il ritorno della sede pontificia a Roma. Chi meglio di me poteva influire sui romani?-
Sbircio lo scorcio di città alle sue spalle e, a dispetto di tutto, rimango incantata dinanzi a quel pezzetto di esistenza così remoto che mi si snocciola dinanzi agli occhi. Non è da tutti vedere la vita quotidiana che si faceva nel XIV secolo e mi ritengo eletta.
-Tu, però, i romani li hai vessati con tasse altissime, con gabelle sul sale che il popolino era impossibilitato a pagare.- gli faccio notare.
Lui alza le spalle e risponde:
-Roma era un letamaio. La gente viveva di elemosina e solo pochi potentati potevano permettersi certi lussi. Se dovevamo riportare il papa a Roma occorreva rinnovare la città.-
-Tu i romani non li conosci poi tanto bene.- commento trattenendo un sorriso divertito.
Abbassa gli occhi e sospira mestamente.
-Quale riconoscenza, vero? Essere linciato e dato alle fiamme dal popolo che volevo innalzare agli onori della Storia.-
-Siamo romani.-
-E che vuoi farci? Correva l'anno 1354 ed io ero ancora piuttosto giovane. Ma così va il mondo.-
-Più che il mondo, sono stati i baroni romani a sobillare il popolo, scontenti del tuo rientro.-
-Certo, loro erano il vero argano ed il popolino, bastardo come una meretrice, pronto a coalizzarsi con chi alza di più la voce e loro l'hanno alzata abbastanza.- ammette con un sorriso.
-Ma tu hai comunque perso la testa. Il potere ti ha dato al cervello e, permettimi di dirlo, non ti sei regolato. Lo stesso popolo, che all'inizio ti ha aperto le braccia, fomentato dai tuoi discorsi, dalle tue arringhe, dalla tua retorica, alla fine si è reso conto che eri uscito fuori dei binari e ben volentieri ha prestato orecchio ai baroni. Sai, con le belle parole ma con la pancia vuota…-
I suoi occhi brillano di una luce vivida ed alza il mento, fissandomi dall'alto in basso.
-Per lo meno, io ero spinto da un alto ideale. I baroni erano spinti solo dal loro tornaconto.-
-A vederti ora,- commento restringendo gli occhi come a pesarlo, -non sembrerebbe che tu fossi divenuto piuttosto pingue.-
-Be', sì.- ammette chinando appena la testa, come colto in flagrante. -In effetti,- mi sussurra nell'orecchio, come se avesse avuto timore che qualcuno lo udisse, -la cucina non mi faceva difetto. Soprattutto la buona cucina romana.-
Sorrido divertita e torno a guardare la Roma del 1300 che lentamente svanisce, per lasciar riaffiorare la nuda roccia. Vedo Cola che mi sorride a sua volta, quasi felice di avermi fatto partecipe della sua vita e mi fa un cenno di saluto con la mano, e, prima che svanisca anche lui, mi precipito a chiedere:
-Saresti pronto a rifarlo?-
-Chiaro! E' Roma, la mia città, la capitale del mondo!-