lunedì 29 marzo 2010

Aforisma

"Non scoprirete mai voi stessi finché non affronterete la verità."
Pearl Bailay

martedì 9 marzo 2010

Aforisma

"Non c'è nulla di nobile nell'essere superiori a qualcun altro. La vera nobiltà sta nel diventare superiori alla persona che si era un tempo." Prov. Indù

mercoledì 3 marzo 2010

Stralcio da "Principe delle tenebre"

Nei primi giorni dicembrini l'infiammazione intestinale parve migliorare, ma lo stesso Federico II aveva riconosciuto i sintomi del medesimo male che aveva stroncato suo padre Enrico VI nel fiore degli anni. Mandò a chiamare il gran giustiziere Riccardo di Montenero ed il suo più antico amico, l'arcivescovo Berardo da Palermo. C'erano solo loro nel maniero, oltre ai pochi intimi che erano stati a caccia con lui.
Manfredi non si dava pace e, quando non era al capezzale del padre morente, era costantemente al fianco di Teobaldo e Giordano, cercando negli amici più cari un conforto che non sarebbe giunto tanto presto, e quando la febbre tornò ad aggredire il padre, capì che era alla fine. Lo stesso imperatore volle dettare il testamento e dinanzi a Riccardo di Montenero, Berardo da Palermo, Manfredi, il margravio Bertoldo di Vohburg-Hohenburg, il genero Riccardo di Caserta, il gran maestro di scuderia Pietro Ruffo di Calabria e suo nipote Folco Ruffo, il medico Giovanni da Procida e alcuni giudici e notai, iniziò a dettare:
-Poiché transitoria è la natura umana, noi, Federico, per grazia di Dio imperatore dei romani, re di Gerusalemme e di Sicilia, in pieno possesso della favella e delle facoltà mentali, malato nel corpo ma lucidamente responsabile, intendiamo provvedere al bene della nostra anima e disporre del regno e delle terre e di ciò su cui ancora regniamo, anche se già siamo usciti dalla terrena esistenza.-
Il figlio Corrado IV re di Germania fu nominato erede dell'impero e re di Sicilia. Qualora fosse morto senza eredi, il suo posto sarebbe stato preso dall'altro suo figlio legittimo Enrico Carlotto e, in mancanza di questi, da Manfredi.
Da quel momento, come un fulmine a ciel sereno, Federico II legittimizzò Manfredi, il quale non avrebbe più portato il nome Lancia ma quello di Hohenstaufen, inserendolo nella lista dei successori dell'impero.
Il giovane marchese rimase impietrito, mentre avvertiva su di sé gli sguardi di tutti i presenti, chiedendosi cosa avesse fatto per meritarsi tanto. Nessun altro dei figli illegittimi di Federico II sarebbe entrato nella lista dei successori e per un breve attimo assaporò la remota possibilità di divenire imperatore; ma subito dopo si dipinse la costernazione sul suo viso dolce: suo padre stava ancora dettando il testamento e lo metteva in una situazione per niente invidiabile.
Durante l'assenza di Corrado IV, Manfredi avrebbe dovuto regnare come vicario sull'Italia imperiale e sul regno di Sicilia, riversando su di lui, in tal modo, tutta la responsabilità di un regno che non era suo e che, probabilmente, non lo sarebbe mai diventato, vincolandolo ad un onore che lui vedeva solo come onere. A lui stesso lasciò il principato di Taranto, le contee di Gravina, Tricarico e Monte Cavo, con diritti feudali su Monte Sant'Angelo.
Ad Enzo, sebbene ancora imprigionato, sarebbe rimasta la Sardegna; al giovanissimo Enrico Carlotto il regno di Gerusalemme, mentre il ducato d'Austria e Stiria sarebbe andato al nipote Federico, figlio del primogenito Enrico che lui aveva deposto e che era morto in prigionia.
Inoltre, come ultimo desiderio, volle che tutte le chiese distrutte fossero ricostruite e che i sudditi fossero liberati da imposte generali.
La sera del 12 dicembre Federico II sembrò migliorare ed il medico, Giovanni da Procida, per cercare di ridargli un po' di forze, gli fece mangiare delle pere cotte nello zucchero.
Per il resto della serata l’imperatore rimase a parlare con Manfredi, suggerendogli i vari passi da compiere per cercare di contenere le previste rivolte che sarebbero scoppiate alla sua morte, esortandolo a compiere il suo dovere come si conveniva ad un Hohenstaufen e lasciando disposizione affinché le sue spoglie mortali transitassero lungo le Puglie da lui tanto amate e traslate nel duomo di Palermo, accanto alla prima moglie, Costanza d’Aragona.
Manfredi ascoltava e diniegava, continuando a ripetergli che sarebbe guarito e che avrebbe continuato a vivere a lungo, ma il giorno dopo, alla vigilia dei cinquantasei anni, a dispetto delle amorevoli parole di conforto del figlio prediletto, peggiorò. Volle indossare il saio cistercense e chiese all'amico Berardo da Palermo di scioglierlo dall'anatema e di riaccoglierlo nelle braccia della Chiesa, sperando, in tal modo, di rendere legittimo il testamento. Quindi il vecchio compagno di una vita intera gli somministrò l'estrema unzione ed insieme attesero la fine, sotto gli occhi di un affranto Manfredi. Questi gli tenne la mano fino all'ultimo e quando l’imperatore fece un’ultima smorfia prima di restituire l’anima al Creatore, con dolcezza gli chiuse gli occhi, non riuscendo a trattenere le lacrime.

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"Tramontato è il sole del mondo che illuminava le genti. Tramontato è il sole della giustizia. Tramontato è il fondatore della pace. Ma anche se quell'astro è tramontato, i suoi ordinamenti gli assicurano continuità e nuova vita in voi. Nessuno crede che il padre sia assente, perché si spera che nel figlio viva."
Questo scrisse Manfredi al fratello Corrado IV, mettendolo al corrente della morte del padre. Aggiunse che era deceduto da "perfetto cristiano", così che la Chiesa riconoscesse le sue ultime volontà.
Teobaldo, in piedi dinanzi alla finestra del maniero, distolse lo sguardo dal panorama e si girò a studiare l’amico intento a scrivere, il volto solare che era diventato cupo e teso, nonché addolorato e tormentato da quando l’imperatore aveva redatto il testamento, facendolo diventare uno svevo a tutti gli effetti. Con un sospiro si mise dinanzi alla scrivania, portando le mani nella cinta legata in vita e dalla quale pendeva la spada e portò il peso del corpo su una gamba, preoccupato per la piega che avevano preso gli eventi. Era vero che Corrado IV fosse l’erede e che Enrico Carlotto lo seguisse immediatamente nella linea di successione in quanto unici figli legittimi di Federico II, ma aver di colpo legittimizzato Manfredi, ponendolo al terzo posto come candidato al trono dell’impero, gli avrebbe procurato più noie che altro. Innanzitutto l’invidia di tutti gli altri figli illegittimi, nonché il sospetto in Corrado IV che ancora non aveva un suo erede personale e che, probabilmente, non vedeva di buon occhio questo fratellastro che lui neppure conosceva. Infine, ma non per ultima, la pretesa di Federico II che lui si occupasse di un regno non suo e che lo conservasse per l’erede legittimo.
Tutto questo senza tener conto del problema principale: la Chiesa avrebbe fortemente avversato ed inficiato il testamento di un uomo scomunicato. Manfredi si sarebbe ritrovato a combattere su due fronti, niente affatto in posizione invidiabile.
-Tu sai che la Chiesa non riconoscerà mai le volontà di un sovrano deposto e scomunicato, sebbene l’arcivescovo lo abbia sciolto arbitrariamente dall’anatema.- disse infine, girando il dito nella piaga.
Manfredi alzò appena gli occhi dal foglio, rigirò la piuma d’oca tra le dita e subito dopo sospirò, annuendo.
-Lo so bene, purtroppo. Fosse solo questo il guaio…-
-Tuo fratello?-
-Già- rispose pieno di sconforto. -La Chiesa non l’ha mai riconosciuto come re dei romani, né riconoscerà mai me come vicario su terre sulle quali essa rivendicava i diritti.-
Teobaldo passò una mano tra i capelli e si grattò la nuca, non prevedendo nulla di buono da quel testamento: il dissidio non si sarebbe mai potuto sanare e gli occhi di Manfredi gli rivelavano che ne era pienamente cosciente. Le difficoltà alle quali sarebbe andato incontro avrebbero intimorito un uomo dello stampo di Federico II; il giovane principe si sentiva morire al solo pensiero di quell'eredità che gli pesava come un macigno e che, se non fosse stato più che allerta, l’avrebbe schiacciato.
-Di una cosa sono certo,- mormorò Teobaldo puntando l’indice sulla scrivania, -io non ti lascerò da solo.-
Manfredi piegò le labbra in un sorriso amaro e con rassegnazione si apprestò a prendere il posto del padre, lui, appena diciottenne, che amava la tranquillità e sognava una vita di divertimenti e di battute di caccia. Ma era anche un cavaliere, un uomo d'onore ed avrebbe affrontato il destino senza tirarsi indietro, come si conveniva ad un Hohenstaufen.