venerdì 29 aprile 2011

Cesare Borgia, epitaffio

Aquì jaze en poca tierra
a quien toda le temìa;
en esto poco se encierra
el que la paz y la guerra
en el mundo todo hacìa.

O tu que vas a buscar
cosas dignas de loar,
si lo mejor es màs digno,
aquì acaba tu camino:
no cures de màs andar.

venerdì 15 aprile 2011

Sito

Un nuovo SITO, ancora in fase di costruzione. Se avete consigli, io sono tutta orecchie!

domenica 10 aprile 2011

CICERUACCHIO (Angelo Brunetti)

(Roma, settembre 1800 - Porto Tolle, 10 agosto 1849)


A Roma non piove molto, ma quando il cielo decide che è ora di piangere, ne manda giù talmente tanta che noi romani diventiamo scemi. No, non scherzo. Noi siamo avvezzi al sole, ci crogioliamo sotto la sua luce e non conosciamo nebbia, neve, bora né nubifragi. Siamo un po' come le lucertole, usciamo solo con il bel tempo e, visto che c'è sempre il sole, usciamo sempre. Ma quando piove… Quando piove e siamo costretti a mettere il muso fuori di casa causa lavoro, noi romani impazziamo. Se con il sole siamo soliti usare gli autobus e la metro, con la pioggia montiamo tutti in macchina, terrorizzati all'idea che una singola goccia d'acqua possa bagnarci. E allora vedi l'Urbe divenire un'immensa pozzanghera, straripare di autovetture incolonnate per ore per giungere a destinazione, con gli automobilisti che smadonnano e si insultano reciprocamente, dando la colpa al tempo se fanno tardi. È follia, ma è sempre così. Quando piove, Roma va in tilt. Figuriamoci se dovessero scendere due fiocchi di neve…
Osservo in silenzio le macchine incolonnate, imbottigliate nel caos cittadino, mentre me ne sto sotto l'ombrello in attesa che arrivi l'autobus che mi conduca al lavoro, stando bene attenta a non farmi schizzare dalle macchine che passano sulle buche piene d'acqua piovana. Alcuni vigili provano a sfidare l'ira degli automobilisti, ricevendo in cambio insulti e minacce sussurrati a fior di labbra. Solo un singolo essere sorride divertito, un uomo che mi sta vicino, senza alcun riparo e guarda con sommo disprezzo la follia che scivola dinanzi ai suoi occhi. Lo sbircio e mi accorgo che, a dispetto della pioggia, è asciutto e veste un po' dimesso. Lo osservo meglio e subito dopo sgrano gli occhi, esclamando:
-Ciceruacchio!-
Lui si volta a guardarmi e sorride, illuminandosi in quel volto rotondo che ispira fiducia e tranquillità
-Ma tu guarda 'sti romani di oggi!- esclama con il suo forte accento romanesco.
-Ai tuoi tempi era diverso.-
-Lo puoi dire forte, ragazza mia! E non c'era neppure questo rumore assordante al quale voi vi siete assuefatti. Tutt'al più si potevano udire gli strilloni in Campo Marzio, o a piazza Navona, o lo stridio delle ruote delle carrozze sul selciato oppure il calpestio degli zoccoli dei cavalli. Tutto questo…- e fa un gesto con la mano, -roboante rumore non c'era.-
-Si viveva meglio, eh?- commento divertita dalla sua aria schifata.
-Eccome!-
Esito un attimo, quindi abbasso il mio ombrello e mi accorgo che la pioggia devia, non mi tocca, come se fossi coperta da una invisibile campana di vetro. Come al solito la gente non ci vede neppure e torno a guardare lui, con quei suoi baffoni scuri e quel pizzetto che quasi fanno sparire la bocca.
-Perché il soprannome Ciceruacchio?- domando curiosa.
-È una corruzione di ciruacchiotto, ossia cicciottello. Ed io lo sono sempre stato, fin da piccolo.-
-Tu sei nato e vissuto a Roma in un periodo un po' turbolento.- ricordo.
Scuote la testa annuendo e si accarezza il ventre prominente.
-In effetti, dopo la rivoluzione francese, si annusava in giro aria di ribellione ovunque.-
-E tu ti sei dato da fare.-
Lo vedo corrucciarsi e scurirsi in volto, quel volto rubicondo che i romani avevano imparato ad amare e rispettare, nonostante fosse solo un semplice oste.
-Con il mondo che cambia, che riscatta la sua libertà, secondo te cosa avrei dovuto fare? Starmene con le mani in mano?-
Non rispondo, consapevole che ha ragione. È destino che alcuni uomini sentano maggiormente il richiamo della Storia, seppur inconsapevolmente, e lui è uno di questi. Non a caso, durante la Repubblica Romana, si diede da fare per far passare armi e vettovaglie ai combattenti e al popolo di Roma.
-So che i romani hanno sempre guardato a te come il portavoce dei loro sentimenti.-
-Ero il loro specchio, il riflesso di loro stessi!- esclama soddisfatto. -Essendo un oste, conoscevo più che bene il malumore dei miei concittadini, che si riunivano nel mio locale per parlare male o bene di taluna persona o di tale nobile o porporato. La gente si confidava con me ed io ascoltavo. Ed essendo sempre stato socievole e bontempone, ho preso le redini in mano quando si è trattato di eleggere il nuovo papa.-
Sgrano gli occhi e chino la testa di lato, incredula.
-Tu… hai eletto il nuovo papa?- esclamo.
-Ma no! Certo che no!- risponde quasi offeso. -Con l'avvento di Pio IX Mastai Ferretti, mi feci portavoce del malcontento popolare e riportai con la mia dialettica diretta, priva di retorica, tutta l'ansia dei romani che da tempo attendevano riforme.-
Espiro, inconsapevole di aver trattenuto l'aria e subito dopo sorrido. Be', capita di fraintendere…
-Addirittura,- riprende con il suo vocione, -ho ringraziato pubblicamente il nuovo papa per aver concesso la libertà ad alcuni prigionieri politici ed ho offerto da bere nella mia osteria. Ah, sì…- sospira e un velo di malinconia ricopre i suoi occhi attenti. -Che festa abbiamo fatto… Fino a sera tardi, al lume delle torce e delle fiaccole, tutti a bere e cantare e mangiare: sembravano tornati i bei tempi andati.-
Rimango in silenzio, domandandomi a quali bei tempi si riferisse e, a dispetto della mia ricerca nella memoria, non trovo nulla che possa definirsi tale. Forse è solo un suo sentimento personale. Di certo l'Italia non percorreva un buon periodo, vista la dominazione francese e austriaca.
-A Porta del Popolo, poi,- continua con aria estasiata, -abbiamo acceso un fuoco enorme, richiamando tanti di quei romani che tu non puoi immaginare.-
Sogghigno sotto i baffi, immaginando un concerto dei Queen, o dei Led Zeppelin, o dei Pink Floyd e neppure rispondo, lasciandolo crogiolare nel suo ricordo. E in quel lasso di tempo mi rendo conto di quanto possano essere cambiati i tempi nel volgere di un solo secolo, stravolgendo le abitudini e lo stesso pensiero.
-Ma poi qualcosa è cambiato.- noto.
China mestamente la testa al ricordo bruciante e si morde le labbra.
-Avevo riposto grande fiducia nel nuovo papa, tanto da sperare fino all'ultimo che avrebbe veramente cambiato le cose. Ma quando è fuggito, facendo crollare anche la Repubblica Romana, ho aperto gli occhi.-
-Non poteva essere il successore di Pietro il riformatore, vero?-
-No.- ammette controvoglia. -E l'ho capito a mie spese. È fuggito lasciando Roma nelle mani dei francesi. Ti lascio immaginare gli avventori della mia osteria: indignati, offesi e furiosi era a dir poco. Io con loro.-
Annuisco, eppure non so se riesco a capire pienamente il suo stato d'animo. Di certo non deve essere stato facile vivere in quel periodo di stravolgimenti emotivi. Da una parte la Francia che insegnava con la sua rivoluzione e con l'avvento di Napoleone, dall'altra l'Austria e la Prussia con le loro ancor solide radici nel medioevo, impermeabili a qualsiasi capovolgimento, insofferenti a ogni riforma e ognuna di loro con basi stabili, o semistabili, in Italia. In effetti, noi giovani di oggi, cosa possiamo saperne dell'occupazione, delle restrizioni, dell'impossibilità di esprimere le proprie opinioni, della morte che si annida dietro ogni angolo che si può svoltare? Salvatore Quasimodo ne sapeva qualcosa e la sua meravigliosa "Alle fronde dei salici" è lì a testimoniarlo.
-Anche tu sei fuggito.-
-Be', a dir la verità, visto come si mettevano le cose, ho preferito seguire Garibaldi… Hai presente Garibaldi?- domanda con aria da inquisitore.
-Eh, sì.- sospiro annuendo.
Mi fissa a lungo, come se la mia espressione non gli piacesse e provo a piegare le labbra in un sorriso amichevole.
-Aho, regazzì,- mi riprende alzando l'indice come un maestro e agitandomelo sotto il naso, -guai se ti vedo deridere il nostro Garibaldi. Non te lo permetto.-
-Non lo permetterei a me stessa.- ribatto. -So bene chi fosse Garibaldi e ne ho profondo rispetto, nonché stima.-
-Ah, be'.- commenta compiaciuto.
Lo vedo rilassarsi in volto e porta le mani dentro le tasche del panciotto, con aria soddisfatta.
Rimango a osservarlo, in attesa che continui il racconto e, quando si rende conto del mio prolungato silenzio, mi fissa e chiede brusco:
-Be'? Che hai da guardare?-
Esito, non sapendo bene cosa dire, quindi rispondo:
-Guardo un eroe romano.-
Quella risposta lo compiace e sorride beota.
-Be', forse hai ragione.- risponde. -In finale, ho dato la mia vita per Roma, per la sua libertà. E con me l'hanno data i miei due figli, il più grande e il più piccolo, poco più di un bambino.-
-Sì, ricordo. Gli austriaci non hanno avuto pietà di un ragazzino.-
-Già- ringhia con espressione furiosa. -Ci vuole coraggio a fucilare un tredicenne mingherlino.-
Avverto il sarcasmo e convengo con lui. Non deve essere facile affrontare la morte a viso aperto, figuriamoci poi se al fianco ti ritrovi con due figli che debbono fare la tua stessa fine. Me lo immagino, Ciceruacchio, provare a coprire con il suo corpo massiccio il figlio minore, nella speranza di salvarlo dal plotone di esecuzione.
-Sei morto lontano dalla tua Roma.- commento.
-Purtroppo. E pensare che quando ero partito, speravo di contribuire alla sua liberazione. Sai,- mormora sconsolato, -con Garibaldi volevo dare una mano a Venezia che resisteva agli austriaci, ma ci siamo dovuti fermare al Delta del Po, per sfuggire alle vedette nemiche. Abbiamo chiesto rifugio ai connazionali, ma quei bastardi di italiani, anziché aiutarci, ci hanno denunciato agli austriaci, i quali hanno provveduto a fucilarci senza perdere tempo. Comprendi? Noi, italiani che volevamo scacciare gli oppressori, denunciati dai nostri stessi concittadini! Roba da non credere.-
Scuoto la testa come lui, pensando che fosse normale per gli italiani dell'epoca, divisi per secoli, non provare un sentimento di unità nazionale. Troppo diversi. Troppi dialetti diversi. Troppe frontiere. Ma, chissà perché, questo solo pensiero non mi consola dinanzi alla vista di italiani che tradiscono gli stessi italiani. Quello che mi colpisce e mi ferisce, è che oggi, tutto sommato, la pensiamo ancora come quei contadini del Delta del Po.
-Oggi, però, riposi al Gianicolo.- lo consolo.
Sorride e in un gesto affettuoso mi dà un buffetto sulla guancia.
-Aho, regazzì, e mica è da tutti!-
Rido della sua romanità e in quel momento sento la pioggia bagnarmi la tesa. Alzo lo sguardo e mi bagno il volto, ricordando che avevo chiuso l'ombrello perché riparata dalla presenza di Ciceruacchio. Quando mi giro per salutarlo, non c'è più e la pioggia sul mio viso mi sembra all'improvviso come un pianto silenzioso per tutte quelle vite donate per un ideale che oggi nessuno sente più.

martedì 5 aprile 2011

Stralcio da "Principe delle tenebre"

Bari, 1251
Era la città più grande e importante delle Puglie e se fosse riuscita a svicolare al giogo imperiale, l'intero regno avrebbe innalzato il vessillo guelfo. Gli ambasciatori avevano sempre portato i loro omaggi al principe reggente, accompagnati sempre da vaghe promesse di fedeltà che nessuno si sognava di fare. I baresi speravano che, dovendo sedare altre insurrezioni, Manfredi si allontanasse con il suo esercito, così da potersi dichiarare apertamente a favore del papato senza incorrere nell’ira imperiale. La paura della dannazione eterna era più forte della fedeltà a un imperatore di cui non conoscevano neppure il volto, anche se questo imperatore era il figlio di Federico II.
Il giovane Staufen, che doveva ricevere il giuramento in vece del fratellastro, aveva subodorato qualcosa di poco chiaro. Gli erano state fatte promesse vacue sine die, quando avrebbe desiderato qualcosa di più sostanzioso dalla città più grande del regno, una sicurezza che gli avrebbe consentito di dormire sonni più tranquilli. Fintanto che non avesse ricevuto tutti i giuramenti di fedeltà a Corrado IV, la sua opera era incompleta e non poteva permettersi recriminazioni da parte del fratello.
Giordano e Teobaldo erano inquieti e Manfredi non aveva mancato di notarlo. Anche loro, da uomini d'arme quali erano, avevano fiutato il pericolo, e tuttavia non sapevano come affrontarlo, perché, apparentemente, Bari non si era ribellata e, pertanto, rimaneva intoccabile.
Senza porre tempo prezioso in mezzo, il principe aveva dato ordine di marciare sulla città, in modo da mettere i nicchiosi dinanzi al fatto compiuto e indurli a pronunciare il giuramento di fedeltà direttamente a lui. Non era certo di cosa si sarebbe dovuto attendere da quella città; le parole vaghe dei delegati lo avevano messo sul chi va là ed era meglio porre la potenziale ribelle alle strette prima che fosse troppo tardi.
Ora, accampato a pochi chilometri da Bari, ricevette nuovamente gli ambasciatori che, con la loro magniloquenza, continuarono a offrirgli solo parole e lui li lasciò parlare, ripensando ai colloqui ai quali aveva assistito all’ombra del padre, imparando a gestire la sottile arte della diplomazia e i gesti che sottolineavano il potere.
-Noi siamo certi,- li interruppe dolcemente ma con fermezza, -che la vostra città possa più delle promesse. Questo temporeggiare ci porta a pensare che nascondiate mire diverse dal giuramento di fedeltà. Pertanto, considerato il nostro dovere di reggente, ci vediamo costretti a chiedervi maggiori sicurezze per poter rassicurare il re sulla vostra fedeltà. In caso contrario, non ci lasciate altra scelta se non quella di marciare contro di voi.-
-Eccellentissimo signor principe, la nostra città vi ha sempre portato le sue simpatie e le...-
-E le vacue promesse.- concluse con tono sferzante. -Vi concediamo un giorno di tempo per venirci a porgere il vostro giuramento. In caso contrario, ci vedremo costretti a venire a farvi visita.-
Il tono affettato non lasciò dubbi negli ambasciatori, che si guardarono ammutoliti, incapaci di prendere tempo.
Con ostentata superiorità, Manfredi si alzò dalla sedia da campo e scortato dai saraceni uscì dalla tenda, ritenendo chiuso il discorso.

~

Teobaldo entrò nella tenda da campo di Manfredi e lo vide steso sui cuscini, alla maniera orientale, intento ad accarezzare distrattamente il leopardo che sonnecchiava accanto a lui. Con lo sguardo percorse il perimetro della tenda e ad un angolo vide un paggio che provvedeva a tenere acceso un piccolo fuoco per scaldare l‘ambiente altrimenti gelido e inospitale, e il calore delle fiamme aveva reso rubiconde le sue gote paffute. All’altro angolo lo scudiero del principe si affannava nell’oliare e lucidare la cotta in maglia del suo signore, mentre distesi a terra dinanzi a sé aveva il pugnale e la spada di Manfredi che attendevano di essere arrotati.
-Bertoldo è riuscito a ridurre all'obbedienza Avellino e fino a quella città il regno è fedele.- annunciò Teobaldo tornando a concentrarsi sul principe.
Manfredi annuì soddisfatto, senza smettere di accarezzare il leopardo e l’Annibaldi rimase suo malgrado immobile a fissarlo, così dannatamente bello e così seducente in quella posa rilassata, con il farsetto blu ricamato con fili argentati e agemine che riproducevano l'aquila imperiale, con le calze nere che gli modellavano le gambe lunghe e muscolose, e dovette deglutire per continuare il suo resoconto.
-Napoli, Capua e Nola hanno innalzato il vessillo guelfo, mentre ad Aversa è in corso una guerra civile tra fazioni guelfe e ghibelline.-
-Quale delle due fazioni è in grado di sopraffare l'altra?-
Il ragazzo fece una smorfia accompagnata da un gesto vago della mano e rispose:
-Si equivalgono.-
Manfredi sorrise all'aria sorniona del felide e Teobaldo si avvicinò, curioso e timoroso all'unisono.
-Vorrei accarezzarlo.-
-Fallo.- lo invitò il principe.
Il ragazzo esitò, spostando lo sguardo da uno all'altro. Sebbene fossero anni che viveva accanto al principe, non era mai riuscito ad abituarsi al serraglio di cui amava circondarsi, soprattutto ai grossi felini.
-Mi lacera ammetterlo, ma ho paura.- bofonchiò contrito.
-Non ti farà niente. È stato bene addestrato e con me vicino non si ribellerà.-
-Vorrei avere la tua sicurezza.-
Manfredi rise e con un sospiro Teobaldo si inginocchiò sopra un cuscino di velluto blu, facendo tintinnare la lorica. Trattenne il respiro e allungò la mano tremante verso il leopardo, steso accanto al suo padrone. Esitò ancora e alla sua titubanza il principe gli prese il polso con delicatezza, facendogli posare la mano sulla testa del felino. Questi sbatté la coda, lo guardò sornione con i suoi occhioni color dell’ambra e il ragazzo ritirò di scatto la mano, terrorizzato. Manfredi riprese a ridere e Teobaldo borbottò stizzito:
-Non so come fai a fidarti così.-
-È mansueto e ha pure la pancia piena.-
Il ragazzo esitò, quindi si mise seduto sui talloni e senza staccare lo sguardo dal felide mormorò:
-Prima o poi ti sbranerà.-
-Non è lui che mi sbranerà,- corresse, -bensì questi ribelli che ascoltano incantati i frati predicatori. È Innocenzo che vuole dilaniarmi con i suoi artigli, non il mio leopardo.-
Teobaldo chinò appena la testa annuendo, accettando il suo punto di vista e, tornando in piedi per mettere maggior distanza tra sé e il felino, chiese:
-Cosa intendi fare con Bari?-
Manfredi si alzò agilmente e con aria meditabonda si avvicinò allo scudiero che aveva terminato di arrotare le lame e legò in vita il pugnale e la spada, prima di dire con tono grave:
-Questa situazione è insostenibile. Innocenzo, che non ha mai riconosciuto il testamento di mio padre, ha investito del principato di Taranto, il mio principato, un altro nobile, così da rendermelo nemico. Questo Frangipane farà di tutto per entrare in possesso delle mie terre e cercherà appoggi in suo favore, anche tra gente devota all'impero, pur di sbalzarmi da ciò che mi appartiene. E intanto Innocenzo non fa altro che predicare contro tutta la casata degli Hohenstaufen e ogni giorno fa sempre più proseliti. Corrado è ancora in Germania e non ho idea di quando verrà a prendere possesso del regno.- ammise in un sussurro. -Le ribellioni sono giornaliere e non so per quanto tempo ancora riuscirò a mantenere intatto il territorio.-
Quindi, con gesto sconsolato della testa, concluse passando una mano sulla fronte:
-La gente non mi ama, questo è un dato di fatto.-
-Ma cosa dici?- esclamò Teobaldo attonito, prendendolo per un braccio e costringendolo a guardarlo negli occhi. -La gente non può non amarti. Sei un principe buono, colto, giusto, illuminato, munifico… Solo guardandoti si è pronti a dare la vita per te…- aggiunse deglutendo.
Manfredi allungò improvvisamente la mano per accarezzargli una guancia e lo guardò con condiscendenza, mormorando:
-Anch’io ti amo, Teo.-
Il ragazzo esitò e gli lasciò il braccio, abbassando gli occhi e il principe continuò mormorando:
-Devo riuscire a raggiungere un accordo con il papa. Solo in questo modo porrò fine alle predicazioni contro gli svevi e alle rivolte.-
A quelle parole, Teobaldo tornò con i piedi per terra e con aria grave ripeté:
-Un accordo con il… papa?-
-Già.-
-Stai attento: scendere a patti con il Vaticano può essere frainteso da orecchie che non vogliono ascoltare.-
Manfredi comprese cosa intendesse dire e abbozzò un pallido sorriso, girando per la tenda.
-È l'unica via che ho per mantenere intatto il territorio. Non ho un esercito, le casse sono quasi vuote e la gente non vuole più vivere scomunicata. Le tasse che sono costretto a pretendere servono solo per continuare questa rovinosa lotta contro il papato. Devo accordarmi con il papa per riuscire a consegnare il regno nella sua integrità e nella sua prosperità a mio fratello.-
-Corrado lo capirà? Lui è lontano e non ha idea di quello che sta accadendo qui.-
Manfredi fece qualche altro passo, meditabondo, quindi si fermò e posò lo sguardo glauco sul suo amico.
-Deve capirlo. Questo stato di cose non può durare, tanto più che non ho mai desiderato questa responsabilità.-
Teobaldo rimase in silenzio, provando a immaginare quello che passava nell'animo del figlio di Federico II e con un sospiro gli mise una mano sulla spalla.
-Pensiamo a Bari.- propose.
Manfredi si erse in tutta la sua statura e annuì, girandosi verso la sua cotta in maglia posata su un forziere dallo scudiero.
-Sì, è scoccata l'ora di Bari.-

~

Giordano digrignò i denti e alzando un braccio grugnì:
-Avevi ragione, guarda.-
Manfredi restrinse gli occhi alla vista delle mura della città fatte fortificare negli ultimi giorni e dalle porte chiuse: il suo intuito non aveva sbagliato. A quanto pareva, i messi erano serviti solo per prendere tempo: Bari aveva deciso di ribellarsi e di combattere aspramente.
Fece cenno ai suoi uomini di porre l'assedio e nel frattempo mandò alcuni rappresentanti latori dell'ordine di aprire le porte per lasciare entrare pacificamente il reggente, nell'ultima speranza di evitare uno scontro.
-Sei certo sia la mossa migliore?- bofonchiò Giordano seguendo con occhio critico il manipolo di soldati che si avviava vero le mura.
-Siamo cavalieri e come tali dobbiamo comportarci.- rispose Manfredi con tono deciso. -Sempre, anche se dinanzi ci si presentano bifolchi.-
-Tu ti fidi troppo. Le intenzioni dei baresi mi sembrano sufficientemente ovvie.-
-Anche quelle dei foggiani e poi si sono pacificamente arresi. Non intendo uccidere i sudditi di mio fratello, se Dio mi aiuterà.-
Giordano digrignò i denti, tirò le redini per far girare la cavalcatura e gli si affiancò per guardarlo dritto negli occhi, prima di sussurrare:
-E sia. Sai bene che asseconderò ogni tuo capriccio, ma se devi rischiare la vita per…-
Urla improvvise costrinsero tutti a girarsi verso la porta della città, dove i messi furono ricevuti da una fitta coltre di frecce proveniente dalle bertesche. I soldati che li accompagnavano indietreggiarono, impreparati a quell'attacco che per i baresi rappresentava l'estrema difesa e il loro capitano, Hegano, spronò il cavallo, gridando:
-Dobbiamo ritirarci!-
-Che diavolo sta succedendo?- borbottò Giordano serrando le redini del cavallo, vedendo i soldati arretrare disordinatamente accompagnati da urla concitate.
Per un attimo nel campo regnò sovrano il caos, i soldati tedeschi che si preparavano alla fuga, i saraceni che circondavano Manfredi per proteggerlo, mentre i delegati cadevano ai piedi delle mura della città, trafitti dalle frecce. Manfredi fece in tempo ad alzare lo scudo per proteggersi da un dardo e in un solo istante vide il pericolo nitidamente: se fossero fuggiti, lasciando la vittoria ai baresi, le altre città, che guardavano a Bari come a un faro, si sarebbero sollevate nuovamente e l'opera di suo padre sarebbe andata persa.
-No, non ci pensare neppure!- esclamò Giordano immaginando cosa gli passasse per la testa.
Non lo ascoltò: in un baleno scese da cavallo, eludendo la sorveglianza dei saraceni, urlando con tutto il fiato che aveva in corpo agli uomini di non indietreggiare, sottrasse l'ascia a un soldato e, sotto le frecce che venivano scoccate dalle mura, si diresse impavido verso una porta. Con la forza della disperazione iniziò a colpire il legno massiccio che lo divideva dalla città, senza pensare al pericolo di morte che correva, mentre rimbombavano nelle sue orecchie le grida eccitate degli uomini sui bastioni che incitavano gli arcieri a ucciderlo. Corso al suo fianco, Teobaldo cercava in qualche modo di proteggerlo con lo scudo, mentre con la spada provava a deviare il corso dei dardi, urlando a Manfredi di ritirarsi. Anche Giordano li raggiunse, addossandosi con la schiena al portone per poter coprire Manfredi con il palvese, mentre si univa alle urla disperate di Teobaldo.
Vedere il loro giovane principe ergersi a campione contro i nemici, impavido e sprezzante del pericolo, scortato solo da Teobaldo e da Giordano, rianimò i cavalieri e i soldati che si erano già dati per vinti e urlando il loro grido di vittoria si precipitarono al suo fianco per aiutarlo a scardinare le porte.
Sotto nugoli di frecce, sdegnosi della morte, i suoi uomini gli fecero scudo con i loro corpi e in breve la porta cedette, sotto le urla di acclamazione dei ghibellini e quelle di rabbia dei guelfi.
Con occhi adamantini, corroborato dall’incredibile quanto inaspettata vittoria, Manfredi scambiò un’occhiata con Teobaldo e Giordano, quindi si avvicinò all'alfiere e, preso il gonfalone con le insegne imperiali, entrò nella città seguito dai suoi uomini. I ribelli si diedero alla fuga, mentre il resto della popolazione si arrese, temendo una rappresaglia.
Teobaldo si fece largo tra la folla e riportò il cavallo a Manfredi, che vi montò soddisfatto ma con l'usbergo macchiato di sangue.
-Mio Dio, cosa ti hanno fatto? Sei ferito?- chiese preoccupato Giordano, arrivando al suo fianco.
-Non è il mio sangue, bensì quello dei miei valorosi cavalieri che giacciono privi di vita dinanzi a questa porta. Da’ ordine di demolire le difese della città e fa' che tutti sappiano della nostra vittoria. Bari deve essere da esempio.-
-Sarà fatto!- esclamò e si allontanò di corsa, sparendo tra la folla.
Teobaldo comprese il monito insito in quelle parole: se Bari, la più forte città, era stata conquistata, le altre, se mai si fossero ribellate, non avrebbero avuto nessuna possibilità di successo. Con un sorriso di trionfo esclamò:
-Che vittoria!-
Manfredi abbassò lo sguardo per guardarlo, in piedi accanto al suo cavallo, quindi ordinò:
-Dai disposizioni affinché nessuno importuni la popolazione. Poi fai condurre una delegazione da me.-
Il ragazzo ubbidì e Manfredi, preso il mantello imperiale che gli porgeva un paggio, lo indossò e si avviò verso la rocca, circondato dalla sua coorte di saraceni.