domenica 29 marzo 2009

Roma vista da me

BENVENUTO CELLINI
(Firenze, 3 novembre 1500 - Firenze, 13 febbraio 1571)


Credo non ci sia nulla di più piacevole che andarsene in vacanza dopo un intero anno lavorativo, dimenticando le arrabbiature, le delusioni, le battaglie verbali con l'eccentrico, con il perfettino, con l'ignorante, con il saccente e con il prototipo del cafone romano. Sì, perché noi romani, quando ci mettiamo, sappiamo essere ignoranti e sgradevoli come pochi altri al mondo. Inutile illuderci. Allora, dopo un intero anno a combattere con gente simile, la vacanza sembra una vera manna dal cielo, un modo per ritemprarsi e fare rifornimento di buonumore per poter sopravvivere ad un altro anno di duro lavoro.
E' meraviglioso starsene su una barchetta a remi a crogiolarsi sotto il sole, sopra un lago piatto ed invitante, la mente vuota ed il cinguettio melodioso degli uccellini che corrobora lo spirito abbrutito dal caos cittadino. E poi, se decidi di fare un bagno rinfrescante, hai la possibilità di godere della fauna marina che pullula, vive e prolifica sotto la barchetta. E non solo la fauna: anche un uomo ormai in là negli anni, che se ne sta lì, sul fondale, accovacciato su uno scoglio sommerso, le braccia incrociate e l'aria bellicosa.
-Era ora.- esordisce acido. -E' da un bel po' che ti aspetto e tutta questa umidità non fa certo bene alle mie povere giunture.-
Sgrano gli occhi incredula e porto la mano alla maschera ed al boccaglio che indosso, prima di dire:
-Benvenuto Cellini?- e mi domando come diavolo faccio a comunicare con lui sotto la superficie del lago.
-Io, sì, in persona.- ribatte con tono burbero e cipiglio fiero.
-Ma… cosa ci fai qui?- domando sorpresa ed in quell'istante mi accorgo che è il mio pensiero a parlare, non io.
Lo sento borbottare qualcosa di inintelligibile, circondato da un branco di bellissimi pesciolini gialli e rossi, prima di bofonchiare:
-Aspettavo te. Chi altri?-
-Be', tutto ciò è alquanto lusinghiero e sono onorata di trovarmi al tuo cospetto…-
-Dacci un taglio, figliola e vieni al sodo: cosa vuoi sapere?-
Santo cielo! Ma allora è proprio vero che Cellini era scontroso, irascibile, attaccabrighe e violento, al pari del suo genio. Sì, perché nel Rinascimento italiano un solo nome si ergeva al di sopra di tutti gli altri in fatto di arte orafa: Benvenuto Cellini. E non solo orafo alla corte papale e coniatore della zecca, ma anche scultore, visto e considerato che ci ha lasciato in eredità un Perseo di mirabile bellezza.
-So che sei nato a Firenze, la città dei Medici, da un suonatore di flauto.- inizio, ignorando volutamente la sua maleducazione.
Fa una smorfia e con la mano scansa i pesci in malo modo, prima di controbattere:
-Discendo da un capitano di Giulio Cesare.-
Sorvolo su quell'affermazione inventata di sana pianta e continuo:
-Sei stato amico di Michelangelo, che tu hai sempre considerato un idolo ed un modello da seguire.-
Gonfia il petto come un attempato pavone e subito dopo dal naso gli escono migliaia di bollicine d'aria che provocano la mia ilarità.
-Quale amicizia, eh? Puoi vantare lo stesso?-
-No, purtroppo no.- rispondo alzando le spalle.
-A quel tempo, nella Signoria, si incontravano persone fuori del comune.-
-Non stento a crederlo. Ma tu a Firenze non ci sei rimasto a lungo.- faccio presente.
-Vero. Mi sono spostato a Roma non ancora ventenne, presso papa Leone X Medici, il quale mi ha preso a servizio come incisore della zecca e suonatore di flauto. Ma questo secondo mestiere lo facevo solo a ricordo di mio padre.- ammette con una certa riluttanza.
-Un bel lavoro.-
-Sì.- conviene con superficialità, osservandosi le punte delle dita. -Ero un genio: tutto ciò che toccavo trasformavo in oro. Un dono che nessun altro, nel corso dei secoli, è riuscito ad avere.-
-La modestia non è il tuo forte, vero?- replico con evidente sarcasmo.
Vedo le sue narici dilatarsi dall'ira e con stizza ribadisce:
-Checché tu ne dica, il mio era un dono che tu, sicuramente, non hai e mai avrai.-
-Un dono, sì, ma lo usavi male.- gli rammento, per nulla intimorita dalla sua arroganza. -Non facevi che giocare d'azzardo ed andare a donne, ignorando tua moglie, ed ogni volta avevi problemi con la giustizia.-
Lo vedo sbuffare con irritazione e portare una mano al fianco, in posa prosaica, l'aria meditabonda ed infine china appena la testa ed ammette:
-Era l'unico inconveniente che mi costringeva a cambiare repentinamente città. Ma a Roma sono sempre tornato. Il fascino dell'Urbe è irresistibile.- ammette annuendo.
-Ed a Roma stavi, durante il sacco del 1527.-
Lo vedo sogghignare strafottente e mi sistemo meglio la maschera sul naso per osservarlo più nitidamente. Quest'uomo, un genio nel far uscire dalla sua fucina monete, monili, medaglie, intarsi e via dicendo, era, tutto sommato, un mezzo delinquente, un furbacchione, un ladruncolo che si spacciava per erudito e che riusciva a farsi perdonare ogni marachella, ogni omicidio, ogni rissa grazie al tocco magico delle sue mani. Un novello re Mida.
-Sì, ero a Roma quando giunsero i lanzichenecchi di Georg von Frundsberg. Mi sono offerto di divenire artigliere del papa, Clemente VII Medici, ed è stato un mio proiettile, sai, ad uccidere il Conestabile di Borbone ed a ferire il principe Filiberto d'Orange.-
-Tu?- esclamo inarcando le sopracciglia.
-Io, sì!- ringhia furente, convinto che non gli credessi.
-Ottimo.- rispondo malleabile, per calmarlo. -Potevi ammazzarne altri, visto che c'eri.-
-L'ho fatto. Ho anche provato ad accoppare quel vecchio volpone del Frundsberg, ma non ci sono riuscito. Vedere Roma devastata da quell'orda barbarica… Ah, quale atroce spettacolo!- esclama con un gesto della mano.
-Comunque, papa Clemente ti nominò mazziere in seguito al tuo servigio e sei rimasto a Roma fino…-
-Fino a quando,- conclude per me, -il papa si è accorto che facevo la cresta sull'oro destinato alla zecca e sostituivo i metalli buoni con quelli vili e falsificavo le monete e via dicendo.-
Sgrano gli occhi dinanzi alla sua ammissione e chiedo:
-E' vero?-
-Certo.- risponde fiero. -Per questo, dopo che il papa mi aveva condannato a morte, ingiustamente secondo me, sono fuggito a Napoli, presso una delle mie amanti. Ma poi, al cambio di papa, sono rientrato nell'Urbe, per poi fuggire di nuovo a gambe levate, riparando in Francia presso re Francesco.-
-Il munifico Francesco I?- ripeto incredula.
-Lui, proprio lui, quel gigante in persona.- borbotta, in qualche modo contrariato dal ricordo.
-Era davvero così alto?- m'informo curiosa.
-Altissimo. Suppongo arrivasse a due metri; non ho mai più visto un uomo simile in vita mia.- risponde pensieroso, grattandosi il mento barbuto.
-E poi?- domando, conquistata dalla sua vita avventurosa ed irriverente.
-E poi… I francesi, quei bastardi di prima categoria, non mi hanno trattato affatto bene ed io ho rifatto fagotto e sono tornato a Roma.-
-Roma… Sempre Roma.-
-Eh, che vuoi…- sospira malinconico. -La città eterna era la mia gallina dalle uova d'oro. Il guaio è che la stessa gallina si è arrabbiata e mi ha rinchiuso in Castel S. Angelo per una… sciocchezza commessa durante il sacco del '27.-
-Una sciocchezza?- ripeto chinando appena la testa per sbirciarlo di sottecchi, maledicendo l'acqua che non mi fa vedere le giuste proporzioni.
-Mi accusarono di aver rubato nelle casse. Tst! Che taccagni!-
-Ci risiamo.-
-Erano trascorsi tanti anni, undici per l'esattezza ed io non ci pensavo più. Ovvio, non trovi? Ma, a quanto pare, qualcun altro ci aveva pensato al posto mio, rimuginando ed aspettando il momento favorevole.- commenta acido. -Quel Pier Luigi Farnese ce l'ha sempre avuta con me, bastardo pusillanime!-
-Suppongo avrà avuto i suoi validi motivi.- borbotto.
Mi fissa a lungo, con sguardo truce ed istintivamente deglutisco, ammonendomi di non commettere altri errori.
-E poi dicono a me che sono scontroso!- sibila.
Provo, per quanto l'acqua me lo concede, a fare un gesto di scusa per non irritarlo maggiormente e continuo con noncuranza:
-Allora? Ti hanno rinchiuso.-
-Sì. E lì ho bestemmiato, ho urlato, ho pregato ed alla fine ho tentato la fuga. Volevo emulare il gesto di Cesare Borgia quando è riuscito a fuggire dalla rocca della Mota: a lui andò bene, a me no. Mi calai con le lenzuola annodate, ma caddi e mi ruppi una gamba.- ricorda scuotendo la testa canuta.
-Ed è stato allora che, dopo aver scontato il fio, sei tornato in Francia.-
-Sì, e stavolta accolto con tutti gli onori. Ma il mio caratteraccio mi ha ributtato in mezzo ai problemi e sono stato costretto a far di nuovo fagotto e tornare di gran carriera a Firenze. E' stato allora, presso il duca Cosimo de' Medici, che ho creato il Perseo. Oh, ma a Roma ci sono tornato un'ultima volta, ammaliato dalla sua eterna bellezza.-
-Ma poi sei ritornato definitivamente a Firenze, quando, in un impeto di espiazione, hai preso gli ordini e ricevuto la tonsura.-
China la testa ed annuisce mestamente.
-Ho trascorso la vita intera nella sregolatezza, nella violenza, nell'imbrogliare il prossimo e nel maltrattare le mie mogli e le mie amanti. Avevo cinquantotto anni quando ho preso i voti e mi sono messo a scrivere la mia vita. Non mi sono pentito della scelta fatta. Alla fine, dopo tanto vagare alla ricerca di me stesso, ho trovato la pace ed il conforto nella Fede.-
-Sei stato un rivoluzionario ante litteram.- commento.
Alza le spalle, come se la cosa non lo interessasse minimamente ed un pesce gli passa davanti agli occhi perspicaci ed attenti.
-Addio, figliola. Auguro anche a te di riuscire a trovare te stessa. E se, per caso, in questo tuo girovagare tra le anime del passato, incontrassi il Frundsberg, porgigli i miei più calorosi saluti.-
Rimango letteralmente spiazzata e lo fisso attonita, comprendendo che il vecchio detto ha un fondo di verità: il lupo perde il pelo ma non il vizio. Ed è con perplessità che mi allontano nuotando, chiedendomi se, tutto sommato, il genio immorale quanto inimitabile che risponde al nome di Cellini, non abbia ragione.

venerdì 20 marzo 2009

Roma vista da me

CLAUDIO CESARE NERONE
(Anzio, 15 dicembre 37 - Roma, 6 aprile 68)


E' buio ed io vago per il Colosseo illuminato a giorno dai riflettori, come una qualsiasi turista, immaginando i giochi, le battaglie, le grida, il sangue che i secoli hanno cancellato, lasciando solo il ricordo di un'opera mastodontica e di sicura invidiabile bellezza. I gatti sono ora i padroni indiscussi e nei loro dolci miagolii riecheggiano i ruggiti di leoni, tigri e leopardi che un tempo vi soggiornavano e vi banchettavano.
-Se solo avessi potuto cantare qui…-
A quelle parole improvvise mi fermo e mi giro, fissando quel volto largo, non particolarmente bello, che risplende alla luce dei riflettori. Se ne sta lì, seduto come poteva esserlo un semplice romano dell'epoca e lo sguardo gli brilla di malinconica eccitazione. Esito, nonostante tutto timorosa, ben conoscendo la sua indole crudele e rimango a debita distanza.
-Non è questo il tuo posto, Nerone.- gli faccio notare. -Gli imperatori sedevano laggiù.- ed ammicco verso il palco.
Lui scuote la bionda testa e ribatte, come se neppure avessi parlato:
-Se solo questa meraviglia fosse esistita ai miei tempi, non me ne sarei andato in Grecia per recitare, cantare e partecipare ai ludi equestri.-
E' vero, conosco queste sue passioni e so bene pure che, se solo chicchessia avesse osato vincere una gara canora al suo posto, lo avrebbe fatto uccidere seduta stante. Quando recitava o scendeva in pista come auriga, pretendeva di vincere anche se arrivava ultimo e tutti l'avevano capito a menadito dopo i primi morti.
Mi guardo attorno, per accertarmi che i turisti non lo vedano e faccio cautamente un passo verso di lui. In mano ha la lira e di tanto in tanto pizzica una corda, creando una straziante melodia.
-Il nipote di Caligola.- commento. -L'ultimo della stirpe Giulio-Claudia.-
-L'ultimo folle…- sogghigna ironico.
-Io non ci credo. Non ho mai creduto che tu abbia deliberatamente incendiato Roma nel 64.-
Quella affermazione cattura la sua attenzione e posa i suoi occhi inquietanti su di me, incutendomi un sano terrore.
-Non l'ho fatto, difatti. Quando l'incendio divampò io ero ad Anzio, la città che ha visto i miei natali… ma non per questo me ne sono dispiaciuto.- ammette con aria birichina.
-Ah, no?- ripeto allibita, tenendo a freno l'ira che in un solo secondo mi ha incendiato il cuore.
-No. Desideravo l'Urbe più bella di come era diventata e dopo l'incendio l'ho fatta riedificare in pianta diversa, aggiungendoci la mia bellissima Domus Aurea. Una delizia per gli occhi, non sei d'accordo?-
-Un tocco di megalomania.- sottolineo. -Però, indubbiamente meravigliosa.- concedo.
Mi guarda, studiandomi dalla testa ai piedi e sotto quello sguardo acuto mi innervosisco. Così, per evitarlo, mi siedo su uno scalino accanto a lui, mantenendo una certa distanza di sicurezza. Non so, ma di quest'uomo rubicondo non mi fido abbastanza.
-Tutti, però, hanno sempre pensato che la colpa fosse tua.-
-Se colpa ho avuto, è stata quella di dire pubblicamente che avei voluto radere Roma al suolo per riedificarla. Non si può condannare un uomo solo per quello che proferisce.-
Avrei molto da ribattere su quell'affermazione, ma lascio perdere, ricordando chi ho di fronte e che ruolo ha ricoperto e borbotto:
-Ma tua è stata la colpa di punire i cristiani come rei dell'incendio.-
Alza le spalle con indifferenza e borbotta:
-Non conoscevo questi cristiani; sapevo solo vagamente della loro esistenza e mi è parsa la giusta mossa per far sfogare il rancore del popolo dopo il rogo che ha distrutto le case. Qualcuno doveva pur pagare, no? E chi meglio dei remissivi cristiani poteva essere innalzato a capro espiatorio? A chi vuoi che importava?-
Rimango allibita e senza parole e la mia espressione deve avere un qualcosa di buffo, perché lui si mette a ridere con spregio, lasciandomi chiaramente capire come la pensassero, all'epoca, sulla religione che stava piantando solide radici per divenire mondiale. Scuoto la testa e lo vedo che torna a pizzicare le corde, intonando una canzone in voga ai suoi tempi: tutto sommato, devo riconoscere che non ha una brutta voce.
-Tua madre era Agrippina minore, la sorella di Caligola.- inizio.
Al solo nominare sua madre, si scurisce in volto, smette di cantare e mi fissa con astio, come se avessi appena attentato alla sua vita.
-Già.- biascica ed il suo tono mi sorprende. -E' stata lei a spianarmi la strada per divenire imperatore, affiancandomi Seneca come consigliere.-
-I primi anni sei stato un buon sovrano.- ricordo.
-Sì, ma poi il rifiuto di mia madre a concedermi di divorziare dalla mia prima moglie Ottavia, mi ha irritato a tal punto che l'ho esiliata.-
-L'hai anche fatta uccidere dai tuoi pretoriani.- aggiungo.
Fa' un gesto di insofferenza, come se il ricordo lo infastidisse ancora dopo tanti secoli e spiega:
-Sono salito al potere a diciassette anni e lei ha guidato le mie azioni con l'appoggio di Seneca, fino a farmi soffocare. Era invasiva fino all'inverosimile, tanto da giungere ad offrirsi a me, suo figlio, purché non divorziassi da Ottavia.-
Sgrano gli occhi ed inorridisco al solo pensiero e vedo che anche lui scuote la testa con rassegnazione.
-Non capirò mai,- conclude meditabondo, -perché non volessi che sposassi Poppea.-
-La Poppea che hai ucciso tirandole un calcio in grembo, dove cresceva tuo figlio?-
Chiude gli occhi ed inspira a fondo ed un velo di malinconia lo sfiora, rendendolo quasi umano.
-Ho amato molto Poppea ed ho sofferto enormemente per la sua perdita. In seguito, errando come un pazzo per le vie dell'Urbe invocando il suo nome, mi sono imbattuto in Sporo, un giovane che le somigliava tantissimo. L'ho sposato dopo averlo fatto castrare.-
-L'hai sposato?- ripeto come se non avessi ben capito ed il tono aspro della mia voce sorprende me stessa.
Riapre di scatto gli occhi e mi fissa con evidente astio.
-Sì, l'ho sposato, e allora? E dopo di lui ho sposato Statilia Messalina.-
-"Quella" Messalina?-
-Ma no!- esclama facendo un gesto di stizza con la mano. -Quella era la quarta moglie di Claudio. Noto che hai un po' di confusione in testa.-
-Be', con nomi uguali… Ma tu,- riprendo cambiando discorso, -alla fine hai esiliato pure Seneca, prendendoti Tigellino come amico e consigliere.-
Lo sento grugnire qualcosa e dalla sua lira parte un suono stridulo che mi fa serrare i denti prima che cadano a pezzi.
-Bell'affare feci.- commenta acido. -Mi ha fatto credere di essermi amico e poi mi ha tradito. La prima congiura per uccidermi è costata la vita a Calpurnio Pisone, Lucano, Petronio e lo stesso Seneca. Via,- conclude con tono spicciativo, facendo un gesto eloquente con la mano, -morti tutti per aver osato alzare la mano armata su un dio.-
-Tu?- insinuo mordace.
-Io, sì.- sibila minaccioso, puntandomi addosso due occhi fiammeggianti. -Non digerivo granché l'idea che a qualcuno piacesse vedermi morto. Ero giovane e non gradivo divenire cibo per far banchettare i vermi.-
-Ma li hai rimpinzati a dovere con la carne di tutti coloro che hanno provato a ribellarsi alla tua monarchia assoluta.-
-E dunque?- mi sfida ergendosi fin dove possibile stando seduti. -Non vedo dove sia il problema.-
Rimango sconcertata, apro la bocca per replicare, quindi la richiudo di scatto e dopo un po' ripeto:
-Già. Nessun problema.-
Il mio tono non deve fargli molto piacere, poiché restringe gli occhi perigliosamente, fissandomi a lungo da sotto le ciglia bionde.
-Tu, figliola, non hai buon animo verso di me.- commenta.
Sorrido e mi rialzo, volgendo l'attenzione ai turisti che, ignari, ci passano accanto sfiorandoci senza vederci.
-La tua condotta immorale e violenta non ha mai influito sull'amministrazione pubblica e questo va a tuo vantaggio.-
-A mio vantaggio pure il fatto che il popolo non ha voluto credere alla mia morte e che ha sempre sperato nel mio ritorno.- aggiunge alzando l'indice come un maestro che sta spiegando una lezione.
-Vero.- concedo. -Ma il senato ed i pretoriani ti odiavano e ti hanno isolato, condannandoti a morte.-
Si scurisce in volto, quel volto massiccio e duro e digrigna i denti sibilando furente:
-Quel fedifrago di Tigellino… Mi ha tradito, quel bastardo!- ripete ed io mi accorgo che la cosa gli rode ancora l'anima.
-Non mi risulta sia mai stato uno stinco di santo.- gli faccio notare con condiscendenza. -Avresti potuto essere un po' più oculato nello sceglierti gli amici.-
Sogghigna, lo sguardo perso nel vuoto, in un periodo lontano che io non vivrò mai e mormora:
-Non gli ho dato la soddisfazione di uccidermi: l'ho fatto da solo.-
-Come un vero commediante. Così come hai vissuto.-
-Hai paura della morte?- mi domanda a bruciapelo, scrutandomi fin dentro l'anima.
-Sì.- non esito a rispondere. -Come tutti, del resto.-
-Io non ho avuto timore.- risponde gonfiando il petto.
Inarco le sopracciglia, ricordando che la paura l'aveva trattenuto dal pugnalarsi da solo e che era stato aiutato da un liberto suo amico; ma non ribatto, lascio che si crogioli in un ricordo affievolito dal tempo, un ricordo che gli fa credere di essere stato migliore di quanto in realtà fosse stato.
-Quindi, deduco che tu abbia avuto a cuore Roma.- commento cambiando discorso.
Con un gesto della mano mi mostra il Colosseo ed il suo volto si illumina.
-Tu non l'hai a cuore?- rimanda. -Per Roma ho sopportato che la Storia mi bollasse come piromane, quando in realtà ho portato solo migliorie. Ma, si sa, la Storia la scrivono i vincitori ed io, purtroppo, ne sono uscito vinto.-
Lo studio a lungo, mentre riprende a pizzicare le corde della lira ed intona una canzone dolce, che non comprendo e mi rendo conto che quest'uomo, tutto sommato, è stato sì crudele nella sfera affettiva, ma che nei romani ha lasciato un senso di vuoto e di rimpianto che noi, romani di oggi, stentiamo a comprendere e non è un caso se la sua tomba è rimasta sempre coperta di fiori, a dispetto dei congiurati ed a testimonianza dell'affetto di un intero popolo.

venerdì 13 marzo 2009

Roma vista da me

GAIO CESARE GERMANICO (Caligola)
(Anzio, 31 agosto 12 - Roma, gennaio 41)


Mi lascio alle spalle la rocca del Sangallo e mi avvio sul lungomare della mia città natale, la cittadina che, insieme ad Anzio, ha visto sbarcare gli alleati per giungere a liberare Roma in breve tempo: Nettuno. L'odore della salsedine mi avviluppa e ricordo i giorni della mia prima infanzia, quando andavo a giocare nel cimitero americano, oppure quando mi soffermavo a fissare inquieta la salma di S. Maria Goretti. A distanza di anni mi sembra tutto molto più piccolo e rimango a guardare il mare, spingendo lo sguardo all'orizzonte, dove svolazzano i gabbiani. Le loro strida mi riportano alla mente le albe trascorse in braccio a mio padre, quando mi portava a respirare lo iodio perché, dicevano, mi faceva bene ed è in quel momento che vedo il lampo cadere sull'acqua ed in mezzo ai frangiflutti apparire questa figura alta, bella, la testa circondata dalla corona di alloro che nasconde una incipiente calvizie, la toga virile che fascia la sua notevole corporatura.
Mi irrigidisco alquanto, consapevole di trovarmi dinanzi ad uno degli uomini più crudeli della Storia, o almeno così si dice, e provo ad aprire bocca, ma il terrore mi inchioda e riesco solo a deglutire. Lui se ne accorge e piega le sue labbra sottili in un sogghigno divertito.
-Non intendo aggredirti.- inizia ed il tono sottile contrasta con la sua corporatura possente.
-Tu… Tu sei Gaio Cesare Germanico.-
-Precisamente. Ma tutti mi conoscono con il nomignolo affibbiatomi dai legionari di mio padre: Caligola.-
-E… perché?- continuo a balbettare, malgrado tutto ancora timorosa e diffidente.
Alza le spalle con disinteresse e risponde:
-Mia madre mi costringeva ad indossare la divisa dei legionari che ai piedi calzavano le calighe. Da qui il nomignolo. Non mi è mai piaciuto, ma tale sono passato alla Storia.-
-Non ti piaceva?-
-A te piacerebbe essere chiamata scarponcina?- ribatte con tono sferzante.
Sussulto spaventata, ma mi accorgo che è solo indignato e posso ben capirlo.
-Sei dura di comprendonio?- riprende sarcastico. -Ti ho già detto che non ho intenzione di aggredirti. I veri assassini sanguinari sono nati e vissuti nel ventesimo secolo, mandalo bene a mente. Non vanto i venti milioni di morti che ha seminato Stalin e neppure i sei di Hitler.-
-E' che… La Storia ti ha dipinto a fosche tinte.- mi difendo.
Porta le mani sui fianchi, esasperato, quindi esce dai frangiflutti e mi si avvicina. Fa qualche passo sul bagnasciuga e si china per prendere una manciata di sabbia che poi mi mostra.
-Questa rena ti ha visto crescere.- inizia. -Ed ha visto crescere me poco più in là, ad Anzio. Ti sembro così cattivo?-
Lo studio a lungo in quegli occhi grandi ed infossati, in quel volto ovale dai lineamenti gentili e dolci e mi rassereno alquanto, rispondendo:
-No, non mi sembri così cattivo.- ammetto.
Mi sorride ed il suo volto si illumina, rivelandolo per quello che era: un uomo sicuro di sé, gaudente, sagace ed estremamente pungente e sprezzante.
-E' vero, mi hanno dipinto come un folle, uno schizofrenico, un degenerato ed un assassino ed a mia discolpa posso solo dire che Svetonio, Dione e Seneca mi odiavano a sufficienza per lasciare ai posteri i loro scritti contro di me. Ma, se vai a vedere bene, non ho fatto nulla di più e nulla di meno di quello che avevano fatto i miei predecessori ed avrebbero fatto i miei successori. Io ho ereditato un impero all'età di venticinque anni, un impero difficile da governare.-
-Sbaglio, o tu sei stato il primo imperatore che è salito al potere non per adozione ma per sangue patrizio?-
-No, non sbagli. In me si fondevano per la prima volta le due grandi famiglie patrizie romane: Giulia e Claudia. Mia madre Agrippina era la pronipote di Augusto, mentre mio padre Germanico era discendente di Tiberio e Livia.-
-Possiedi anche un altro primato poco invidiabile: quello di aver iniziato le persecuzioni dei cristiani.-
Alza di nuovo le spalle, come se la cosa non lo interessasse minimamente e risponde:
-Il popolo amava i giochi, allora come ora. I romani adoravano vedere gli uomini sbranati dalle belve. Io ho semplicemente ridato i ludi alla città, dopo il governo insipido, piatto e puritano di Tiberio.-
Faccio una smorfia, disgustata, e ribatto:
-Sarà stato anche insipido e puritano, ma di certo lui non giaceva con le sue sorelle.-
-Io ho amato oltremodo Drusilla.- risponde con tono vibrante, -Non ci trovo nulla di male nell'amare la propria sorella.-
-E le mogli dei tuoi amici?-
-Tanto meno.-
-Tu hai amato un po' troppe persone.- insinuo melliflua. -Cosa mi dici dell'attore Mnestre, o di Valerio Catullo, o anche solo di tuo cognato Marco Emilio Lepido?-
-E dunque?- ribatte drizzando le spalle. -Lepido, quel fedifrago, ha persino congiurato contro di me. Me, che ero un dio e che potevo permettermi di esserlo. L'ho fatto giustiziare.-
-Un dio?-
-Certo, mia cara. Ho persino dato ordine di far costruire una mia statua dentro il tempio di Gerusalemme. Ma l'intervento di Agrippa mi ha fatto desistere. Come potevo non dar retta al mio mentore?-
-Mentore?- rimando inarcando le sopracciglia. -Ora si dice così?-
-Sei impertinente e maleducata!- scatta rabbioso, gli occhi imperiosi che mandano scintille. -Se mi fosse ancora concesso, ti farei mozzare la lingua.-
-Così come avresti voluto spellare Apelle?-
A quelle parole si irrigidisce appena, quindi scoppia a ridere di gusto e si trattiene la corona di alloro per non farla cadere.
-Oh, sì, quello! Ancora non hai capito? Era solo un gioco di parole ed io amavo giocare con le parole.-
-E il tuo cavallo, Incitato? Lo hai fatto senatore.-
La sua risata cristallina mi lascia perplessa ed istintivamente lo studio un po' meglio, per vedere se per caso non mi è sfuggito qualcosa.
-Sono stata divertente?- commento acida, incrociando le braccia al petto.
-No, ma hai avuto il potere di farmi ricordare la faccia dei senatori quando ho fatto presente il mio desiderio di nominare loro pari Incitato.-
-Indignati?- suggerisco.
-Ed offesi! Quei tronfi pavoni che sapevano solo blaterare senza mai giungere ad una conclusione! Ho semplicemente voluto dargli una lezione: il mio cavallo sarebbe stato più intelligente di loro e sicuramente meno corrotto.-
-Quindi, era solo uno scherzo?- domando dubbiosa.
-Ovvio! Ogni cosa dicevo veniva sempre travisata, come quando ho appellato Livia "Ulisse in gonnella" e questo non ha fatto altro che alimentare le dicerie sulla mia follia. Ma io ero come mia madre e mia nonna: avevo la lingua tagliente e ne facevo largo uso, non perdendo occasione per fare battute.-
-Peccato che coloro che ti stavano intorno non l'hanno capito.- replico.
-Sì, un vero peccato. Non era colpa mia se ero pungente, sarcastico ed estremamente arrogante.-
-A parte questo, io so che hai comunque amato molto Roma.-
Allarga le braccia e sorride, apparendo bellissimo.
-Chi non l'amerebbe? Durante il mio principato ho fatto in modo da consolidare il potere di Roma più che espanderlo. Ritenevo fosse più prudente poggiare su solide fondamenta.-
-So che hai anche affrontato il problema della manutenzione delle strade.-
-Mi sembrava lapalissiano. Noi romani siamo stati famosi per le nostre strade che si snodavano per l'intero impero ed io non sopportavo che andassero in malora.-
-E' vero che hai ampliato la rete idrica a Roma?-
-Verissimo. Feci costruire due nuovi acquedotti, l'Acqua Claudia e l'Anio Noves, entrambi portati a termine dopo la mia morte.-
-Ti sei preoccupato anche della pulizia dell'Urbe.-
Gonfia il petto e si liscia la tonaca virile.
-Pur di far bella Roma, ho ricoperto di fango un addetto all'edilizia, per fargli capire cosa intendessi per pulizia. E lui lo capì talmente bene che, quando divenne imperatore con il nome di Vespasiano, si è ricordato della lezione ricevuta. Tutto merito mio, non credi?-
Ne convengo ed inizio a credere che davanti a me non ci sia un folle, ma una persona intelligente e sarcastica, che sa cogliere il lato umoristico in ogni occasione.
-So che ti piaceva travestirti.-
-Sì, fin da piccolo. La mia passione, dopo la corsa dei cavalli, era il teatro. Spesso intervenivo nelle rappresentazioni, mascherandomi e recitando insieme agli attori. Il mio migliore travestimento era Alessandro Magno.-
-Ma, oltre alle corse dei cavalli ed al teatro, si dice che amavi i combattimenti nelle arene.-
Arriccia il naso ed annusa l'aria salmastra, chiudendo un attimo gli occhi.
-I ludi circensi erano un vero spettacolo. Hai mai assistito?- indaga.
Rabbrividisco involontariamente e scuoto la testa.
-Male, ragazza, male. Noi romani ne andavamo fieri ed orgogliosi. I gladiatori erano un portento della natura. Un giorno mi capitò di assistere ad un incontro singolare.-
Rimango in silenzio e lo fisso a lungo, mentre il suo sguardo si vela di ricordi e le sue labbra si piegano in un dolce sorriso. Con tono pacato, riprende:
-Mentre un certo schiavo Androclo era al centro dell'arena, il leone che avrebbe dovuto sbranarlo si mise a leccarlo ed a fargli le moine come un grosso gattone. Ho poi saputo che la bestia aveva riconosciuto l'uomo che, tempo prima, gli aveva tolto una grossa spina dalla zampa che gli causava forte dolore. Quale magnifica riconoscenza!-
-Ma… Ma è vera?- balbetto allibita. -Questa storia è vera?-
-L'ho veduta io, con i miei occhi.-
-Deve essere stata una scena entusiasmante.-
-Spettacolare.- ammette. -Ho liberato sia lo schiavo che il leone.-
-Nobile gesto.- commento iniziando a guardarlo sotto una luce diversa.
Lui sorride ed all'improvviso allunga la mano e mi scarmiglia i capelli, facendomi impallidire.
-Un tempo, ti avrei costretto a tagliarli rasati.- ammette.
-Solo perché tu ne eri privo?- ribatto.
-Una idiosincrasia che è costata cara a molti.- ammette. -Ma io ero l'imperatore e come tale mi consideravo un dio.-
-Un dio che però è morto sotto i colpi di pugnale.-
Sospira e scuote la testa bionda. Ancora mi chiedo come facessero gli antichi a considerarlo brutto e privo di attrattiva. Ma il giudizio era stato dato da coloro che lo odiavano e volevano ad ogni costo porlo sotto una luce crudele e sanguinaria. I senatori che lo hanno ucciso, non si erano aspettati che il popolo piangesse la sua dipartita.
-Anche gli dèi tendono a morire.- commenta. -Solo il vostro Dio non muore mai. Pretenzioso, non trovi?-
Non replico, consapevole che mi sta stuzzicando di proposito, provocatorio come sempre, e con un sorriso mi saluta, tornando nei frangiflutti da dove era apparso. Esito un solo istante e lo richiamo:
-Gaio!-
Si ferma e volta appena la testa, sbirciandomi da sopra la spalla.
-Vedi? Tu ed io saremmo andati d'accordo. Se solo anche gli altri mi avessero compreso…-
Gli sorrido senza più timore ed istintivamente mi inchino, riconoscendo la sua natura divina. Lo vedo annuire lentamente e prima di svanire mi lancia la sua corona d'alloro. La raccolgo e la osservo a lungo, prima di portarla sul cuore e sospirare appena.

lunedì 9 marzo 2009

Roma vista da me

ROMOLO
(771 a.C.- 717 a.C.)


E' proprio vero: noi romani amiamo così tanto la nostra città che quasi ci dimentichiamo che esiste. Noi, esseri uniformi, stereotipati, viventi del XXI secolo, non ci rendiamo conto di dove posiamo i piedi ogni qualvolta muoviamo un passo. Dire che sotto di noi esistono tremila e più anni di Storia sembra riduttivo, ma tant'è e non è un caso se a Roma le metropolitane sono solo due e sempre affollate come carri merci: prova tu a scavare sopra tremila anni di Storia e poi ne riparliamo. Ad ogni centimetro scopri insediamenti, fossili, ossa, statue, ciotole e via dicendo che, venendo alla luce, ci guardano con un'aria come dire: ma tu che puoi saperne?
Eh, già. E' proprio così che mi sento mentre, girovagando tra i maestosi Fori Imperiali, d'improvviso il sole sparisce ed un forte vento di scirocco mi costringe a chiudere gli occhi ed a ripararmi in qualche modo. Ed è allora che lo vedo, con una tunica legata in vita, le gambe muscolose che s'intravedono da sotto il gonnellino e rimango incantata a fissarlo. Il suo sguardo fiero e deciso mi trafigge come un dardo e mi rendo conto di avere ancora gli occhi chiusi.
-No, non aprirli, tanto mi vedi lo stesso.- mi dice con tono di comando.
Gesù mio, non posso crederci: è lui, Romolo, il nostro fondatore, che se ne sta lì, davanti a me, fiero ed altero proprio come un re o, se preferite, come un dio. Deglutisco sentendomi una nullità al suo cospetto e mormoro:
-Salute a te, divino Quirino.-
Lo vedo fare un gesto stizzoso con la mano prima di ribattere:
-Falla finita. Sono Romolo, punto e basta.-
-Ma… Ma dopo il tuo trapasso, i romani ti hanno elevato agli onori degli altari con il nome di Quirino e ti hanno venerato per secoli con questo appellativo.-
-Sciocchezze. Sono morto e basta, come un qualsiasi altro uomo.-
-Ma tu sei Romolo…- insisto puerile.
Lo vedo alzare gli occhi al cielo e rivolgere una preghiera a qualche dio pagano ed io mi metto a ridere, notando la sua espressione buffa.
-Ma è vero,- chiedo curiosa, -che tu e tuo fratello avete ucciso vostro zio Amulio e riportato sul trono vostro nonno Numitore?-
-Tu cosa avresti fatto? Non solo quell'essere spregevole ha ucciso mia madre e tentato di eliminare me e mio fratello, ma aveva distrutto la mia intera famiglia pur di salire al trono. Quando io e Remo siamo venuti a saperlo, abbiamo fatto sì che le cose si riaggiustassero. Tutto qui.- conclude come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Per un attimo rimango sovrapensiero, cercando con la mano di trattenere i capelli che il vento mi ributta costantemente in faccia, quindi mormoro:
-Ma allora, eri comunque destinato a divenire re, re di Alba, appena tuo nonno avesse reso l'anima a Dio.-
-Dio? Quale dio?-
Sospiro ed allargo le braccia, borbottando:
-Fa' un po' tu.-
Lo vedo grattarsi il mento meditabondo ed il suo sguardo incupirsi.
-Sì, certo, re di Albalonga. Ma c'era anche Remo.-
-Chiaramente un neo da estirpare.- commento mordace.
Lui digrigna i denti e reprime uno scatto d'ira, dichiarando lapidario:
-Se l'è cercata.-
-La morte?- domando scettica.
-Sapeva benissimo quali erano i patti, ne avevamo discusso a lungo. E li ha infranti.-
Sbuffo spazientita e chiedo sarcastica:
-E com'erano questi patti impossibili da infrangere?-
Mi si avventa quasi contro, con sguardo furioso e sibila come una scudisciata:
-Non usare condiscendenza nei miei riguardi, ragazzina.-
Rimango sbigottita, il cuore che mi arriva in gola per lo spavento e mi accorgo di essere diventata di granito. Be', la grinta non gli fa difetto. Lo vedo raddrizzare fieramente le spalle ed inspira a fondo, prima di ricominciare:
-E' presto detto: visto che in due non ci era possibile comandare, abbiamo deciso di fondare una città sul colle Palatino. Lui insisteva per fondarla sul colle Aventino, portando a pretesto che il Palatino fosse sacro agli dèi, io proprio per quello. Per questo, per decidere chi dei due avesse ragione, ci siamo accordati per una paziente attesa.-
Chino di lato la testa, con una muta domanda nella mia espressione e lui continua:
-Abbiamo atteso per un intero giorno che passassero gli avvoltoi in cielo. Chi più ne avesse avvistati prima del calare del sole, avrebbe scelto il luogo della fondazione e sarebbe diventato re. Era il 21 aprile del 753, non lo dimenticherò mai. Ero giovane, all'epoca.- ricorda, lasciandosi andare per una frazione di secondo alla nostalgia. -Orbene,- riprende con tracotanza, -lui ne ha avvistati sei, io dodici, proprio sul limitare del tramonto. Pertanto, lascio a te indovinare chi abbia vinto.- conclude con sarcasmo.
Incrocio le braccia al petto e porto il peso del corpo su un solo piede, in segno di sfida. In quell'attimo, alle spalle di Romolo, appare un altro giovane che non stento a riconoscere come l'altro gemello, il quale interviene precisando:
-Dodici, sì, ma dopo il tramonto.-
-Prima del tramonto.- ribatte Romolo con decisione.
-Dopo.-
-Prima!-
-Un momento!- intervengo alzando di un tono la voce, cercando di fare da paciere. -Non è questo che conta. Conta il fatto che l'episodio vi ha resi nemici e vi ha condotti al fratricidio.-
Remo sogghigna ed indicando il fratello lo accusa:
-Ti sei sporcato le mani con il tuo stesso sangue solo perché ho oltrepassato il solco della tua città quadrata.-
Inviperito, Romolo fronteggia il fratello e ribatte:
-Hai osato attraversare un solco dichiarato sacro ed inviolabile dall'oracolo. Ti sei fatto beffe degli dèi e sapevi benissimo a cosa saresti andato incontro. Potevi rimanertene tranquillo sull'Aventino a fondare la tua città, invece sei stato invidioso e mi hai portato ad ucciderti!-
-Ma sentitelo! Ora l'assassino accusa l'assassinato di essersi lasciato assassinare!-
-Sparisci dalla mia vista, profano!-
-Basta!- intervengo ponendomi tra i due e li guardo uno ad uno negli occhi, quindi Remo abbozza un sorriso e svanisce così come era apparso, facendomi un cenno di saluto con la mano. Rimango a fissare Romolo, sempre tenendo gli occhi chiusi, e domando:
-Eravate sempre così bellicosi?-
-Ti potrà apparire strano, ma io ho voluto bene a Remo, fino a quando ha compiuto quel miserabile gesto, in spregio agli dèi. Come re, non ho potuto chiudere un occhio solo perché si trattava di mio fratello. Se l'avessi fatto, avrei creato un precedente e chiunque si sarebbe ritenuto in diritto di scavalcare il solco inviolabile e penetrare nell'Urbe.-
Esito un attimo, cercando di capire il suo punto di vista e borbotto:
-La ragione di stato.-
-Ecco, brava. I sentimenti non c'entrano nulla.-
Scuoto la testa, ben contenta di non fare parte di quella schiera di regnanti e potentati che, per ragioni politiche, hanno dovuto sacrificare i propri sentimenti. Il cinismo non è mai stato il mio forte, ma pare che tutti i grandi ne abbaino avuto a iosa. Buon per loro e poveri loro.
-Tu ed i tuoi uomini, però, eravate privi di donne, o, comunque, ne avevate pochissime e, per fondare e far crescere una città, occorrono le donne per procreare.-
-Sì, è vero. Per questo motivo ho escogitato un piano, in barba alla sacralità dell'ospitalità.-
-La ragione di stato.- commento rassegnata.
-Proprio così. Le sabine erano un bocconcino appetitoso e con la scusa di giochi equestri ho invitato il loro re, Tito Tazio, a festeggiare la nascita di Roma. Lui è venuto, beato e contento e si è portato dietro gran parte della popolazione patrizia.-
-Non hanno sospettato nulla?-
-Assolutamente. Avevo dato ordine ai miei uomini di rapire le più giovani, quelle che sicuramente non erano sposate. Ma c'è stato un errore, uno solo: Ersilia, la donna a me destinata.-
-Era già maritata?-
-Purtroppo sì. Ma l'ho voluta comunque. Era troppo bella per rimandarla indietro solo per quella… sciocchezza. Alla fine il ratto si è risolto bene: i giovani romani si sono accasati ed hanno fatto molti figli.-
-Si è risolto bene?- ripeto incredula, inarcando le sopracciglia. -Ma se Tito Tazio ha scatenato una guerra per riavere le ragazze!-
Lo vedo fare un gesto vago con la mano, come se la cosa fosse senza importanza e commenta:
-Ha fatto un errore: le ha prese di santa ragione, così come tutti coloro che hanno avuto l'ardire di sfidare Roma nei secoli successivi.- commenta, orgoglioso oltre ogni limite.
-Si è arreso,- lo correggo risoluta, -solo perché le sabine rapite si sono messe in mezzo con i loro pargoli, per non dover vedere i propri mariti ed i propri padri e fratelli scannarsi per loro.-
-Quisquilie. Avremmo vinto comunque noi.- taglia corto.
-Può essere.- concedo.
-E' sicuro.- sottolinea con fermezza. -A dispetto di traditori alla stregua di Tarpea, abbiamo vinto comunque.-
-Già, Tarpea. Lei ha tradito perché amava il denaro ed i sabini l'hanno ricompensata lapidandola con i loro gioielli e seppellendola sotto i loro scudi. Bello sfregio.-
Fa una smorfia di disgusto e scuote violentemente la testa, commentando secco:
-I traditori non meritano di meglio. Per questo motivo, da allora, chiunque tradisse Roma veniva gettato da una rupe nominata Tarpea, a perenne ricordo.-
-Brutta fine.-
-Fin troppo clementi verso chi tradisce. Oggi,- aggiunge alzando la mano per mostrare i Fori Imperiali, -nessuno più sente il proprio dovere verso la patria.-
-I valori morali hanno registrato un netto calo, ne convengo.-
-Ah!- esclama rassegnato. -Se solo ci fossi ancora io alla guida di questo popolo che non sente più l'orgoglio di essere romano, che gode di un'indisciplina vergognosa…-
Sorrido e provo ad immaginare i romani di oggi sotto le grinfie di Romolo e giungo alla conclusione che, per noi, è meglio che lui sia vissuto secoli fa. In quel momento il garbino si affievolisce, il sole torna a spuntare da dietro la nube ed io riapro gli occhi, fissando Romolo che svanisce lentamente, lo sguardo sconsolato su ciò che è rimasto della sua città. Poco più in là, in una nicchia, alcuni mazzi di fiori portati da mani gentili fanno ombra ad una tomba, la sua tomba e lui, prima di sparire, sussurra dolcemente:
-Fa piacere sapere che a qualcuno sono rimasto nel cuore.-
Gli sorrido ed istintivamente gli mando un bacio, ringraziandolo per tutto ciò che ha fatto per Roma.

giovedì 5 marzo 2009

Roma vista da me

REA SILVIA
(VIII secolo a.C.)


Osservo il Tevere, il nostro biondo Tevere che scorre placido verso il mare, tagliando in due la nostra amata Roma e mi domando per quale motivo viene appellato biondo. A guardarlo ora, sembra solo un ammasso di acqua marrone dove, ahimé, sguazzano pantecane da dieci chili l'una, galleggiano immondizia e rifiuti vari, dove si affacciano i gatti per afferrare con le loro zampette i pesci che affiorano e dove, bontà divina, qualche pescatore si porta seduto lungo la riva per pescare. Ci vuole coraggio. Non per pescare, ma per mangiare il risultato della pesca. Sospiro scuotendo la testa ed in quell'istante odo sussurrare il mio nome. Mi giro, ma non vedo nessuno, tranne la fila di macchine incolonnate sul lungotevere. Con un'alzata di spalle torno a volgere lo sguardo al fiume ed in quell'istante sgrano gli occhi: il Tevere, il biondo Tevere, è tornato ad essere biondo e cristallino e tutto intorno a me è solo campagna, strida di gabbiani e pesci che guizzano veloci tra le due sponde che si trovano al livello della terra. Al posto delle macchine, delle orribili macchine caotiche, vedo lei, bellissima, con una tunica bianca indosso, stretta in vita da una cinta di cuoio rudimentale e deglutisco prima di riuscire a fare un passo verso la sua figura.
-Come vedi,- esordisce con voce carezzevole, -il fiume all'epoca era biondo per davvero.-
-Già… Ma tu… Mio Dio, ma tu sei Rea Silvia…- balbetto attonita.
Sorride ed annuisce con regalità, indicando il tempio di Vesta lungo la riva sinistra del fiume.
-Io ero una vestale, una sacerdotessa della dea Vesta, pertanto una vergine che sarebbe dovuta rimanere tale fino alla morte. Ma gli dèi avevano deciso diversamente, a dispetto della volontà di mio zio Amulio.-
-Un momento.- l'interrompo alzando una mano. -Tu sei la madre di Romolo e Remo.-
-Sì, è così.-
-E allora, come facevi ad essere una vestale?-
Piega le labbra in un sorriso condiscendente e si volta verso il fiume, mostrandomelo. In lontananza, in una giornata plumbea dove la pioggia veniva giù a catinelle, vedo un'imbarcazione con degli uomini a bordo ed uno di questi che cade nel fiume, chiamando aiuto. Sussulto spaventata e vedo gli uomini in barca che provano in tutte le maniere a governarla contro la furia degli elementi, mentre uno si sporge e tende la mano per agguantare il braccio che sporge dall'acqua.
-Non riusciranno a salvare il loro re.- mormora Rea Silvia. -Quell'uomo si chiamava Tiberino ed il fiume se l'è preso perché era un re buono e saggio. Per questo il fiume è stato battezzato Tevere, a perenne ricordo del re morto annegato. Tiberino è un mio antenato, discendente di Enea, il fuggiasco di Troia.-
Mi giro a guardarla con la bocca aperta e lei continua:
-Il figlio di Enea si chiamava Ascanio Julo, colui che diede vita alla Gens Julia, di cui noi siamo i discendenti. E' evidente che da Enea a noi siano passati alcuni secoli e Tiberino è uno dei tanti re assurti al trono prima dell'avvento di Proca. Proca era mio nonno, il quale, morendo, lasciò il suo regno di Alba ai due figli maschi: Numitore, mio padre ed Amulio, mio zio.-
-Una diarchia.- commento.
-Non proprio. Mio padre, essendo il maggiore, sarebbe dovuto diventare re, ma aveva deciso di lasciare il trono a mio fratello, preferendo rimanere un comune cittadino. Purtroppo, non aveva fatto i conti con mio zio Amulio, il quale ha brigato per salire al trono, uccidendo prima mio fratello, poi, con raggiri di parole e belle prospettive, ha costretto mio padre a farmi divenire una vestale, in modo tale che non potessi avere figli maschi a cui lasciare il trono.-
-Questa cosa è orrenda.-
-Trovi? Da che mondo è mondo, il potere ha sempre fatto gola a tutti e mio zio non ha fatto nient'altro di diverso da quello che hanno fatto gli uomini in avvenire. Per caso, puoi farmi il nome di un solo uomo che sia riuscito a salire al potere senza giungere a compromessi, senza macchiarsi le mani di sangue, senza rinnegare il passato?-
Abbasso lo sguardo e mi mordo le labbra, ben sapendo che ha ragione ma che, comunque, continuo a ritenere raccapricciante ciò che gli uomini giungono a fare pur di spianarsi la strada e divenire qualcuno.
-A quanti anni sei entrata nel tempio di Vesta?-
-Dieci anni. Le vestali erano sempre tre, di natali nobili e venivano allevate fin dalla più tenera età per accudire i sacri cimeli ed il fuoco perenne. Ovviamente, diventavi simile ad una dea, la gente per strada si prostrava al tuo passaggio e vivevi il resto della tua vita nel tempio. A turno dovevamo mantenere il fuoco sempre acceso, pena la morte.-
-Perché?-
-Perché il fuoco era considerato un dono divino e se per caso si fosse spento, carestie, siccità e disgrazie infinite si sarebbero abbattute sull'umanità. Quindi, a noi il compito di tenerlo sempre acceso, allegro e scoppiettante.-
La vedo osservare il tempio ed il suo sguardo si offusca, memore del suo tragico destino e dei capricci degli dèi.
-Eri felice?- domando.
-Felice come può esserlo una giovane e bella donna che sogna l'amore.- risponde con un velo di sarcasmo.
-Amore che a te era negato.-
Sospira mestamente e si tira indietro una ciocca di capelli. E' così bella e dolce che mi chiedo come abbia potuto, suo zio, avere un cuore così duro da strapparla alla vita.
-Un giorno, al tempio,- mi racconta, -venne a trovarmi mia cugina Anto, la figlia di Amulio. Mi raccontò di essersi innamorata di un uomo bello e ricco e che presto si sarebbero sposati per avere figli da destinare al trono. Era il coronamento dei disegni di mio zio. Io e mia cugina ci siamo sempre volute bene, ma lei non poteva capire, in quel momento, quanto potevano ferirmi le sue parole. Anch'io desideravo sposarmi ed avere figli, ma non l'avrei mai potuto fare, a differenza di lei.-
-Frustrante.-
-Fintanto che ero stata adolescente, la cosa non mi toccava, ma con gli anni… Poi…-
La vedo illuminarsi in volto e per un attimo rimane in silenzio, rapita da un fugace ricordo che la porta lontano da me. Io rimango in attesa e sbircio di nuovo il Tevere, dove alcuni gabbiani si tuffano per catturare il pesce e dove un gruppo di contadini si è riunito lungo la sponda per pescare. Sorrido ripensando ai pescatori moderni e mi domando che sapore aveva il pesce all'epoca.
-Poi, un giorno,- riprende a raccontare, -mentre ero al fiume per attingere l'acqua, un guerriero bellissimo mi ha avvicinato, mi ha aiutato con la brocca e siamo rimasti insieme per tutta la notte. Io non potevo saperlo, ma quel guerriero era il dio Marte che aveva preso le sembianze di un uomo per potermi amare.-
-Ma allora… Allora Romolo e Remo…-
-Eh, già, sono i figli di Marte.-
Sorrido, trovando la cosa alquanto sciocca, scettica come qualsiasi persona priva di Fede, ma lei mi fulmina con i suoi occhi ed io smetto subito di sogghignare.
-E' un problema tuo.- mi getta in faccia. -Noi abbiamo creduto per secoli ai nostri dèi e loro ci hanno guardato con fare paterno, indicandoci la via giusta da seguire e punendoci quando eravamo indisciplinati.-
-Come è capitato a te.-
La vedo irrigidirsi per una frazione di secondo, quindi ammette:
-Sì, come è capitato a me. Sono svenuta mentre ero di turno davanti al braciere sacro ed il fuoco si è spento. Inutili i tentativi di farlo riprendere: per colpa mia, la sciagura si sarebbe abbattuta sull'umanità.-
-Ma sei svenuta perché eri incinta.-
-Malaugurio su malaugurio. La morte era l'unico modo per espiare la colpa e neppure essere principessa mi poteva salvare.-
-Ma hai comunque partorito.- faccio notare.
-Sì, certo, ma prima sono stata murata viva.-
Sgrano gli occhi inorridendo e lei mi posa una mano sulla spalla, quasi a volermi confortare.
-Fortuna per me che avevo mia cugina Anto. Lei ha corrotto le guardie, le quali hanno abbattuto il muro e mi hanno portato nelle stanze di mia cugina, al sicuro. E' ovvio che mio zio lo è venuto a sapere, ma a quel punto non poteva più fare nulla: ha lasciato che portassi a termine la gravidanza e quando i gemelli sono nati, me li ha strappati e li ha fatti uccidere dalle sue guardie.-
-Ma non è vero!- esclamo.
Lei sorride e risponde:
-Questo lo so. Ma all'epoca era questa la voce che correva. In realtà, come tutti sanno, le guardie non hanno ucciso i miei figli: li hanno lasciati in una cesta, sul fiume, un po' come Mosè.-
Sorrido ed esclamo come una scolaretta:
-Una lupa si è presa cura di loro. La lupa capitolina, il simbolo di Roma.-
La vedo ridere di gusto e mi fa notare:
-Ma come! Sei scettica sugli dèi ma credi alla favola della lupa?-
Il sorriso svanisce dalle mie labbra e rimango a guardarla con aria interrogativa. Lei allunga la mano e mi scompiglia affettuosamente i capelli, come una madre che vuole riprendere una figlia.
-Certo, una lupa li vide, ne avvertì l'odore e si avvicinò alla cesta, senza divorarli. Fu lo strano comportamento della bestia che attrasse l'attenzione di Acca Larenzia, la donna che si è presa cura dei miei figli. Tutto qui.-
-In questo modo fai crollare un mito.- borbotto querula.
Lei sorride e ribatte:
-E tu perché non vuoi accettare il fatto che Romolo e Remo erano figli di Marte e discendenti di Venere? Gli dèi per noi erano tutto, così come Dio lo è stato per i cristiani.-
-Quindi, asserisci che Enea era figlio di Venere, che i suoi discendenti hanno fondato la città di Alba della quale erano i legittimi re e che tu, ultima in linea diretta, hai avuto una storia con Marte che ha generato il primo re di Roma.-
-Sì, è così. Semplice, no?-
La guardo a lungo, comprendendo che non doveva essere stato facile per lei rinunciare ai figli per ordine dello zio, credendoli addirittura morti e domando:
-Dopo aver partorito, cos'hai fatto?-
-Tu cosa pensi che abbia fatto? Ero stata condannata a morte, se ben ricordi.-
-Già. Sapere che hai dato alla luce il fondatore di Roma, come ti fa sentire?-
-Ora ne sono orgogliosa, ma non dimentico che per fondare questa città, divenuta un impero, è stato sparso il sangue dell'altro mio figlio.-
-Brutta storia.-
-Anche se poi Roma è diventata quello che è, non potrei mai perdonare Romolo. E' stato un grande, ne convengo e nessuna madre potrebbe essere più orgogliosa di me, ma ha seguito le gesta di mio zio e questo, ai miei occhi, inficia tutto ciò che ha fatto.-
-Non essere così severa con lui. Se noi ora stiamo qui a parlare, lo dobbiamo alla sua audacia, alla sua fermezza ed alla sua risolutezza. Ha lasciato nelle mani di Numa Pompilio una città bene avviata, con solide fondamenta dalle quali avrebbe preso il volo.-
-Già, l'aquila imperiale.- commenta volgendo lo sguardo al Tevere. -Chi l'avrebbe detto che dalla fine di Troia sarebbe sorta una nuova e più potente città? Neppure Omero avrebbe potuto immaginarlo.-
-Tu hai veramente sacrificato la tua vita per Roma, prima ancora che Roma sorgesse.-
Sorride e la sua immagine inizia a divenire diafana ed alle sue spalle torna a materializzarsi il traffico caotico di Roma, riportandomi bruscamente alla realtà. Allungo una mano per evitare che la bella Rea Silvia svanisca all'ombra del tempio di Vesta, ma all'improvviso non la vedo più ed il biondo Tevere è tornato ad essere melmoso e marrone.