giovedì 22 gennaio 2009

Come convivere con uno sport sconosciuto - 3

Il bello è che quando vedi entrare in campo la tua squadra, ti chiedi dove sia l’altra: che non c’è.
Ora, la domanda è d’obbligo: se sul diamante entra solo una squadra, contro chi diavolo giochiamo? Ce la cantiamo e ce la suoniamo tutta da soli? Sembrerebbe di sì.
E invece no.
Tu non lo sai, ma sta per scatenarsi l’inferno.
Come? Semplice, come E=mc².
Adunque, uno, uno solo degli avversari entra baldanzoso in campo, brandendo la mazza coma la clava di cui sopra. E tu lo vedi e ridi.
Ridi, sì, perché pensi: costui vien da solo a battersi contro i nostri nove? Lo faremo a pezzettini.
E invece no.
Quello che mi sono sempre chiesta quando vedevo i film americani, era come si potesse pensare di poter prendere una palla da tennis con una mazza sottile.
Impossibile.
Se poi provi a pensare che la palla in questione ti arriva addosso con una velocità da fare invidia ad una macchina in corsa, ti ripeti che è matematicamente impossibile.
E invece no.
Questo sport sembra andare contro tutte le leggi della fisica, con buona pace di Einstein.
E invece no.
E te ne accorgi quando l’unico, il solo giocatore avversario si posiziona sul piatto, la cosiddetta area di strike e riesce a battere la palla ed a correre in direzione della prima base.
L’avversario corre. E i nostri che fanno?
Gli esterni! Finalmente è giunta la palla ad uno degli esterni che stava beatamente raccogliendo la cicoria. Ed è allora che vedi il nostro eroe correre a capo fitto per cercare di prendere al volo la palla, in modo tale da eliminare il battitore che, nel frattempo continua a correre verso la prima base e, per questo, ora si chiama corridore.
Buttarsi a capo fitto? Ma figuriamoci!
Il cicorione sta lì, sperando che la palla abbia il buon senso di entrare da sola nel guantone. E non entra. Allora si china per prenderla, ma pare che il guantone sia bucato ed allora la palla gli ruzzola tra le gambe. E quando, infine, riesce a prenderla in mano e, riconosciuto l’oggetto misterioso, la solleva a mo’ di trofeo, alza lo sguardo e si accorge che il corridore continua la sua corsa, alcuni suoi compagni si sbracciano per mettersi in mostra, altri si girano per timore di ricevere la palla e lui non sa a chi darla. La lancia al più vicino, che prova a prenderla con l’entusiasmo di un condannato a morte, ma non ci riesce, anche il suo guantone è bucato e la palla ruzzola di nuovo ed il corridore corre e tocca la prima base e noi genitori urliamo:
-Fermate quella palla!-
E l’allenatore urla a sua volta di lanciare in seconda base per bloccare la corsa vittoriosa del corridore.
Ora, tu genitore, pensi sgomento che l’avversario abbia fatto il punto, perché è giunto in prima base e ti disperi: se arriva in seconda base fa il secondo punto e così via.
E invece no.
Come no? Non si fanno punti in questo gioco? Ma allora perché il tizio corre e gli altri si sgolano?
Ebbene, il punto, il misero punto, in questo gioco si fa quando il corridore tocca di nuovo casa base. Pertanto, lui può anche affannarsi a correre da una base all’altra, ma fintanto che non torna sul piatto dove ha battuto, non fa punto.
Be’, allora c’è speranza.
In fondo, tornando a calcoli matematici che variano a seconda della velocità del battitore/lanciatore, i nostri piccoli cicoriosi bambini hanno circa 5 secondi per: vedere la palla, lasciare la cicoria, cercare la pallina che nel frattempo continua a rotolare, prenderla, riconoscerla, salutarla, sollevarla, sentire le urla dell’allenatore, lanciarla nel posto sbagliato, riprenderla e lanciarla al compagno sbagliato, il quale, sorpreso, dovrà rielaborare i dati e decidere in base agli insulti ricevuti dal suo allenatore ormai in preda al delirio, dove mandarla.
Nel frattempo vedi l’avversario involarsi verso casa base, mentre i nostri giovani leoni continuano nella ricerca della strategia mirata a contenere quella cavalcata delle Walkirie. Ma Brunilde torna a casa base e porta a casa il misero punto.
Caspita. Uno solo contro nove è riuscito a fare punto. Una simile cavalcata in gergo, se la palla colpita non fosse ricaduta in campo ma fosse andata oltre, si chiama home run. E di questi home run il Joe di Maggio di cui sopra ne ha fatti tanti, ma tanti, ma tanti, spedendo ogni volta la palla in mezzo al pubblico. E la bella Marilyn Monroe ci ha visto lungo a sposarselo.
Ordunque: prima mazzata tra capo e collo.
Ma ora ci rifaremo. Abbiamo nove inning.
Inning?
Sì, inning. Nove tempi, praticamente.
Ora, voi capirete bene che noi romani, abituati all’unica parola inglese che è goal, ci siamo trovati spiazzati da tutto un gergo americano che all’improvviso ci è caduto sulle spalle e tu, per non fare la figura dell’ignorante, la sera a casa ti sei andato a rispolverare il tuo inglese scolastico fatto di semplici frasi tipo: buongiorno, mi chiamo Tizio, abito a Roma, come stai, e altre banalità del genere.
Finché c’è da rimorchiare la turista alta, bionda, con gli occhi cerulei, una svedese che pure in pieno inverno se ne va in giro per le vie di Roma con i pantaloncini e le mezze maniche, va bene, è più che sufficiente, sebbene per certe cose si usi un linguaggio universale. Ma per altre cose…
Come? Come dite? Non è necessario neppure quel poco? Devo essere proprio attempata se sono rimasta così indietro con i tempi. Va bene, concesso.
Ora, torniamo alla svedese coscia lunga di due metri, vi chiederete: come fa a non congelarsi? Ok, ok, non è questa la sede.
Dunque, a noi romani basta veramente poco di inglese, perché siamo molto attaccati alle nostre origini ed amiamo oltremodo la nostra lingua, tanto da non volerne imparare altre. Del resto, come poter fare a meno dei vari:
-L’anima de li mortacci tua!-
-Ancefalitico!-
-Sto fio de ‘na mignotta!-
-Annamo lì, annamo là, famo qui, famo là…-
Volete mettere? Noi romani adoriamo l’italiano… Magari troviamo un po’ di problemi con internet, quando ci torna indietro una e-mail con un messaggio in inglese dove ci avvertono che l’indirizzo è errato e la lettera è tornata indietro. Rimaniamo ore in contemplazione di quel messaggio, sbattendo gli occhi e chiedendoci cosa diavolo significa.
Però internet è bello. Ci trovi di tutto. E tutto in inglese.
Un momento… A pensarci bene, ci trovi pure il baseball! Allora, sempre per non fare la figura del troglodita, inizi a digitare sulla tastiera tutto ciò che concerne questo sport e trovi pagine e pagine tutte in inglese e allora strabuzzi gli occhi, ti munisci finalmente di vocabolario e cominci a sfogliare le pagine: strike, ball, out, faul, pick off, bunt, home run, batter, pitcher, catcher, runner, inning…
Caspita, ma non finisce più? Non era più semplice goal? No, perché se non ci complichiamo la vita non siamo contenti.
Ma torniamo al diamante.
Se qualcuno vi dicesse:
-Come stai a casa?-
-Bene, grazie.- è la risposta ovvia.
E invece no.
A quella risposta vedi il coach che si arrabbia come un bufalo e ti ripete la domanda. E tu, che ti trovi sul piatto di battuta, con la clava sulla spalla, ti chiedi dove hai sbagliato. Perché sicuramente hai sbagliato, altrimenti il coach non si sarebbe imbufalito. Allora ci pensi un po’, fai mentalmente l’elenco di tutte le malattie di cui soffrono i tuoi parenti e giungi alla conclusione che, sicuramente, il tuo allenatore sa che qualcuno a casa sta male.
-Be’, in effetti, mia nonna soffre di emicranie…-
Bontà divina!
Il coach sbatte il berretto per terra e tu, per contrasto con l’amaranto della divisa, diventi cinereo.
L’allenatore altro non vuole sapere che punteggio hai. Ossia: quanti strike e quanti ball . Ovvio.
Che vuol dire? Mi porto a casa gli strike ed i ball?
No, semplicemente a tre strike il battitore è eliminato ed a quattro ball guadagna la prima base.
Ah, ora è chiaro. Non c’entravano nulla le malattie in famiglia. No, decisamente no.

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